Roma e lo Stato del Papa/Capitolo XV

Capitolo XV

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CAPITOLO XV.

Ratto del fanciullo Mortara. - Gli ebrei a Roma.



Sommario: La famiglia Mortara Levi. — Un preteso battesimo con acqua di cucina. — Doppia versione. — Il fanatismo del nuovo arcivescovo di Bologna. — Il padre Feletti e monsignor Golfieri inquisitori. — Incredibili rigorismi. — Odio per gl’israeliti. — Il fanciullo è strappato violentemente ai suoi genitori. — Girolamo Mortara è ricevuto dal Papa. — Nulla ottiene. — Agitazione del mondo israelitico. — Le difese dei giornali clericali. — Precedenti storici. — Cavour trae profitto dall’incidente Mortara. — Una sua lettera. — Cessata l’occupazione pontificia, si inizia un processo. — È imprigionato il padre Feletti. — Il tribunale lo assolve. — Il caso Mortara sulla scena, a Torino, a Parigi, a Roma e a Napoli. — Il ragazzo diviene il padre Pio Edgardo. — Alcuni suoi versi alle sorelle. — Rivede la madre dopo venti anni. — La sentenza del tribunale di Bologna. — Il Ghetto di Roma. — Quel che era negli ultimi tempi. — I principali negozianti. — Il mercato del pesce. — Il jus gadzagà garantisce agli israeliti la tenuità delle pigioni. — Finiti i vecchi rigorismi, rimanevano i pregiudizi. — Inverosimili contraddizioni. — La baronessa Rothschild a Roma. — L’intolleranza religiosa è in parte convenzionale. — Necessità di abbracciare il cattolicismo per contrarre matrimoni.


La sera del 24 giugno del 1858, in Bologna, un fanciullo ebreo di sette anni fu strappato violentemente alla sua famiglia, fra le grida disperate dei genitori, il pianto dei fratelli e delle sorelle, e la commozione degli stessi birri. Quel fanciullo si chiamava Edgardo, ed era uno dei setti figliuoli di Girolamo Mortara Levi, fabbricante e mercante di attrezzi per tappezzeria, e di Marianna Padovani: famiglia dabbene e agiata, con casa e negozio in via delle Lame. Il Mortara padre, benvoluto da quanti lo conoscevano, godeva nel quartiere una simpatica popolarità, ed era notissimo col nomignolo di sor Momel. Quel fatto, che commosse tutto il mondo civile, e gittò nella costernazione una famiglia, costretta poi ad esulare da Bologna, e dallo Stato del Papa, fu conseguenza della leggerezza di una giovane domestica, che aveva nome Anna Morisi, famigliarmente [p. 279 modifica]chiamata l’Annina, e che per cinque anni fu al servizio di quella casa. Avvenne che il piccolo Edgardo, ad undici mesi, s’infermasse a morte; e l’Annina, vinta dagli scrupoli, e all’insaputa dei genitori, si avvisasse di somministrargli il battesimo con acqua comune, credendo di compiere opera meritoria.

Una duplice versione corse intorno al fatto. Alcuni dissero che la giovane domestica avesse obbedito ai suggerimenti d’una vecchia, solita a bazzicare in casa Mortara, e dalla quale sarebbe stata poi confidata la cosa ad un tal Lepori, droghiere del vicinato. Altri dissero, che la vecchia avesse invece suggerito all’Annina di dare il battesimo ad un altro figliuolino del sor Momel, colpito anch’egli da mortale malattia, alla quale poi soccombette, e che la giovane domestica si fosse mostrata restia al consiglio, dichiarando di aver già qualche anno prima battezzato, nelle stesse condizioni, il piccolo Edgardo, e di non volere assumersi altre responsabilità verso i genitori del morente bambino. In tal modo sarebbe la vecchia venuta in possesso del segreto, del quale si fece poi rivelatrice al Lepori. Malauguratamente era giunto in quel tempo a Bologna il nuovo arcivescovo Viale-Prelà, succedendo a quell’ottimo cardinale Opizzoni, morto quasi novantenne, e generalmente rimpianto. Il nuovo pastore portò nella diocesi bolognese una così esagerata nota di fanatismo, da far quasi rivivere i tempi della Inquisizione, e trovò un accanito cooperatore nel padre domenicano Feletti, inquisitore della Curia. Narra a tal proposito il Testoni1, che la furia inquisitrice del nuovo arcivescovo arrivò al punto, che, nei giorni di venerdì e sabato, erano mandati, nelle case sospette, degli speciali incaricati ad osservare se vi si cuocesse la carne. Il Feletti esercitava anche la censura teatrale, ed avea per compagno quel monsignor Golfieri, tipo caratteristico e faceto della Bologna di allora; onde fra i due non è da maravigliare se, in tal genere, si verificassero, anche nella città d’Irnerio, le memori stranezze di Roma e di Napoli, e delle quali era vittima, a preferenza, il teatro dialettale di Persuttino.

