Roma e lo Stato del Papa/Capitolo XIV
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CAPITOLO XIV.
Viaggio del Papa nelle provincie.
Da principio fu detto che il viaggio avesse una meta più vicina: il santuario di Loreto, e un eventuale prolungamento a Senigallia, dove Pio IX non era mai andato da Papa. Pareva imprudente prolungarlo oltre il Misa, e più imprudente mandare il Papa a Bologna, e a Ravenna, dove era ancora profonda l’impressione dell’assassinio del conte Francesco Lovatelli, avvenuto sei mesi prima. Ma Pio IX non si fece vincere da considerazioni di prudenza, e assai meno da paura. Volle anzi sfidare i settari nei loro covi d’Imola, di Faenza, di Lugo e di Cesena, e i liberali moderati, ch’egli chiamava «costituzionali», a Bologna. Del Minghetti e del Montanari, suoi ministri nel 1848, eragli rimasta non sgradita memoria. Aveva veduto il Pasolini a Roma, un anno prima, ed era sicuro che l’avrebbe riveduto ad Imola ed a Ravenna.
La guarnigione austriaca, con relativo stato d’assedio, e la polizia pontificia, stavano mallevadrici dell’ordine, sino a dileguare qualsiasi timore, mentre il segretario di Stato, alla sua volta, faceva, ai delegati e ai governatori, assoluto divieto di autorizzare convocazioni straordinarie dei Consigli municipali, per evitare ogni occasione di dimostrazioni, o di richieste imprudenti. Nel tempo stesso si lasciavano venire deputazioni dalle provincie in Roma, per invitare il Papa a fermarsi nelle principali città delle regioni. Quella di Bologna, composta dei marchesi Guidotti e Marsili, e dei prelati Alberghini e Ricci, fu la prima ad essere ricevuta, e ad essa Pio IX promise di visitare la sua cara Bologna. Ancona mandò tre deputazioni, alle quali fece promesse rassicuranti, come ne fece altresì ai delegati d’Imola e di Ravenna, e solo al conte Beni, rappresentante di Urbino, il Papa rispose che avrebbe fatto il possibile, ma non poteva prendere impegno di spingersi fin lassù.
Era il primo viaggio di Pio IX in quelle provincie, e fu anche l’ultimo. Nato di qua dalla Cattolica, e già vescovo d’Imola, erano a lui note, ma con apriorismi ecclesiastici, le condizioni delle Legazioni, nè era la mente di lui la più adatta ad intuirle. Nelle Legazioni e nelle Marche imperava sempre l’Austria; e se le fucilazioni erano divenute più rare, lo stato d’assedio durava sempre; e se l’anarchia, di cui quelle provincie furono sanguinoso teatro dal finire del 1848 fino al 1856, era stata repressa, la repressione aveva lasciato un lievito di odii, e un desiderio di vendette così pungente, che se Pio IX avesse potuto penetrare nella coscienza pubblica, avrebbe riportata la convinzione, che i desideri si potevano condensare in uno solo: essere col Turco, anzichè con Roma. Lo spirito laico delle classi dirigenti, nelle città; l’indole della razza, e i nuovi orizzonti aperti dopo la guerra di Crimea, ed il Congresso di Parigi, lasciavano vedere quanto fosse fragile il filo, che univa quelle provincie a Roma, come si vide due anni dopo, appena partirono gli austriaci. E perciò opportunamente, dal suo punto di vista, il cardinal Antonelli aveva vietato le riunioni straordinarie dei Consigli municipali, e fatto intendere ai gonfalonieri ed alle magistrature, che le richieste da rivolgere al Pontefice sarebbero state tanto più gradite e concludenti, quanto più discrete e limitate ai bisogni locali. Nulla si voleva, che avesse l’aria di riforme amministrative, e assai meno legislative; nulla, che rammentasse le promesse, non mantenute, del motuproprio di Portici, nè quelle di Luigi Napoleone nella lettera al colonnello Ney; nulla insomma che riguardasse la politica. Obbiettivo del viaggio non era quello di affaticarsi, per scoprire i bisogni delle popolazioni, ma di percorrere rapidamente le città del piano, ripulite e messe a festa per la circostanza, in comode vetture, e a brevi tappe, fra squadre di soldati e di ecclesiastici, fra turbe di contadini, credenti e plaudenti, visitando monasteri, chiese e luoghi pii, e provocando dimostrazioni che esaltavano Pio IX, e ch’egli credeva bastassero a smentire quanto si era asserito contro il suo governo. Nelle condizioni dello spirito pubblico in Romagna, un qualche miglioramento si era verificato, ma non sì però, che il conte Giuseppe Pasolini, spirito temperato, quasi mistico, in una lettera scritta un anno dopo, nel 1858, al suo amico Ghezzo, non uscisse in queste gravi parole: «... e fatiche e noie, e assassinii in città (Ravenna) e ladri in campagna, e sempre in mezzo alla gente dappoco o cattiva, che per la strettezza del luogo, prende forza e considerazione... Veggo purtroppo ingigantire tutti i mali dei nostri paesi, dove anche i buoni tendono al male».
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Il Papa partì alle 7 antimeridiane del 4 maggio 1857, uscendo da San Pietro, dove aveva sentito la messa, e baciato il piede alla statua del principe degli Apostoli. I cardinali palatini Antonelli, Spinola, Macchi e Falconieri, i ministri e il Capitolo vaticano l’accompagnarono sino al monumentale carrozzone, nel quale montò con monsignor Borromeo, maggiordomo, e monsignor Pacca, maestro di camera. Quel carrozzone, che aveva tutte le comodità del tempo, ed era tirato da sei cavalli, si ammira oggi nelle scuderie pontificie, ed è argomento di curiose osservazioni. Dirigeva il corteo il principe Massimo, direttore delle poste, e nelle carrozze, che seguivano quella del Papa, salirono monsignor Berardi, sostituto alla segreteria di Stato, col minutante Sabatucci;il dottor Carpi, medico ordinario di Sua Santità; il maestro di casa, Zangolini; monsignor Hohenlohe, elemosiniere; monsignor Cenni, primo chierico di camera, ed un largo stuolo di cappellani e di guardie nobili, sì da parere una processione. Il generale Goyon, a cavallo, accompagnò il Pontefice oltre porta Angelica. Nessun ministro segui il sovrano, per isvogliare così i sudditi da indiscrete domande. I romani guardarono con indifferenza l’allontanamento del Papa; e poichè rimaneva l’Antonelli insieme al fratello Filippo, direttore della banca romana, Pasquino salutò la partenza di Pio IX con questo motto: Santità, parti, e ci lasci Filippo e Giacomo! È da ricordare, che i santi Filippo e Giacomo sono insieme congiunti nel calendario.