In tale ambiente era fatale che la folgore scoppiasse in casa Mortara. Il padre Feletti, informato dal Lepori della faccenda [p. 280 modifica]del battesimo, ne avvisò a sua volta l’arcivescovo, e tutti e due furono d’accordo nel mandar la notizia a Roma, donde venne immediatamente l’ordine di portar via il ragazzo da Bologna, a qualunque costo, per esser chiuso nei Catecumeni. Nella esecuzione di quest’ordine, la sola misericordia, usata alla famiglia, fu di rinviare di ventiquattr’ore la partenza, facendo però cingere d’assedio la casa Mortara, perchè il fanciullo non fosse sottratto all’iniquo provvedimento. Si credette da principio, tanto pareva enorme il fatto, che si trattasse di una delle solite strozzature, alle quali andavano soggetti gl’israeliti nello Stato del Papa; ed i correligionari di Bologna, per stornare la cosa, si quotarono per somma cospicua, e più largamente i Sanguinetti. Ma l’offerta non servì a nulla, e nella sera del 24 giugno, il ragazzo fu strappato ai parenti, chiuso in vettura fra due gendarmi, che ne soffocavano le grida, e la carrozza partì di gran carriera. Il piccolo Mortara fece il lungo viaggio, senza il conforto di un congiunto, o di una donna; e giunto a Roma, fu consegnato al rettore dei Catecumeni, ed indi fatto entrare nel collegio di San Pietro in Vinculis, dove fu ribattezzato e destinato al sacerdozio. Nel secondo battesimo fu chiamato Pio, e il nome di Edgardo restò secondo. Oggi egli è il padre Pio Edgardo Mortara, canonico regolare lateranense, e missionario apostolico. Contrariamente a quanto si disse, egli non entrò mai nella compagnia di Gesù.


*


Quanti sono della mia generazione ricordano il clamore, che levò nel mondo il compassionevole caso. Cavour ne fece oggetto di vivaci commenti nel mondo diplomatico, e i giornali di Piemonte, con quelli di Francia, d’Inghilterra e d’America, non risparmiarono biasimi alla crudeltà del governo pontificio. Napoleone III, informatone direttamente da suo cugino Gioacchino Pepoli, con lettere scritte da Federico Vellani, che ne era il segretario, ne fu profondamente impressionato. I Mortara vennero a Roma, e Girolamo ottenne un’udienza dal Papa, e un’altra dal cardinale Antonelli; i quali furono cortesi, ma irremovibili, e solo gli permisero di vedere il figliuolo, chiuso allora nel [p. 281 modifica]collegio lateranense di Alatri. Si recò colà con sua moglie, ma appena l’ebbero riveduto, dovettero fuggire, per sottrarsi all’ira del contadiname, al quale si era dato a credere, che quei due ebrei erano colà andati per uccidere il figliuolo, divenuto cristiano. Dopo infinite traversie, indicibili amarezze, e non pochi danni economici, i Mortara ripararono a Torino. Il sor Momel morì nel 1871; e dei vari fratelli di Edgardo, sopravvive, fra gli altri, Augusto, ispettore generale nel ministero del tesoro, amico mio, al quale devo parte di queste notizie.

Nel mondo israelita di Europa si sollevò un’agitazione, che mai la più viva. Le comunità di Piemonte, e con esse i concistori di Inghilterra e di Francia, protestarono fieramente: quest’ultimo ricorse all’imperatore Napoleone; l’Alleanza israelitica universale mandò un eloquente indirizzo al Papa, che si chiudeva con le parole «rendete, Santo Padre, la pace e la felicità ai parenti del giovane Mortara, e la sicurezza a tutti quelli, che il ratto di questo fanciullo ha gettato nelle inquietudini e nella diffidenza». L’Imperatore tornò a insistere per ottenere che il ragazzo fosse restituito alla famiglia; ma, o per insipienza della sua diplomazia a Roma, o perchè c’era di mezzo il Sant’uffizio, nulla si ottenne. I giornali cattolici d’Italia e di Francia sostenevano, con estrema violenza, la prevalenza del diritto della Chiesa su quello della patria potestà, in ordine ai figli impuberi di genitori israeliti, battezzati senza il consenso di questi; e i giornali liberali dimostravano quanto fosse falsa questa dottrina, e quanto stridente e grossolana la contraddizione sorgente dai due battesimi, cioè quello della fantesca, e l’altro dei Catecumeni. Se infatti il primo era ritenuto dalla Chiesa così rigorosamente valido, da autorizzare il rapimento, perchè si credette necessario il secondo battesimo? La duplicità del battesimo, esclusa, perchè fu invece applicata nel caso Mortara? Pio IX non poteva in cuor suo non essere inquieto di quel nuovo incidente, che sollevava innanzi al mondo nuove ondate di accuse contro lui e il suo governo, alle quali aggiungeva alimento l’aspra e mal giustificata polemica, accesasi nei fogli clericali e ultramontani. La contesa si fece aspra, e il Papa, permaloso e impulsivo, attribuendo tutto quel chiasso al Piemonte, e ai liberali di Bologna, di cui il viaggio dell’anno precedente non gli [p. 282 modifica]suscitava certamente simpatici ricordi, fu insensibile ad ogni sentimento di pietà.