La sera dello stesso giorno l’augusto viaggiatore fu a Civita Castellana; il cinque a Terni, dove si fermò non più di due ore, impaziente com’era diarrivare a Spoleto, che non vedeva dal 1832, quando, da arcivescovo di quella diocesi, fu mandato ad Imola. Molto festeggiato, passò ivi la notte, ed il sette ripartì per Foligno, donde mosse per Assisi. Il primo solenne ingresso ebbe luogo a Perugia, il giorno otto. Una notificazione del cardinal Pecci, vescovo della città, in data 30 aprile, annunziava che «la Santità di N. S. Papa Pio IX ha determinato di muovere sui primi dell’imminente maggio dalla capitale per recarsi a venerare la santa Casa di Loreto, e deviando appositamente dal diretto stradale, si degnerà di onorare questa nostra città di sua augusta presenza». Delle accoglienze ricevute a Perugia, e del soggiorno fattovi fino al dieci, l’Osservatore del Trasimeno diede una iperbolica relazione. Il capitano del genio Forti, uomo di gusto artistico, e papalino fanatico, ideò archi, loggiati, addobbi e luminarie; trasformò la fortezza in esedra, collocandovi nel mezzo una statua in gesso del Papa; e monsignor Bellà, delegato pontificio, che voleva farsi onore, forniva il denaro necessario, raccolto dai municipi e dagli altri enti morali. Credettero i liberali di non provocare alcuna protesta, ma fecero ogni opera, benchè vanamente, per attutire gli ardori delle popolazioni campagnole.
Le dimostrazioni ad Assisi non furono eccessive, ma dal ponte San Giovanni, su su per la pittoresca strada, che s’inerpica sulla collina, assursero ad una nota entusiastica. Da ogni parte della valle fu un accorrere di contadini, dell’uno e dell’altro sesso, raggruppati per parrocchie, coi rispettivi pastori alla testa, ed un risuonare di evviva e di grida imploranti la benedizione. A porta San Pietro il Papa venne incontrato dal giovinetto Carlo Salvatore, secondogenito del granduca di Toscana, il quale, accompagnato dal gran ciambellano, principe Corsini, e dal maggiordomo Arrighi, era venuto a salutarlo da parte di Leopoldo II. Il Papa alloggiò nello storico palazzo del delegato, dove ora è il municipio, mentre il figlio del Granduca fu ospite di casa Conestabile della Staffa. Lungo il percorso, le campane delle numerose chiese suonavano a festa, e lo scampanio, che quasi soffocava i concerti, fece appena avvertire qualche isolato segno d’applauso. Quando il Papa giunse al duomo, la piazza si riempì tutta, in attesa della benedizione. Poco dopo Pio IX comparve sulla loggia del palazzo; allora si udì distinto, nelle vicinanze della scala, un grido di evviva, emesso con tremula voce da un curato di campagna, e ch’ebbe breve seguito di battimani da parte dei contadini, aggruppati intorno a quel prete. Il dì seguente il Papa, accompagnato dal vescovo, e dal delegato, visitò il duomo, l’Università, San Pietro, San Domenico e la privata colonia agricola del Bianchi; invitò a pranzo il principe toscano, e le autorità di Perugia; e nel partire, ricevette l’omaggio di un ricco album, contenente la riproduzione dei monumenti storici della città, dipinti ad acquerello dai giovani artisti dell’istituto di belle arti, fra i quali il Bruschi, il Moretti e il Salvatori, che poi salirono in fama.
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Il Papa partì, il giorno dopo, per le Marche, scendendo a Foligno; e di là, per Colfiorito, su per l’Appennino, si recò a Loreto, dove fu ossequiato dall’intendente di Teramo, e dal brigadiere dei sedentari, De Carolis, che aveva un comando di piazza negli Abruzzi, e dai consoli di Francia e d’Austria, di sede in Ancona. A Loreto fu accolto da entusiastiche dimostrazioni, e tanta fu l’ebbrezza, che pervase il popolino, da tentare di staccare i cavalli dalla vettura, e di trascinarla a mano su per l’erta della città. Il 16 maggio andò a Fermo, dove riposò una notte, ospite dell’arcivescovo, cardinale De Angelis, soprannominato Scarpone. La mattina del 18 partì per Ascoli, dove i giovanetti delle migliori famiglie, adorni di una fascia bianco-gialla, spargevano fiori per le vie, lungo le quali erano stati innalzati archi di trionfo. Dopo aver elevata quella cattedrale a dignità di basilica, e largheggiato di piccole beneficenze, e decorazioni, Pio IX. passò ad Ancona, e di là a Senigallia, dove egli stesso aveva predisposte le case per l’alloggio proprio e del seguito, scrivendo da Roma, al fratello Gabriele, la seguente caratteristica lettera:
- Carissimo fratello Gabriele,
La notizia della quale vi parlai già l’avrete conosciuta, e cioè il mio viaggio a Senigallia, ove direte che il municipio non faccia spese. Vi scrivo pertanto, e vi prevengo che alloggerei in casa, e perciò le spese, che farete per ripulire e mettere qualche mobile, vi saranno da me tutte rimborsate.
Vedrete da voi che tutti quanti, nemine excepto, bisogna che abbiate pazienza per una o due notti, ossia per 48 ore, di escire e di abbandonare la casa, ed io vi faccio qui la precisa divisione delle persone pel loro collocamento.
Nel primo piano starei io, e nel camerino del cortile un letto per il cameriere, oltre uno o due letti in sala dietro il paravento per due famigliari. Nella vostra camera monsignor Cenni. Nelle camere di vostra moglie monsignor Hohenlohe. Li altri tre camerieri segreti uno nella camera di nonno conte Ercole; l’altro in quella di don Antonio; ed il terzo nelle due camere incontro.
Nel vicino palazzo comunale dovranno abitare i monsignori maggiordomo e maestro di camera, e sostituto della segreteria di Stato, monsignor Berardi.
Nello stesso palazzo pranzeranno quelli della così detta tavola di Stato. Io pranzo da me, meno qualche assistente che credessi chiamare, e in Senigallia questi assistenti sarete voi altri di famiglia.
Ripeto che le spese indispensabili di qualche modesto, ma conveniente preparativo, vi saranno rimborsate.
Il tempo in cui questo dovrebbe accadere, se Dio lo permette, e cioè la mia presenza in Senigallia, sarebbe nella seconda metà di maggio.
Ciò è quanto dovevo dirvi, e vi comparto a tutti l’apostolica benedizione.
- 20 aprile 1857.
Pio P. P. IX.
E quest’altra:
- Carissimo fratello,
. .. Per ciò che riguarda la mia venuta a Senigallia, questa sarà preceduta da due miei famigliari, che ispezioneranno la capacità dei locali.
Se vi dicessi che occorrono 40 letti, non direi cosa esagerata. Sono undici prelati di primo e second’ordine. Vi è un picchetto di guardie nobili. Vi sarà il principe Massimo direttore delle poste, ecc. Aggiungete i domestici miei e degli altri, e poi vedrete che i 40 letti non sono esagerati. Voi desiderate che prolunghi il mio viaggio. Avete però veduto col fatto che altre 40 miglia sono stabilite. Il resto dipenderà dalle circostanze, non ultima delle quali i mezzi di sovvenzioni.
Vi benedico con tutta la famiglia.
Pio P. P. IX.
PS. La narrazione che vi ho fatta dei viaggiatori, non varia nulla di quanto ho stabilito per quelli che alloggeranno in casa.
A Senigallia fu accolto con deferente rispetto. La mattina del 27 celebrò la messa nella chiesa della Maddalena, in suffragio delle anime dei suoi genitori, e somministrò di sua mano ai membri della sua famiglia il sacramento dell’eucarestia. Poi ricevè i suoi antichi coloni, che gli presentarono frutta e fiori, e con essi si trattenne famigliarmente. Insignì della gran croce dell’ordine Piano il fratello Gabriele, e della commenda gli altri due, Giuseppe e Gaetano, ed il nipote Luigi, primogenito di Gabriele.
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Da Senigallia mosse per Fano, dove sostò qualche ora, e di là, a Pesaro, dove l’attendevano, per fargli omaggio, il giovane arciduca Massimiliano, vicerè del Lombardo-Veneto; una deputazione di San Marino, ed una di Cesena. In quest’ultima città arrivò il 2 giugno, alle 7 pomeridiane. Il gonfaloniere, Angelo Ghini, aveva pubblicato il giorno prima un manifesto prolisso, nel quale, annunziando l’arrivo del Pontefice, aggiungeva che per arrecare conforto «al cuore magnanimo e pietoso della Santità Sua, il municipio aveva stabilito di sollevare la classe miserabile colla restituzione gratuita dei pegni, non superiori ai baiocchi venticinque, esistenti in questo santo Monte di pietà a tutto il giorno del suo arrivo». E come a Cesena, in quasi tutte le città principali, la visita pontificia fu accompagnata da piccoli atti di beneficenza, che compivano i municipî sui propri fondi. |
Le notizie della visita a Cesena sono riportate nelle cronache manoscritte, che si conservano in quella biblioteca comunale, dal titolo: Giornale di fatti î più memorabili, accaduti in Cesena ed altrove, e che hanno relazione con questa città, raccolti dal sacerdote Gioacchino canonico Sassi di detta città, dall’anno 1856 all’anno 1860. Sono undici volumi. Dalla pagina cento alla pagina centoventuno si leggono i ragguagli circa l’arrivo del Papa, il suo alloggio nel sontuoso appartamento dell’episcopio, messo a sua disposizione dal vescovo Orfei, le visite fatte al municipio e ai conventi, i doni, le largizioni, e le decorazioni concesse. Vi sono registrate delle piccinerie: il Santo Padre, scrive il Sassi, nell’ammettere poi al bacio del piede le alunne Esposte, si è compiaciuto d’interrogare sulla dottrina cristiana una putta di anni 8 circa, per nome Ellena (sic), appartenente al suddetto conservatorio, e chiestile i comandamenti di Dio ed i sacramenti, e la putta senza punto scoraggiarsi ha risposto sì bene, che il Papa tutto lieto, l’ha regalata di un suo ritrattino d’argento, coniato nell’anno presente. E ancora: in tutto il tempo che il Santo Padre si è trattenuto in fra noi, ad ogni quarto d’ora, è stato sempre sparato un colpo di mortaro. E così la cronaca sassiana s’indugia nei più minuti particolari sino alla benedizione, data dalla terrazza del palazzo comunale, nella storica rocca malatestiana.
Alle onoranze in Romagna diedero largo contributo le muse. Nello stesso archivio di Cesena esiste un curioso volume dal titolo: Alla Santità di Nostro Signore Pio P. IX, felicemente regnante, nel suo passaggio per Cesena, îl magistrato della città, interprete della pubblica letizia riverente consacra1. Esso contiene sonetti, stanze, versioni libere dal canto di Zaccaria, inni latini e italiani, epigrafi, odi ed epigrammi, materiati tutti da una suprema adulazione, perchè nulla di particolare aveva fatto Pio IX per quella città. I vati, che sperarono di eternare i loro nomi, erano quasi tutti ecclesiastici, tre dei quali divennero poi vescovi. Sopravvive monsignor Foschi, pastore di Cervia, allora chierichetto ventenne, e qualche altro. A titolo di lode, deve ricordarsi, che i due maggiori cittadini di Cesena, Maurizio Bufalini e Zeffirino Re, richiesti della loro collaborazione, rifiutarono di segnare i propri nomi nell’adulatorio volume.
Il Papa, partendo, lasciò trecento scudi ai poveri, una pianeta di lamina d’argento alla cattedrale, dette alcune decorazioni, e distribuì qualche dozzina di papetti, nuovi di zecca, ai ragazzi, che, vestiti da angioli, gli offrivano dei fiori, loro dicendo: tenete il mio ritratto in memoria mia. Questo particolare si trova nelle memorie della Zelinda Fattiboni, da me consultate nella stessa biblioteca comunale. A Cesena si notò che il Papa portava seco le ostie, ed il vino per la messa, forse per premunirsi da qualche possibile avvelenamento.
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La sera del 3 giunse a Forlì. Sull’arco trionfale, eretto all’ingresso della piazza, si leggeva questa epigrafe:
PII IX P. M.
desideratissimo adventu
forum livii beante
Altre iscrizioni erano sulla porta del duomo, dell’ospedale, del palazzo comunale e di finanza, e sulla porta Schiavonia.
Essendo corsa voce che il Papa, nel momento che si presentò sulla terrazza dell’odierno palazzo comunale, dove alloggiò, e che allora era sede del delegato apostolico, fosse stato accolto da fischi, volli interrogarne il mio compianto amico professore Mazzatinti, il quale, sulla testimonianza del signor Apelle Santarelli, colonnello a riposo, ch’era presente alla benedizione, dà al fatto questa più modesta versione: che, cioè, essendosi, in mezzo alla folla, tentato da taluno di provocare un applauso, gli fu da alcuni liberali ricalcato in capo il cappello a cilindro; ciò che naturalmente lo persuase a desistere dal suo tentativo; nè sì seppe chi egli fosse. Altri particolari, non interessanti, si leggono nella cronaca inedita del Calletti, che va dalle origini della città al 1860. Il Papa visitò il seminario; e qui dall’alunno undicenne Tito Pasqui gli fu recitato un componimento in versi latini. Questo ragazzo fu, due anni dopo, uno dei più irrequieti distributori di cartellini rivoluzionari; poi volontario di Garibaldi nel Tirolo, e a Mentana. Oggi è ispettore generale al ministero d’agricoltura. Nel pomeriggio del 5 il Papa prese la via di Faenza, e avanti di partire conferì al gonfaloniere Pietro Guarini la conferma per tre anni di tale dignità, e la commenda dell’ordine Piano; la stessa commenda al marchese Albicini, consultore di delegazione, e la croce di cavaliere dell’ordine di San Gregorio al conte Francesco Mangelli, anziano municipale, e altre croci ad altri personaggi.
A Faenza tre amministratori provinciali di Ravenna, il marchese Vincenzo Cavalli, il conte Cesare Rasponi Bonanzi, e il dottor Giuseppe Malagola, rinnovarono al Papa l’invito di una visita a quella città, già a lui fatto in Loreto, da una deputazione composta del gonfaloniere e degli anziani Francesco Donati e Ippolito Rasponi. Giunto in Imola la sera del 7 giugno, vi fu accolto con devota espansività. L’attendeva il marchese Pallavicini, per ossequiarlo a nome della duchessa di Parma; s’intrattenne con molte persone, ed ebbe col conte Giuseppe Pasolini il primo colloquio politico, che questi riferisce nelle sue memorie2. E in quel colloquio Pio IX rivelò apertamente l’animo suo. Io ho visto, disse al Pasolini, le magistrature di tutti i paesi; tutte mi hanno parlato di bisogni locali, cui mi sono sforzato di sodisfare il meglio possibile, nessuno di bisogni governativi. Ed era naturale, dopo quanto si è detto, che le magistrature si limitassero ad invocare provvedimenti d’indole locale, astenendosi dal suggerire qualsiasi riforma nella giustizia, nella polizia e nelle amministrazioni pubbliche, soprattutto delle ricche e numerose opere pie. E quando il Pasolini gli rispose: a Bologna Vostra Santità troverà bene spiegata questa necessità, il Papa saltò fuori con queste parole: Là c’è la quintessenza di liberalismo; ed aggiunse: ma se questi governi liberali debbono assomigliare a quello del Piemonte, debbono essere anticristiani, ed in fondo disgustare una parte grandissima della popolazione. La quale risposta, confermata in altri successivi colloqui, ch’ebbe a Bologna con lo stesso Pasolini e col Minghetti, dimostrò chiaramente la ripugnanza di lui ad ogni civile miglioramento, e la sua caratteristica avversione al Piemonte. Ed a maggior conferma de’ suoi propositi, giova qui riferire le testuali parole, con cui die’ commiato al Pasolini: cambiamenti sostanziali io non ne voglio, disse, ci vorrebbe un’armata. Chi è stato scottato dall’acqua calda teme la fredda. Poi quei giornali, che si stampano în Piemonte, e che io leggo, tolgono perfino il piacere di far grazie e riforme. Ma queste fiere manifestazioni del Pontefice furono ben lungi dallo scorare il Pasolini e il Minghetti, i quali invece ne trassero ardire, per ritentare con maggior lena la prova, come si vedrà.