Più fiera, tra gli altri giornali, fu La Civiltà Cattolica, la quale non dubitò, con cinica disinvoltura, di scrivere «che l’inaudito scalpore destatosi per un fatto non nuovo nel mondo, e che nei secoli credenti sarebbe passato senza destare, nonchè maraviglia, neppure attenzione, perchè era comune un po’ di fede, era frutto del naturalismo. ..». A questo coraggiosamente rispose il francese abate Delacouture, antico professore di teologia, con uno scritto che venne tradotto e pubblicato a Torino nel gennaio del 18592, e nel quale rievocò precedenti, che inconfutabilmente resistevano alla tesi del giornale dei gesuiti. Citò infatti, tra gli altri documenti, una sentenza del tribunale di Genova, che condannava al carcere, alla multa, alle indennità che di ragione, e alle spese del processo, Caterina Lavazero, imputata di avere il 18 agosto 1858, proprio due mesi dopo il ratto del Mortara, battezzato clandestinamente in Genova, e contro la volontà dei genitori, il bambino Leone Levi, figlio di Isacco. E ricordò ancora un liberale editto del duca Carlo Emanuele di Savoia al vescovo di Nizza, in data 7 giugno 1651, per la restituzione di un fanciullo ebreo ai suoi genitori, e che merita di essere riprodotto nel testo curioso in cui è scritto:


Illustre e molto Rev. Oratore nostro carissimo.

Intendiamo che si trova detenuto in mani vostre, un picciol figliolo hebreo d’anni otto circa, volendolo costringer a farsi battesare cosa la quale totalmente ripugna, et vista contrariante ai privilegij da noi e dai nostri serenissimi predecissori concissi à gli hebrei habitanti ne’ nostri Stati, che dispongono non potersi ciò fare a’ minori d’anni tredici come di già ciò v’è stato significato. Per lo che et per levare ogni ulterior doglienza, habbiam voluto dirvi con la pate di dar hordine che detto figliuolo hebreo sia subbito rilassato e rimisso in libertà et nelle mani dei suoi parenti, senza contradditione alcuna, con tener mano insieme che nell’avvenire non seguino più simili casi e tentativi in odio d’essi hebrei, contro la dispositione di detti loro privilegi), et dilla protettione cbe noi gl’habbiamo promessa, et [p. 283 modifica]vogliamo conservargli ad ogni nro potere, et perchè da un sarto di cotista città a’ giorni passati fu commisso un simil tentativo in sprezzo di ditti privilegij et ordini nri, contro d’esso darem gli ordini convenienti à publico esempio: et con quisto fine preghiamo Dio Signore che vi conservi.

Torino, li 7 giugno 1651.

Firmato: Il duca di Savoia Re di Cipro
Emanuel.


All’Illre et Mo Revdo Oratre nro carmo
Il Vescovo dilla Città di Nizza.


Non si direbbe che questo onesto documento, cui è associata la nobile figura di uno fra i più illuminati principi di Savoia, precedesse di due secoli il caso di Bologna!


*


Era naturale che Cavour cavasse profitto dal nuovo incidente, per diffondere una più fosca luce sulle anomalie del potere temporale del Papa, in pieno secolo XIX. Nel quarto volume dell’epistolario pubblicato dal Chiala, si legge, in data 3 ottobre 1860, una lettera del sommo statista al presidente della Alliance Israélite Universelle di Parigi. Ma non dev’essere questo il solo documento sulla quistione. Proprio in quel tempo erano stati rotti violentemente i rapporti fra il Piemonte e la Santa Sede, ed ogni tentativo sarebbe stato inutile da parte del primo. La lettera di Cavour fu questa:


Monsieur,

J’ai reçu la lettre que vous m’avez adressée au nom de la société l’Alliance israélite Universelle, pour solliciter l’appui du gouvernement du Roi aux démarches, que le père du jeune Edgard Mortara va tenter, afin de retirer son enfant du couvent (de Rome) où il se trouve retenu.

Persuadé de la justice des réclamations de Mr. Mortara, j’ai l’honneur de vous assurer, Monsieur, que le gouvernement du Roi fera tout ce qui est en son pouvoir pour que cet enfant, auquel s’est si vivement intéressée l’opinion publique en Europe, soit rendu à sa famille. Veuillez, je vous prie, porter à la connaissance de messieurs les membres de la société israélite ces dispositions du gouvernement du Roi, et agréez, Monsieur, l’assurance de ma considération très distinguée.

L’avolo paterno del ragazzo, Samuel Levi Mortara, appena dopo la caduta del dominio pontificio a Bologna, non mancò di dirigere al nuovo governo un reclamo contro gli autori del ratto.

[p. 284 modifica]Un processo venne iniziato contro il padre Pier Gaetano Feletti dell’Ordine dei predicatori, il quale fu tratto in arresto il 2 gennaio 1860, sotto l’imputazione di essere stato l’autore morale del rapimento. Egli non lo smentì, anzi lo giustificò per dovere di carica. Il tribunale dichiarò però non esser luogo a procedere, nè contro di lui, nè contro il tenente colonnello dei gendarmi Luigi de Dominicis, esecutore degli ordini del padre Feletti, e questi fu «dimesso dal carcere» dopo tre mesi e mezzo. La sentenza merita davvero, nell’interesse della verità storica, di venir pubblicata integralmente. Essa è tolta dal processo, ch’è nell’archivio di Stato di Bologna, e completa la storia precisa di quell’episodio di inverosimile fanatismo religioso.

RELAZIONE


Nel giugno 1858 la città di Bologna fu contristata da un atto inumano della Inquisizione del Sant’uffizio. Un fanciullo non ancora settenne, per nome Edgardo, venne dai gendarmi pontifici, per ordine di quella, strappato ai suoi genitori israeliti Mommolo e Marianna coniugi Mortara, adducendosi per motivo che gli si era a tradimento conferito il battesimo.

Di coerenza agli ordini della Santa Inquisizione diretti al tenente colonnello Luigi de Dominicis, nella sera 23 detto, il maresciallo Lucidi ed il brigadiere Giuseppe Agostini, travestito quest’ultimo in abito borghese, con buona scorta di dipendenti si trasferirono alla casa dei Mortara nella via delle Lamme, ma incontrata viva resistenza da parte de’ genitori, si astennero dall’usare la forza, ed annuirono che qualcuno si conducesse ad intercedere al Sant’uffizio, conforme, opportunamente chiamati, vi si recarono i parenti Angelo Padovani ed Angelo Moscato, e così, non senza lungo supplicare in favore della madre, avente altra creatura lattante, ottennero una dilazione di ventiquattro ore, rimanendo però in luogo due gendarmi a tenere di continua vista il ragazzo. Dopo inutili pratiche fatte nell’indomani dal Padovani e dal Moscato per reclamare agli eminentissimi arcivescovo e cardinal legato, dopo un ultimo tentativo del padre alla Santa Inquisizione per avere una ulteriore proroga, fu giuoco-forza sottomettersi al rigoroso decreto. Allontanata pertanto la madre, e guidata in altra casa, allo spirare del prescritto tempo, i gendarmi levarono il fanciullo dalle braccia del padre, e mentre questi per l’ambascia cadeva svenuto sulle scale, era quello portato in una carrozza, e, condotto alcune miglia fuori di città, con altra vettura veniva dall’Agostini accompagnato a Roma, e rinchiuso nell’ospizio dei Catecumeni per esservi allevato nel cristianesimo.

Questo fatto, riprovato dalla pubblica opinione e lamentato dai coniugi Mortara innanzi la Corte pontificia, non valse loro ad ottenere che il meschino conforto di riabbracciare qualche volta il perduto figlio nel [p. 285 modifica] suaccennato ospizio. In oggi, dopo la caduta del regime clericale in queste provincie, ha dato luogo ad un reclamo dell’avolo paterno Samuel Levi Mortara di Reggio all’attual governo per ottenere la restituzione del rapito nipote, e così al 2 di gennaio p. p. ne avvenne l’arresto del dicontro inquisito padre domenicano Pier Gaetano Feletti, ed un processo a suo carico, e de’ suoi complici, nel quale il detto padre figura come reo di avere, nella veste di inquisitore del sant’Uffizio, ordinato il ratto del fanciullo, ed il tenente colonnello De Dominicis come quello che gli fu compagno a dar vita al progetto del rapimento ed a studiarne i mezzi di sicura riescita commettendone l’esecuzione al Lucidi ed all’Agostini.

Condottosi a termine l’incarto, ora se ne riferiscono le circostanze che gravano il padre Feletti, omettendo le altre concernenti il De Dominicis, come che al sicuro dalle forze della giustizia.

Tali circostanze sono

In genere


Il reclamo di Samuel Levi Mortara per la restituzione del rapito nipote, debitamente ratificato in giudizio.

Gli esami dei coniugi Mommolo e Marianna Mortara sulla patita violenta separazione dal figlio, e sulla sua reclusione nel Catecumenato di Roma onde esservi allevato in altra religione.

Il giurato deposto di ben nove testimoni, parte ebrei e parte cristiani, che furono spettatori del ratto del fanciullo, e ne dettagliano gli odiosi particolari, e cioè:

1° La effusione di dolore nella famiglia Mortara, avvenuta nella sera del 23 allo strano annunzio del battesimo del fanciullo, ed alla crudele ingiunzione di cederlo alla Chiesa cattolica. Poichè a tale annuncio la madre postasi in difesa del figlio giacente in letto e facendogli scudo col proprio seno, quasi furente gridava ai Gendarmi - che, prima di rapirglielo l’avrebbero uccisa, il padre disperato strappavasi per l’angoscia i capelli, ed i figli ginocchioni supplicavano pel fratello; spettacolo che trattenne i gendarmi dal discendere alla forza, e così lasciavano campo ad ottenere dalla Santa Inquisizione la tregua di ventiquattro ore.