Lasciata Imola, dove, fra le altre onorificenze, conferì la commenda dell’ordine Piano al vecchio gonfaloniere conte Giovanni Codronchi-Argeli, l’amico di Leopardi e di Giordani, uno dei personaggi più eminenti di Romagna, e zio del presente senatore Codronchi, che l’ha commemorato in un interessante articolo3, il 9 giugno Pio IX fece il solenne ingresso a Bologna, da porta Maggiore. Il senatore, marchese Luigi da Via, gli consegnò le chiavi della città. Bologna era considerata la seconda capitale dello Stato, e perciò le accoglienze dovevano superare in ufficialità tutte le altre. Fuori porta Maggiore, lungo la strada, quasi sino alla borgata degli Alemanni, erano stati rizzati dei palchi per assistere al corteo, ed ai quali si accedeva con speciali biglietti d’invito, color amaranto, con la scritta: per l’arrivo di N. S. Pio IX, incontro solenne. Ogni biglietto portava il numero del palco e lo stemma del comune: il leone rampante e il motto Libertas. Il Papa entrò nella città fra i cardinali Corsi e Vannicelli. Lungo il percorso erano schierate le truppe austriache, ed in piazza San Petronio le pontificie. Le accoglienze non furono clamorose, ma intonate a cordiale ospitalità. Smontò al palazzo del delegato, dov’è oggi la prefettura, e ricevette subito il conte di Bissinghen, luogotenente delle provincie venete, e il conte Giulay, comandante supremo delle forze austriache in Italia, insieme ad altri comandanti e generali, e numeroso stato maggiore. Bologna non ospitò mai tanti cospicui personaggi. Arrivarono via via il duca e la duchessa di Modena, il re Ludovico di Baviera, la duchessa reggente di Parma coi figli, il granduca di Toscana con la famiglia, la duchessa di Berry, e il conte D’Alte, ministro di Portogallo a Torino. Vi giunse pure da Firenze Carlo Boncompagni, ministro di Sardegna, amicissimo del Minghetti, del conte Malvezzi de Medici, e del marchese Tanari. Il 13 giugno Pio IX trasferi la sua dimora in San Michele in Bosco.
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Il Minghetti e il Pasolini hanno consacrato nei propri Ricordi i loro colloqui col Papa, e altre interessanti notizie son contenute in una lettera, scritta dal principe Rinaldo Simonetti ad Aurelio Ceruti, e pubblicata dal Silvagni nel terzo volume della sua opera. I due ex-ministri, ritrovatisi dopo tante vicende alla presenza del sovrano, non si lasciarono sfuggire l’occasione per insistere sulla necessità di civili riforme, ma il Papa obiettava che le esigenze erano smodate, ed evocando il ’48, si schermiva abilmente dalle parole del Minghetti, circa l’occupazione straniera. Erano le sue risposte evasive, o impacciate, ma non prive di arguta bonarietà, e anche di sincerità. Il suo spirito frivolo sì fermava alla scorza delle cose, non vi si addentrava, non intendeva la gravità delle osservazioni, le quali, non senza coraggio, gli facevano il Minghetti, il Pasolini e il Montanari. Il primo colloquio col Minghetti si chiuse così:
Pio IX: Signor costituzionale, Dio vi benedica.
Minghetti: Santità, questo titolo lo accetto francamente, e duolmi solo che le mie idee non abbiano potuto trovar adito nell’animo di Vostra Santità.
Pio IX: Il mondo è troppo agitato; il momento inopportuno; le riforme non sono eseguibili.
E il secondo colloquio col Pasolini finì, più malinconicamente, con queste parole: Dunque, anche voi, mio caro conte, mi lasciate, disse il Papa. E il Pasolini: No, Santità, non siamo noi che lasciamo Lei, è Lei che ci abbandona. Ed anche contro il Piemonte non risparmiò in quell’incontro severi apprezzamenti. Il Piemonte, disse, è dominato da idee antireligiose, e vuol pigliarsi tutta l’Italia. Egli non si nascondeva infatti che tutto il pericolo veniva di là, come non se lo nascondevano Ferdinando II di Napoli, il granduca di Toscana e i duchi di Modena e di Parma, e come, meglio di loro, l’intendeva la corte di Vienna. E tanto era il Papa consapevole di quel pericolo, che in uno dei discorsi tenuti col Minghetti, perdendo ogni misura, non dubitò di uscire in queste aspre parole contro il Piemonte: Già vi si sta male. Vi si perseguita la religione. Ogni oltraggio che si può fare alla Chiesa non si tralascia.1l Re... poveretto, farebbe meglio a trebbiare il grano! V’è un ministro incredulo, il Rattazzi; Cavour ha ingegno, ma dubito che anch’egli abbia poca religione. L’avversione del Papa verso il Piemonte era particolarmente acuita dal ricordo del Congresso di Parigi. Non era a lui nascosto, che la nota contro il governo pontificio, della quale si era servito Cavour, nella seduta dell’otto aprile, era stata manipolata a Bologna dal Minghetti e dai suoi amici, tanto che, nell’ultimo colloquio con costui, per istrappargliene la conferma, non seppe tenersi dal dimandargli a bruciapelo: parlatemi chiaramente come al confessore, la nota a Cavour fu manipolata a Bologna?
E della sua animosità contro il Piemonte volle il Papa dare una chiara e pubblica prova, quando, per ricevere il Boncompagni, incaricato da Vittorio Emanuele di recarsi a fargli speciale omaggio, scelse proprio il giorno, e quasi l’ora stessa, in cui dal balcone del palazzo comunale impartì la benedizione alle truppe austriache, sicchè il ministro sardo dovè assistere allo spettacolo del loro schieramento sulla piazza, per la quale doveva passare. Nella visita del Boncompagni il Papa non vide che una canzonatura, ed essendoglisi fatto credere che il Minghetti avesse dato un pranzo a quel diplomatico, non seppe tenersi dal farne le sue lagnanze al suo ex-ministro, dovechè quel pranzo era stato invece offerto alla sua villa della «Croce del Biacco» dal conte Giovanni Malvezzi, con l’intervento di parecchi amici, tra i quali furono il Minghetti stesso, e il marchese Tanari, cognato del Malvezzi. La stessa villa aveva ospitato, nel 1797, il generale Bonaparte e Giuseppina, ed era poi stata devastata dagli austriaci nel 1849. Di quel simposio fu principale argomento la fede nelle sorti italiche, e lo scarso assegnamento, che poteva farsi su Pio IX; nè la notorietà dei personaggi e del luogo potè lasciar passare inosservato il patriottico convegno. Il Minghetti accenna a quel pranzo, ma per quanto esauriente sia la narrazione, per tutto ciò che concerne lui e la dimora di Pio IX a Bologna, trascura altre circostanze, il cui silenzio trova giustificazione nel fatto, che i Ricordi, se non lo avesse colto la morte, erano destinati ad essere in vari punti integrati.