2° Il crudele distacco dei genitori dal figlio, sul quale raccontano che nelle ore pomeridiane del 24, dopo l’inutile tentativo del padre fatto al Sant uffizio per sospendere ulteriormente la esecuzione, svanita ogni speranza, fu deciso di allontanare la madre, siccome avendo altra creatura lattante poteva dare in gravissimo sconcio trovandosi in luogo nel fatale momento, ma vi bisognarono da ben due ore a separarla dal figlio, e quasi a forza a metterla in una carrozza con la quale fu condotta in altra casa, e nel tragitto emetteva tali strida disperate da richiamare le persone alla finestra. Essa non ostante smarrì il latte, cadde gravemente ammalata, e con molto stento potè riaversi alquanto, senza però ricuperare mai la primitiva salute; essendo anche in oggi in istato pericoloso.

Rispetto al padre, notano che nella sera del 24, spirata la concessa dilazione, gli fu strappato dalle braccia il figlio Edgardo, e portato in carrozza.

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Perduti i sensi, cadde svenuto sulle scale di casa, mentre voleva correre appresso al figlio rapitogli, e soccorso tardò assai a rinvenire. Restò quindi per alcuni giorni sbalordito e negligendo i propri affari, andarono questi in ruina, perlocche dovette esulare.

3º La violenza patita dal fanciullo Edgardo. Sulle prime atterrito alla vista dei gendarmi, proruppe in pianti allorchè seppe la loro missione, e quando fu strappato dal seno paterno per metterlo in carrozza, si pose nuovamente a gridare, cosicchè all’escire in istrada dal gendarme che lo aveva in braccio, gli fu messa una mano alla bocca. Voleva infatti che il padre, e l’ebreo Giuseppe Vitta andassero seco. Laonde a calmarlo gli fu detto che sarebbero venuti appresso in altro legno. Anche durante il viaggio chiedeva dei suoi genitori, benchè tenuto a bada dal brigadiere Agostini con dolci e giuocattoli.

4. La compassione destata negli stessi gendarmi dall’inumanità del fatto, poichè ne furono tocchi fino alle lagrime; ed il maresciallo Lucidi, che diresse la esecuzione, ne rimase talmente conturbato da esprimersi: che in caso di altri simili ordini si sarebbe rifiutato all’obbedienza.


In ispecie


La incolpazione de’ coniugi Mortara che accusano il P. Feletti come quegli che fece eseguire il ratto del loro figlio.

La prova desunta dal deposto del maresciallo Pietro Caroli, e dell’ora sotto-tenente Giuseppe Agostini che la lettera al tenente colonnello De Dominicis ordinante il ratto del fanciullo Edgardo fu scritta ed emanò dall’inquisitore Feletti.

Questa lettera non riesci di averla in atti perchè sottratta dal De Dominicis al protocollo del corpo gendarmi appena escite nei giornali le prime polemiche intorno alla nequizia del fatto.

La prova scatente dal giurato deposto di sei testimoni che la esecuzione del sequestro del fanciullo fu sospesa per ventiquattro ore dal P. Feletti cui si diressero il Padovani ed il Moscato riportandone analoga lettera pel maresciallo Lucidi che vi diede pronta obbedienza.

Le ammissioni giudiziali del P. Feletti.

Il medesimo ai costituti abbandonò l’ostinato silenzio cui erasi appigliato nello interrogatorio stragiudiziale subito all’atto dell’arresto, e sebbene allora si dichiarasse vincolato a solenne giuramento di non prestarsi a rispondere sopra cose concernenti il Sant’uffizio, pure, giudizialmente interpellato sul ratto del fanciullo Mortara, dedotta preliminarmente la eccezione del privilegio del foro per non incorrere nelle censure ecclesiastiche, dichiarò che, trattandosi di un fatto pubblico, poteva dirne quello che già era a notizia di molti, e ne diede tutti i possibili dettagli, ammettendo di avere egli stesso ordinata la separazione del fanciullo dalla famiglia, e la sua traduzione nel collegio de’ Catecumeni a Roma, mediante analoga lettera diretta al colonnello De Dominicis, come pure ammise di avere alle istanze di Padovani e Moscato, con altra lettera al maresciallo Lucidi, fatta sospendere la esecuzione per ventiquattro ore.

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Nel dettagliare però il doloroso fatto, lo rivesti con più miti colori, e sostenendo che gli ordini dati furono di procedere con ogni moderazione, di persuadere la madre alla cessione spontanea del figlio con divieto di usare la menoma violenza, volle far credere che la cosa con tutta calma avea avuto il suo effetto, essendochè nelle ore pomeridiane del 24 giugno, presentatoglisi il padre, combinò seco lui che alla sera si sarebbe consegnato il bambino ai gendarmi, inducendo intanto la moglie al distacco. Diffatti con tutta tranquilità la madre aveva lasciato il fanciullo, si era ritirata in altra camera, ed il ragazzo senza alcuno strepito era stato messo in carrozza da un ebreo e tradotto a Roma.

Cotali pretese però rimangono smentite da tutti i testimoni presenti al fatto, e d’altronde il P. Feletti dichiara di parlarne per altrui referto.

Eccepì pure che nel fatto egli non aveva eseguito che gli ordini abbassatigli dal supremo Tribunale del Sant’uffizio in Roma, che, a suo dire, non emana mai alcun decreto senza il consenso del Sommo Pontefice, ed esternò quindi alta sorpresa nel sentire imputarglisi a delitto il detto fatto accaduto da due anni, ed ordinato dal governo che in allora aveva la direzione di queste provincie.