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Gl’indirizzi dei cittadini chiedenti riforme, e provocati dal Pasolini e dal Minghetti principalmente, non fu possibile farli giungere al Papa. L’indirizzo di Bologna, sottoscritto da cento fra i maggiori cittadini, fu consegnato al senatore Da Via; ma questi non ebbe l’animo di respingerlo, come gli era stato ingiunto, nè di presentarlo al Papa. Quell’indirizzo manifestava i voti più urgenti circa le riforme amministrative e legislative, e vi si chiedeva l’elezione dei Consigli comunali, promessa nel motuproprio, che doveva considerarsi come legge fondamentale dello Stato. Il Minghetti trovò modo di parlare di quei voti, ma il Papa o non rispondeva a tono, o rispondeva così: i popoli sono incontentabili. Ho fatto una prova troppo dolorosa. E quando il Minghetti gli disse: quest’occupazione straniera è un’umiliazione perenne per il paese; è una macchia alla dignità stessa del governo, Pio IX rispose: avete ragione. Ma come si fa? Poi l’occupazione a poco a poco si restringe. E il Minghetti: finchè v’é un soldato austriaco nelle Legazioni, io le confesso che ne sento rossore. V. S. dovrebbe avere un esercito suo proprio, bastevole a mantener ordine e la tranquillità. E qui non ebbe risposta; ma il giorno 23 giugno il Papa scriveva da Bologna al fratello Gabriele, riferendosi ai due partiti a lui ostili: il primo, più esagerato e sanguinario, non mi turba affatto; il secondo, più volpino e menzognero, qualche volta mi annoia; e soggiungeva: ho veduto Minghetti, e gli ho detto che in Bologna egli è uno dei primi nemici del governo pontificio. Egli veramente temeva i costituzionali, ma gli ripugnava di confessarlo, e li temeva sapendoli strumenti della politica di Cavour, che si veniva sempre più svelando e accentuando. L’eminente e rimpianto uomo di Stato, come chiusa di quel colloquio, che fu l’ultimo avuto con Pio IX, scrisse nei suoi Ricordi: «Così finì il dialogo del quale, assai più che del primo, posso dire non essere la mia relazione che uno scheletro. Ben ricordo la impressione fortissima che me ne rimase, quando, uscito dall’ udienza, essendo già notte, io scendeva lentamente da quel Colle (San Michele in Bosco, dove il Papa alloggiava) sotto un cielo stellato e nel silenzio che favoriva la meditazione. Ormai le sorti erano gettate; ogni speranza era tornata vana...».
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Devo alcuni ricordi inediti di quei giorni al mio compianto Enrico Panzacchi, allora alunno del collegio San Luigi dei barnabiti a Santa Lucia, dov’è ora la casa di correzione. Egli andò col collegio, a San Michele in Bosco, a salutare il Papa, e ne ricevette un’impressione simpatica per la bontà gioviale di lui, che in un paterno discorso tenuto ai giovani, parlando della vita del convitto, svolgentesi al suono della campana, disse: la campana è la voce del dovere. E il Panzacchi, che fu tra coloro, che assistettero alla benedizione data dal Papa alla guarnigione austriaca, sulla piazza di San Petronio, mi diceva di sentire ancora negli orecchi la voce melodiosa di Pio IX intuonante, nel solenne silenzio, l’adiutorium nostrum in nomine Domini. Egli ricordava pure un faceto episodio della visita del Papa all’ufficio telegrafico, aperto da poco tempo, e comunicante con Modena. Incaricato per le trasmissioni era il vivente Velardino Prendiparte, bolognese. Il Papa assistette alla trasmissione di un telegramma, che diceva: S. S. qui presente manda sua apostolica benedizione. E l’impiegato di Modena, credendo si trattasse di una burla, rispose con scurrili parole, che il Velardini, richiestone dal Pontefice, tradusse con disinvoltura nelle seguenti: Santità, gl’impiegati di Modena umiliano senso di devoto omaggio.
La invadente canicola non impedì al Papa di compiere il programma del suo viaggio, e il giorno 2 luglio parti per Modena, dove si trattenne due giorni; tornato poi a San Michele in Bosco, ne ripartì il 10 per Ferrara, dove le feste furono «stupende e straordinarie», dice un cronista. Fra archi, fiori, statue, «incensieri di profumi» (specialità, pare, tutta ferrarese), luminarie e concerti, il comune e la provincia spesero circa 180,000 lire, della quale enorme spesa lo stesso Pontefice rimase «sorpreso e commosso», secondo lo stesso cronista. Visitò monasteri, chiese e istituti pii, benedisse le truppe indigene ed austriache, ed abitò nel palazzo arcivescovile. Doveva la sera benedire la popolazione, raddoppiata dai forestieri venuti d’oltre Po, ed affollantesi sulle due piazze sfarzosamente illuminate. Ma apparso che fu sulla loggia del palazzo, una violenta scossa di terremoto sbandò la moltitudine impaurita, e la benedizione non ebbe luogo. Ripartì l’indomani per Bologna, soddisfatto delle accoglienze ferraresi, al successo delle quali aveva in gran parte contribuito il tanto invocato allontanamento del delegato Folicaldi, sostituito da un prelato men fanatico, monsignor Gramiccia, che aveva iniziato il suo governo, dando mondanamente balli e conviti, e che doveva essere l’ultimo delegato apostolico di quella provincia.
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La tappa più difficile, per il caldo e le preoccupazioni politiche, era sempre Ravenna. Sino all’ultimo si fecero sforzi per dissuadere il Papa dall’andarvi; ma, da un lato, un senso di spavalderia, e anche di coraggio; dall’altro, le insistenze e le assicurazioni dell’arcivescovo, cardinal Falconieri, e del delegato monsignor Achille Ricci, vinsero ogni esitazione. A Ravenna si svolgeva in quei giorni, fra misteri, paure ed intrighi, il processo per l’assassinio del conte Lovatelli, ch’era stato, com’è noto, uno dei cospiratori più affascinanti e più bizzarri della sua regione, prima del 1848, e la cui morte, opera proditoria di setta, aveva avuta un’eco dolorosa anche a Roma, dove il Lovatelli contava larga parentela nell’aristocrazia, avendo in moglie una Chigi. Pio IX aveva più volte manifestato il desiderio, che il processo fosse stato sollecitamente compiuto, ma quel suo desiderio, forse platonico, rimase purtroppo inappagato, perchè tra i lunghi viavai, fra Ravenna e Bologna, non se ne venne mai a capo, e gli arrestati furono dovuti restituire in libertà, due anni dopo, quando mutò la fortuna politica in Romagna. Nessuno fra gli amici ed i compagni di cospirazione del Lovatelli si levò, nè a riabilitarne il nome, nè a chiedere che fossero proseguite le indagini. È parso che gli scrittori, compresi i migliori, il Pasolini e il Comandini, fossero soggiogati come da una specie di pregiudizio contro quella onesta figura, la cui truce morte non è stata che sol di recente ricordata e rimpianta, in una coraggiosa biografia, da Francesco Miserocchi, direttore dell’Archivio romagnolo di Ravenna.