Il non avere l’inquisito saputo o voluto giustificare la premessa eccezione esibendo il dispaccio che nella ipotesi gli dovette essere trasmesso da Roma, o producendone altra legittima prova.

Per quanto gli si ricercasse l’esibita di quel documento, non volle prestarsi, adducendo di non poterlo fare senza incorrere nelle censure ecclesiastiche.

L’essere in atti piuttosto esclusa una tale eccezione, poichè escussi il maresciallo Caroli ed il brigadiere Agostini, che videro la lettera del P. Feletti al De Dominicis per la presa del fanciullo, senza poterlo in modo positivo assicurare, esternarono avviso che nella medesima non fosse affatto dal P. Feletti richiamato il preteso ordine della Sacra Congregazione.

L’aversi, come presunzioni contrarie alla pretesa dell’inquisito: 1° che il medesimo in costituto non ha osato di affermare in modo assoluto ed indubitato il richiamo di quell’ordine nella sua lettera al De Dominicis; 2° che il rettore dei Catecumeni a Roma, nel ricevere in consegna il fanciullo dall’Agostini, disse di avere in proposito avuto la opportuna partecipazione dal P. Feletti; 3° che l’Agostini al suo ritorno da Roma, in premio della traduzione del ragazzo, ebbe da quello la somma di scudi quattro.

È però un fatto che al Padovani ed al Moscato, allorchè la notte del 23 andarono a supplicare per la proroga della esecuzione, e quando nel dì seguente il padre del fanciullo si presentò a chiedere una ulteriore dilazione, il P. Feletti fece conoscere che l’ordine della presa partiva da Roma.

Il non avere il P. Feletti saputo o voluto giustificare il dedotto battesimo del fanciullo Mortara.

Come pendente la esecuzione a carico del ragazzo aveva risposto alle ricerche del padre e dei parenti ignari dell’affacciato di lui battesimo, che non poteva darne alcuna spiegazione, alcuno schiarimento, ma che erasi proceduto in piena regola dal Tribunale del S. Uffizio composto di tutte persone [p. 288 modifica] integerrime, il P. Feletti si mantenne su ciò anche all’atto dell’arresto nel più riservato silenzio, allegando il vincolo del prestato giuramento di non rivelare cose appartenenti alla Sacra Inquisizione.

Di coerenza ne’ costituti giudiziali non volle punto prestarsi alle ricerche sul proposito, adducendo genericamente che dalla Suprema Sacra Congregazione erasi conosciuto che il fanciullo Mortara fu battezzato in pericolo di morte, e ricusò non pure la esibizione degli atti da lui e da altro Padre incognito elevati per iscritto sulla sussistenza di quel battesimo, ma non volle, ad onta di reiterate ammonizioni, tampoco indicare come, quando, e da chi al Mortara fosse stato conferito il sagramento, per quale organo ne fosse pervenuta la notifica al S. Uffizio, e quali verifiche ne fossero state assunte.

Esso, invece di fornire le richieste prove di fatto, ebbe ricorso al soprannaturale, adducendo quali segni non dubbi del ricevuto sagramento: che il fanciullo, nella sera del 24, lungi dall’affliggersi al distacco della famiglia, in mezzo al dolore degli altri rimase impassibile e quieto, anzi con volto ilare e sereno si dispose alla partenza; che nelle varie fermate lungo il viaggio chiedeva al brigadiere Agostini di essere condotto in chiesa; e che ne’ vari colloqui avuti successivamente in Roma coi genitori, ed in un incontro colla madre in una chiesa di Alatri, aveva saputo resistere alle fattegli tentazioni di tornare alla casa paterna ed alla religione ebraica.

L’essere cotali deduzioni smentite dal deposto di più testimoni circa al contegno del fanciullo al momento della separazione dalla famiglia, come pure durante il viaggio a Roma, e dalla negativa dei genitori sulla dimostrata di lui vocazione al cristianesimo negli abboccamenti avuti nella Dominante.

Il non essere riescito alla Curia di raccapezzare d’altronde la prova del battesimo, poichè la Polizia, opportunamente ricercata, non seppe fornire alcun elemento, e le ricerche giudiziarie non valsero ad attingere una tal prova, senonchè dalla nuda assertiva di un’Anna Morisi che avrebbe conferito il sagramento.

Narra colei che nel 1852, essendo a servire coi Mortara, allora abitanti in via Vetturini, il fanciullo Edgardo nell’età di otto mesi cadde gravemente ammalato di una sineca; che i genitori, temendo della di lui vita in onta alle dichiarazioni rassicuranti del chirurgo dottor Pasquale Saragoni, erano stati a vegliare tutta una notte, e alla mattina essa li vide addolorati nella camera ove giaceva l’infermo, in atto di leggere un libro ebraico, libro solito a leggersi dagli israeliti sui moribondi. Che spaventata, essendosi poco dopo condotta a comprar olio dal vicino droghiere Cesare Lepori, questi l’avea istigata ed istruita a dare il battesimo al fanciullo, conforme restituitasi a casa, e colto un momento in cui i padroni dalla camera ove giaceva in culla il bambino eransi ritirati nella propria da letto, attinto prestamente dal pozzo un caliedro di acqua, e presone un bicchiere, aveva amministrato al fanciullo il battesimo, senza che alcuno se ne avvedesse; che il fanciullo contro l’aspettativa era guarito, e che essa non aveva mai parlato ad alcuno sul particolare, e neppure al confessore; che solo pochi mesi innanzi di lasciare il servizio dei Mortara, ossia sullo scorcio del 1857, [p. 289 modifica] aveva svelato il segreto alla serva coinquilina Regina Bussolari in circostanza di esserne stata consigliata a battezzare altro figlio dei Mortara di nome Aristide, caduto gravemente infermo.

Aggiunse la Morisi che poco dopo la sua partenza dai Mortara, passata a servire i coniugi Santandrea in via S. Mamolo, il P. Inquisitore Feletti l’aveva fatta chiamare al S. Uffizio, dove, sottoposta ad esame con giuramento di silenzio sulla materia dell’interrogatorio, aveva dovuto palesare il battesimo conferito al fanciullo Edgardo, e siccome a nessun altro fuori della Bussolari ne aveva tenuto parola, concluse che soltanto da quella erasi riportata la cosa al S. Uffizio.

L’essere stata smentita la Morisi dalla deposizione del Lepori e della Bussolari, che rispettivamente impugnarono l’uno di averla istigata ed istruita a dare quel battesimo, l’altra di averne avuta la confidenza.

L’essere d’altronde smentita l’assertiva della Morisi, poichè intese in esame le persone che avvicinarono il fanciullo nell’epoca del dedotto battesimo, non escluso il chirurgo curante signor dottor Saragoni, attestano che la malattia di lui non fu una sineca, ma una semplice febbre verminosa senza pericolo, ed il dottor Saragoni, nel dichiararla tale, afferma di avere rassicurato sulla vita del fanciullo i genitori, i parenti ed i domestici di casa: d’onde la inverosimiglianza delle funeste apprensioni dei genitori, e lo spavento della Morisi, che la spinse al preteso conferimento del battesimo.

Tuttavia gli Ebrei De Angeli e Padovani, che poco dopo il ratto del fanciullo, per incarico del padre, vollero verificare dalla bocca della Morisi se, come avevano presentito, avesse in realtà battezzato il fanciullo, alla conferma avutane dichiarano di essersi persuasi alle di lei parole, ed al di lei pianto.

Anche la testimone Elena Santandrea, che all’epoca del dedotto battesimo e della malattia del fanciullo Mortara combinò per istrada la Morisi, e ne ebbe la seguente domanda — Mi hanno detto che a battezzare un fanciullo Ebreo in punto di morte si va in Paradiso e si acquista indulgenza —, all’udire il sequestro del fanciullo per motivo di battesimo, dimostrò in esame la opinione che realmente fosse stato da colei battezzato.

Dal certificato del ruolo di popolazione si rileva che Edgardo Mortara nacque nel 27 agosto 1851 in Bologna. Dalla fede poi della Morisi emerge che avesse la luce nel di 28 novembre 1833, laonde all’epoca dell’asserto battesimo aveva quasi compiti i diciannove anni.

Ispezionati i registri del dottor Saragoni sulle visite ai clienti, risulta che il fanciullo Mortara patì la suesposta infermità nel periodo dal 31 agosto 1852 al 12 settembre successivo.

L’essere eccezionabile la deposizione della Morisi fatta nel Sant’uffizio come che emerse dopo sei anni ed in epoca in cui aveva lasciato il servizio dei Mortara.

Il soffrire pur anco la medesima altra eccezione perchè oltre i rimarcati mendaci della Morisi nell’esame giudiziale, si ha in atti che essa in casa Mortara ed altrove fu serva impudica ed infedele; e fu anche spergiura divulgando con le sorelle, come confessa, ciò che il Sant’uffizio le aveva con giuramento imposto di tacere.

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L’esame dell’Elena Santandrea, presso cui era a servire la Morisi, allorchè andò a deporre al Sant’uffizio, dal quale si rileva che fu chiamata e presentossi al P. Inquisitore Feletti quattro o cinque volte.

L’altro esame della Geltrude Laghi in Toschini, alla quale la Morisi ebbe a palesare che era stata a confessarsi a San Domenico, e che i frati l’avevano introdotta di là in una camera, dove era stata presa da un forte timore e l’avevano interrogata sopra tante cose in riguardo di essere stata al servizio con Israeliti.

Le equivoche risposte della Morisi escussa in rapporto delle premesse deposizioni della Santandrea e della Laghi, poichè, negando di essere stata a confessarsi a San Domenico, volle far credere che, in procinto di maritarsi, essendosi condotta al P. Feletti onde averne una dote caritativa, il medesimo le diede appuntamento al confessionale, dove inginocchiatasi senza confessarsi, seppe che la concessione dipendeva non da lui, ma dai frati dell’Annunziata, aggiungendo che pochi giorni dopo era stata chiamata al Sant’uffizio a deporre sul battesimo di Edgardo, laonde vi si era condotta soltanto tre volte.