Il Lovatelli parve transfuga e traditore dinanzi agli occhi dei settari, perchè egli, prefetto a Ferrara nel 1849, aveva lasciato l’ufficio alla vigilia delle elezioni per la Costituente. Vinto dagli scrupoli, si disse, per il giuramento di fedeltà prestato a Pio IX, si ritrasse dalla vita politica, nella quale aveva militato con tanto ardore, e si raccolse a vita privata nelle sue campagne, lontano da ogni ingerenza nelle cose pubbliche. La setta ne decretò la morte, ma l’iniquo decreto non ebbe la sua esecuzione che sei anni dopo, cioè la sera del 29 novembre 1856, quando, nel rientrare in casa, in compagnia del suo fattore, fu steso a terra da un colpo di pistola alla schiena. Francesco Lovatelli era padre di Giacomo, che sposò, tre anni dopo, donna Ersilia Caetani, e di Carlino Lovatelli, com’era conosciuto, nel mondo giovanile ed elegante di Roma, il suo secondogenito.
Se ufficialmente s’’ignorò l’autore del misfatto, non solo nei bassi fondi settari di Ravenna, ma anche nella buona società non ne era ignoto il nome. Più tardi si arruolò garibaldino; si sapeva, che era schivato da quanti lo conoscevano, e andò poi in America. Forse è morto, e Iddio gli perdoni! A non volere quel processo erano interessati, ad un tempo, i settari, che impedirono la formazione di ogni prova concludente, e il governo, che non si riscaldava per la morte di un uomo, dal quale aveva ricevuto, fino al 1848, più fastidi che servigi. Il processo voluminoso giace nell’archivio di Stato di Bologna, in attesa di chi faccia per esso, quel che ha fatto il Giovagnoli per il processo di Pellegrino Rossi.
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Dopo una breve sosta a Lugo, dove il municipio non seppe fargli omaggio più degno che quello di una copia elegantemente stampata del discorso recitato dal concittadino don Giovanni Strozzi, in Sant’Agnese fuori le mura, nel primo anniversario del memore miracolo, il Papa giunse a Ravenna nel pomeriggio del 23, e vi si fermò sino all’alba del 25. Fece il solenne ingresso da porta Adriana; e la mattina del 24, ricorrendo la gran festa di sant’Apollinare, apostolo dell’Emilia, tenne cappella papale nella metropolitana. Da ogni parte della bassa Romagna era piovuta una moltitudine di campagnoli, che riempivano la città di grida e di applausi. Il municipio aveva preparato accoglienze conformi ai desideri del Pontefice; tre concerti musicali, bandiere e festoni alle finestre, e copiosi piccoli atti di beneficenza, per ravvivare l’esultanza popolare. Era stata restaurata la porta Adriana, i cui lavori, che importarono qualche migliaio di scudi, e dei quali non rimane oggi alcuna traccia, furono eseguiti su disegno di Alfredo Baccarini, ingegnere secondario del municipio, e futuro ministro dei lavori pubblici nei nuovi tempi. Sul piedistallo, che sovrasta la porta, fu collocata una statua colossale di Pio IX, modellata da abili artisti, e in atto di benedire. Le epigrafi ravennati vinsero in ampollosità tutte le altre. Un’iscrizione del municipio sulla darsena, redatta da Pacifico del Frate, maestro di retorica, diceva:
terra sonat plausu laetis micat ignibus aether
litore ab hadriaco suspicit unda pium
E sopra l’arco del sobborgo Adriano si leggeva, a lettere cubitali:
pontifex uno pius minor est deo
E non meno ampollose sono quelle, che si leggono nel duomo, e sul primo caposcala del palazzo arcivescovile, dove alloggiò: la prima ricorda la visita del Papa; e la seconda, l’ospitalità. Nell’ampia anticamera, dove si ammira oggi la maravigliosa sedia di avorio, vi è un busto di Pio IX, che rimonta a quel tempo, come ho verificato io stesso. All’augusto visitatore non mancarono doni e omaggi poetici. Un meccanico gli regalò un orologio elettrico; e le scuole del seminario gli dedicarono un volumetto di versi italiani e latini, dal titolo: A Pio IX in Ravenna, le scuole del seminario. Di una mirabile ingenuità sono alcune ottave di Licinio Farini, e delle quali è pregio dell’opera ricordar questa:
Già il gran Pastor, varcato il Trasimeno, |
Visitò anche il sepolcro di Dante. Entrò quasi timidamente nella piccola cappella, fermandosi pensoso innanzi all’effigie del poeta, che sovrasta il sarcofago, e lesse le tre iscrizioni, che adornano il tempio, ch’era allora com’è oggi. Presentatogli il libro dei visitatori, e supplicato di apporvi la firma, dapprima esitò; ma poi, vinto dalle insistenze, scrisse di suo pugno la terzina, significantissima, del canto undecimo del Purgatorio:
Non è il mondan rumore altro che un fiato |
Di quella visita, e dei solenni ricordi, che doveva suscitare, nom parve che fosse rimasto profondamente commosso. Dante, la Divina Commedia, il Papato, tutto era per lui fiato di vento! Il verbale della visita al sepolcro di Dante, che, insieme al libro contenente l’autografo papale, fu conservato in apposita custodia, porta le firme dei personaggi, che si trovavano presenti, e di altri forse non presenti.
Dal balcone del palazzo delegatizio benedisse il popolo, fra le acclamazioni di una fitta moltitudine, composta in gran parte di contadini, indossanti i loro caratteristici costumi. La sera vi fu grande luminaria con fuochi di bengala alla darsena; e dopo una visita a quasi tutti i monasteri, e all’accademia di belle arti, partì all’alba del 25, non prima di aver detta la messa nella chiesa di San Pier Crisologo. Lasciò elemosine non copiose, doni alla metropolitana, e onorificenze al gonfaloniere Facchinetti Pulazzini, ed agli anziani Francesco Donati, conte Giuseppe Ginnasi Monaldini, Vincenzo Ranchelli, Giuseppe Benelli e dottor Agostino Malagola. Agl’ingegneri municipali Baccarini e Massi, in benemerenza dei lavori compiuti, concesse medaglie d’argento. Il municipio, alla sua volta, festeggiò l’avvenimento, con la restituzione gratuita dei piccoli pegni, e con l’assegnazione di alcune doti a zitelle povere. Ravenna contava, nel 1857, poco più di 53,000 anime, delle quali, sole undici mila in città; riceveva la posta di Roma e Lombardia quattro volte la settimana, e solo la posta di Russi arrivava e partiva ogni giorno. Quella città, che fu capitale dell’impero d’Occidente, e del regno d’Italia con Odoacre; del regno dei Goti con Teodorico; dell’Esarcata e del regno Longobardo con Astolfo; quella città, un giorno così potente, che suscita un’impressione incancellabile coi suoi capolavori bizantini, coi suoi vuoti palazzi medievali, con le sue ampie e desolate contrade, e con quella impronta di signorilità, che la distingue dalle altre consorelle di Romagna, conservanti un carattere tra il monumentale e il campestre; quella città, dico, la cui decadenza si compì dal giorno che fu soggetta ai Papi, non meritò l’onore che di soli pochi provvedimenti in materia di lavori pubblici, dal sovrano che la visitava! Deve anzi ricordarsi, che persino dalla concessione della linea ferroviaria da Ancona a Bologna, data l’anno innanzi alla società spagnola, Ravenna era rimasta esclusa, e vi fu unita più tardi, per le efficaci insistenze del Pasolini, che nel 1858 ne divenne gonfaloniere.
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Il 17 agosto il Papa imprese il ritorno, muovendo da Bologna per Firenze. Al confine toscano, fu incontrato dai figli del granduca e dal nunzio monsignor Franchi. Partito all’alba, per evitare il gran caldo, giunse nelle ore pomeridiane alla villa Gerini fuori porta San Gallo. Occorreva lungo la strada un punto di fermata, per dare riposo all’augusto viaggiatore, ed era stata scelta all’uopo la villa Capponi. Ma non avendo il marchese Gino consentito a quella ospitalità, fu accettata l’offerta fatta dal Gerini della sua villa «Le Maschere», e che questi ebbe cura di decorare con signorile magnificenza. Non serve dire, che il nome della villa del guelfo patrizio diede allo spirito arguto dei fiorentini argomento ai più mordaci epigrammi. Alle «Maschere» il Papa era atteso dal Granduca e dalla Granduchessa, da tutta la famiglia, e dal conte e contessa di Trapani. Preceduto da un largo e spettacoloso corteo, a capo del quale cavalcava un crocifero, entrò trionfalmente nella città, alle 5 di quel giorno; e per dar modo al Granduca di sedergli a fianco, gli fu, ll per lì, conferita una dignità ecclesiastica. Entrò in Santa Maria del Fiore, al canto dell’Ecce sacerdos magnus, e tra le acclamazioni di una fitta moltitudine, giunse a Pitti verso sera. Si notò che dei grandi palazzi fiorentini pochi erano adornati; si notò pure che il grosso della turba plaudente era rappresentato dalla popolazione di campagna. A Pitti ricevè il corpo diplomatico, presentatogli da monsignor Franchi, e i cavalieri dell’ordine di Santo Stefano, presentatigli dal principe Ferdinando Strozzi, ciambellano di corte, messo a disposizione dell’augusto ospite. La sera stessa dell’arrivo fu diffuso il notissimo epigramma del Salvagnoli:
Esempio di virtù sublime e raro, |
Nei pochi giorni, che restò a Firenze, assistette alla posa della prima pietra della nuova facciata di Santa Croce; visitò Pistoia, Prato e Pisa, e il 24 agosto ripartì per Roma, facendo una sosta a Volterra, dove aveva ricevuta la prima educazione. Ivi, nella villa del marchese Lorenzo Niccolini, rivide ed accolse con festa alcuni dei superstiti amici e compagni, coi quali giocondamente rievocò i tempi lontani della comune adolescenza.
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Avvicinandosi a Roma, dopo quattro mesi di lontananza, e non lievi disagi, sentiva, come fu udito a dire, allargarglisi il cuore. Arrivò nella sua capitale il 5 settembre. A Tor di Quinto fu ossequiato dai cardinali Patrizi ed Antonelli, dai ministri, da monsignor Matteucci, e da altri dignitari. Smontato dalla carrozza da viaggio, prese posto in quella di gala, e preceduto da un battistrada, popolarissimo a Roma, il corriere pontificio Milanesi, giunse a ponte Molle, dov’era stato innalzato un arco di trionfo, disegnato dal Vespignani, e dove ricevette il saluto del ritorno dal marchese Savorelli, presidente della camera di commercio. Da ponte Molle a piazza del Popolo si vide una folla acclamante e curiosa, e furono udite le caratteristiche grida: «la benedizione, Santo Padre». Allo sportello di destra cavalcava il generale Goyon. La porta del Popolo era adornata da grandi festoni; e come fu giunto, il festivo scampanio di tutte le chiese, e il tuonare del cannone annunziarono alla città il ritorno del suo sovrano. La via di Ripetta, il ponte Sant’Angelo e il Borgo Nuovo formicolavano di curiosi. La piazza di San Pietro, non gremita, parve che raffreddasse l’entusiasmo, ma è noto che quella piazza non si riempe mai. Sulla scalinata era schierato il Capitolo Vaticano, insieme al corpo diplomatico. Il Papa discese e ringraziò tutti; e seguito dal numeroso corteo, entrò nella basilica, pregò sulla tomba degli Apostoli, baciò il piede del santo; e poi, sempre a passo sollecito, per la scala di Costantino, tornò nei suoi appartamenti.
Per festeggiare il ritorno del Pontefice, il municipio distribuì, a mezzo dei parroci, dei boni per centoventimila libbre di pane, e settanta mila di carne, e concesse inoltre dugento scudi per gl’israeliti poveri, non senza esprimere il voto che fossero liberati dal carcere i detenuti per debiti, a tutto il 31 agosto. Nè furono questi i soli atti di pubblica letizia, che contrassegnarono la fausta ricorrenza. L’amministrazione della tassa sui cavalli condonò ai vetturini gli arretrati degli ultimi cinque anni; l’appaltatore della pescheria concesse dieci doti a nubili povere, e trenta ne assegnò la Cassa di risparmio. Più larga la società della ferrovia Pio-Centrale, concesse una dote per parrocchia. Ai detenuti fu distribuita doppia razione e vino; il principe Marcantonio Borghese fece estrarre nella sua villa una lotteria di beneficenza, ed un solenne Te Deum fu fatto cantare, nella loro chiesa di San Giovanni, dai toscani residenti in Roma, i quali avevano fatto già celebrare un triduo per invocare dal loro patrono la buona salute di Pio IX, durante il suo soggiorno a Firenze.
Quel viaggio, che durò quattro mesi, fu infecondo purtroppo di qualsiasi effetto politico, anzi concorse ad alienare le ultime speranze di una conciliazione fra i desiderii di riforme, e i pregiudizi prevalenti nell’indirizzo del governo. A Bologna il Papa parve addirittura prigioniero dell’Austria. Fosse angustia di mente; fossero gli artifici di coloro, che lo circondarono, o proposito ostinato di chiudere gli occhi sulle cose più evidenti, neppure una superficiale visione della realtà parve ch’egli avesse, circa le condizioni politiche ed economiche delle provincie visitate, e i pericoli di una insurrezione generale, qualora l’Austria ne ritirasse le truppe. Alla lettera del 23 giugno, della quale si è parlato, seguì un’altra del 29 luglio, appena dopo il ritorno da Ravenna, scritta al fratello medesimo, e che può considerarsi l’epilogo fallace del viaggio. Diceva così:
- Carissimo fratello,
Dite benissimo che le escursioni sono finite. A Ravenna, Lugo, tutto è proceduto, non bene, ma benissimo. Come a Bologna, anche a Ravenna ho tenuto lungo colloquio colle rispettive magistrature. Niuna ha domandato cose che non avessero tutto il dritto di domandare. Io avendo accettato le domande, mi sono riservato solo di vedere se le forze erariali possono giungere a sopperire alle spese, che finora in tutto lo Stato ammonterebbero & un milione e mezzo e forse più.
Dio benedica voi e tutti.
- Bologna, 29 luglio 1857.
Pius P. P. IX.
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Mentre il Papa riconosceva, o meglio s’illudeva che nessuna magistratura delle città visitate gli avesse chiesto cose ingiuste, o espresso desiderii di riforme politiche, ignorava, o mostrava d’ignorare, che dal suo governo era stato vietato che si riunissero i Consigli municipali, e che i gonfalonieri e i magistrati accettassero gl’indirizzi, dei cittadini accennanti a riforme, anzi li respingessero violentemente, com’era avvenuto a Ravenna all’indirizzo presentato dal conte Gioacchino Rasponi. E dove per ignoranza, o in buona fede, il divieto fu infranto, come avvenne in Roma, gl’indirizzi restarono lettera morta, o provocarono provvedimenti di rigore contro quelli, che se ne resero promotori. Nel terzo volume della sua opera, il Silvagni ricorda il coraggioso affaticarsi dei liberali romani durante l’assenza del Papa, per ottenere nel campo amministrativo quei rinnovamenti, di cui la coscienza pubblica era ormai impaziente. Un indirizzo era stato scritto dall’ingegnere Leonardi, diretto al municipio, e che venne coperto da numerose firme di ogni ordine della cittadinanza. Ma prima ancora che il coraggioso docu mento fosse presentato, la polizia procedette a perquisizioni, e cercò impadronirsi dei fogli, che circolavano per la città. Si dovette al patriottico ardimento di quattro cittadini, se, nonostante l’agitarsi della polizia, l’indirizzo fu potuto, due giorni prima dell’arrivo del Papa, consegnare al municipio, nelle mani del segretario generale Vannutelli, il quale lo rimise al senatore funzionante Angelo Antonelli, assente in quel giorno da Roma, e che alla sua volta lo presentò al fratello cardinale. A titolo di onore è doveroso ricordare i nomi di quei quattro, che furono Cesare Leonardi, David Silvagni, Angelo Tittoni e Giovanni Costa, il pittore, conosciuto col vezzeggiativo di Nino Costa, liberale schietto, cuor d’oro, e indole piuttosto balzana.
Il superstite dei quattro, il Leonardi, ricorda che, portando l’indirizzo al Campidoglio, ne tolsero le pagine sottoscritte, perchè i firmatari non ne avessero danni 0 molestie, e che, presentandolo al Vannutelli, non gli esposero di che si trattava, ma solo lo pregarono di consegnarlo al senatore, nè dissero i loro nomi, nè il Vannutelli li chiese, forse perchè li conosceva: certo |è che non li denunziò alla polizia, e solo il Tittoni ebbe qualche molestia. Il Vannutelli si condusse da galantuomo, ma non parendo abbastanza sincera la sua ingenuità, fu prima rimproverato, e poi messo a riposo.
L’indirizzo, che porta la data del 1° settembre, fu presentato il giorno 3 dello stesso mese; ed era del tenore seguente:
- All’Ecc.mo Municipio Romano.
- Eccellentissimi Signori,
Il viaggio del Sommo Pontefice nelle provincie ha dato occasione ai cittadini delle più cospicue città dello Stato di fargli porgere per mezzo delle magistrature municipali petizioni scritte e firmate chiedenti migliorie nell’amministrazione e nella legislazione del paese. Questo esempio di civil franchezza e moderazione intendono i qui sottoscritti cittadini di Roma imitare.
Che le condizioni dello Stato romano, da lungo tempo non prospere, siano ora più che mai tristi, non può negarsi se non chiudendo gli occhi sul vero; perocchè da parecchi anni siasi di fatto perduta l’indipendenza dello Stato col perpetuarsi degl’interventi, e mentre furono scontentati i popoli pei cresciuti aggravi e rigori, d’altra parte e l’amministrazione e la legislazione e la prosperità materiale dello Stato non fecero che piccolissimi passi, se si considera il grande intervallo di cui siamo lontani dalle più civili nazioni.
Non è qui il luogo di proporre sistemi di ordinamento politico: sono desti i sospetti e vivi i rancori che impedirebbero un netto giudizio su tali proposte; ma vi sono pure bisogni e desiderî tanto universalmente sentiti ed onesti, che possono senza velo esporsi, e che quando giungano al trono del Pontefice, quasi non può dubitarsi non vengano ascoltati.
Se il municipio chiederà al Pontefice che un’amnistia consoli le numerose famiglie degli esuli e dei prigionieri per causa politica; che lo Stato venga liberato dal peso e dal disdoro delle occupazioni francese ed austriaca, ordinando in pari tempo un esercito del paese, sufficiente e non inferiore per istituzioni militari ai buoni d’Europa; se chiederà che venga finalmente promulgato un codice, che dalla procedura civile si tolgano le lungaggini, le eccessive spese; e dalle criminali le brutte anomalie dei tribunali eccezionali e le consuetudini di lentezza; se chiederà che le imposizioni abbiano un più equo riparto, sicchè siano veramente secondo ricchezza, e vengano d’altronde alleviate quelle che pesano troppo sui poveri; se chiederà che in pari tempo venga dato impulso od aiuto al commercio, all’industria ed all’agricoltura; e questo coll’abbassare i diritti doganali sulle materie prime, col render libero lo scambio dei cereali, col togliere l’impaccio dei passaporti tra provincia e provincia dello Stato, con gl’istituti di credito, con le nuove vie, con le scuole tecniche pei commercianti e per gli artefici, con l’adozione del sistema metrico di pesi e misure...
Se queste ed altre simili cose chiederà il municipio di Roma, chi dubiterà che desso non abbia parlato secondo il voto di Roma soltanto, ma di tutto il paese?
I cittadini qui sottoscritti tengono per certo, che di gravissimo momento sarebbe, nei consigli del principe, una domanda solenne al municipio romano. Essi confidano pure che questo municipio, chiamato a rappresentare nelle pompe il popolo romano, non si ristarà, per qualsiasi riguardo, dall’esprimere i voti.
E benchè questi voti fossero tanto modesti, rimasero inascoltati. Nei due anni, che corsero dal viaggio del Papa alla perdita delle Legazioni, proseguirono, ma con lena tutt’altro che affannata, i lavori ferroviari, e tutte le altre cose dello Stato. Era un governo stanco, che s’avviava inconsapevolmente alla sua fine; un governo, che, non più capace a reggersi da sè, si dibatteva fra le due grandi potenze protettrici: l’Austria, per tenere in soggezione le provincie di là dall’Appennino; e la Francia, Roma e il patrimonio. Un urto fra quelle potenze, e la sorte dello Stato del Papa era decisa. Il governo pontificio sentava come l’equilibrio fra due paure; di certo avrebbe preferito liberarsi dall’incomodo patronato, ma la convinzione che il Piemonte lo insidiasse, tenendo mano alla rivoluzione, toglieva al Papa, e al suo primo ministro, ogni esatta visione circa la realtà delle cose.
Note
- ↑ Cesena, dai tipi G. C. Biagini, 1857.
- ↑ Giuseppe Pasolini. Memorie raccolte da suo figlio. Imola, Galeati, 1881.
- ↑ G. Codronchi-Argeli, Un gonfaloniere romagnolo nel secolo XIX. Dalla Nuova Antologia, 16 ottobre 1905.