Tali risposte della Morisi combinate colla smentita della supposta denunciante del battesimo, Regina Bussolari, appoggiano il sospetto scatente dall’attestazione della Laghi che la stessa Morisi, in circostanza di essere stata a confessarsi in San Domenico, svelasse il conferito battesimo del fanciullo Mortara, e ne fosse essa medesima la vera denunciante.

Il doversi concludere che dal P. Inquisitore Feletti non furono nè cercate, nè assunte le prove legali del battesimo denunciato dalla Morisi, perchè intesi in esame il Lepori e la Bussolari indotti da colei, sentite tutte le persone che videro od assistettero il fanciullo Edgardo nel periodo della malattia avuta, e del preteso battesimo, compreso il curante dottor Saragoni, interrogati infine tutti gli altri che potevano informare sulla condotta della Morisi, negano ad una voce di essere mai stati ricercati ed esaminati sul particolare dal lodato Inquisitore.

Perciò venne contestato all’Inquisitore l’appostogli ratto del fanciullo Mortara da lui ordinato per motivo di asserto non giustificato battesimo, ed il relativo incorso penale.

Dalla residenza d’ufficio, oggi 7 marzo 1860.

Dott. F. Carboni, giudice.
Giacomo dott. Dosi, sostituto.


Pubblicatosi il processo, e richiesto l’Inquisitore sulla nomina del difensore, si rifiutò rimettendo la propria difesa unicamente in mano di Dio e della Beata Vergine Santissima.

Laonde gli fu fatta diffidazione che gli sarebbe stato assegnato un difensore d’ufficio.

Dalla residenza, 21 marzo 1860.

F. Carboni, giudice.
G. Dosi, sostituto.



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Seduta del 16 aprile 1860.


Il tribunale, rispondendo alle questioni proposte dal suo capo, invocato il santissimo nome di Dio:

Dichiara constare che nella sera del 24 giugno 1858 fu, mediante la pubblica forza, tolto ai coniugi israeliti Salomone alias Mamolo Mortara e Marianna Padovani, Edgardo loro figlio, e che l’ablazione fu fatta di Principe.

Che non era quindi, e non è luogo a procedere criminalmente contro gli esecutori dell’ablazione suddetta, e perciò contro il prevenuto padre reverendo Gaetano Feletti dell’ordine dei Predicatori, già inquisitore del Santo Officio in Bologna, quale in conseguenza ordina che venga liberamente dimesso dal carcere.

Il presidente è incaricato della redazione della presente sentenza.

C. Ferrari, presidente — D. E. Fanti, giudice - R. Marchesini, id. - C. Mazzolani, id. - D. Marsi, id. - A. Baratta, id.


Il ratto del fanciullo Mortara fu anche argomento di rappresentazioni teatrali. A Napoli ebbe fortuna, al teatro dei Fiorentini, nei primi tempi dopo il 1860, un dramma sensazionale del Camoletti, dal titolo: Una famiglia ebrea; a Torino fu rappresentata un’«azione lirico-storico-spettacolosa», e in relazione ad essa furono anche pubblicati disegni umoristici, uno dei quali, da me posseduto, riproduce grottescamente l’azione del ratto. Vi figura un prete, che strappa il bimbo alla madre; il bimbo si butta per terra per non farsi portar via; due guardie, tozze e panciute, sorridono mefistofelicamente, e danno braccio forte al prete; ma, nell’ultima scena, il prete fugge a cavallo di un asino, e il fanciullo viene restituito alla famiglia. A Parigi ebbe molte rappresentazioni La Tireuse de Chartres, riproducente su per giù la stessa scena, ed attirò al teatro una gran folla di pubblico. Nei primi tempi, dopo il 1870, questo dramma fu rappresentato per molte sere in Roma, al Quirino, provocando urli caratteristici, e scatti di protesta contro i preti, tantochè, a garantia dell’ordine pubblico, fu dovuto proibire.

Girolamo Mortara fece, dopo il 20 settembre 1870, qualche tentativo presso il generale Lamarmora, per riavere il figlio, ma senza frutto. Risultando il sacerdote Pio Edgardo refrattario alla leva militare, al fine di risparmiargli molestie, fu dai suoi superiori mandato all’estero, in varie case dell’Ordine, prima nel Tirolo austriaco, poi in Francia, ed in Ispagna; e nei collegi a quelle [p. 292 modifica]annessi si dedicò, per lunghissimo tempo, all’insegnamento ed alla predicazione. Dopo circa vent’anni tornò in Italia, dove, liberato, con rapida e benevola procedura, da ogni conseguenza, in confronto alle leggi militari, potè rimanere liberamente, a più riprese, in Roma e altrove.


*


Il padre Pio Edgardo Mortara (così egli firma), oltre ad essere missionario apostolico, è pure professore di teologia, conosce varie lingue, ed è tra le più notevoli figure del suo Ordine. Non ostante la sua separazione dalla famiglia, e la differenza di religione, ha conservato pei fratelli e le sorelle un affetto sincero, e un profondo attaccamento, come con riverente tenerezza ricorda i perduti suoi genitori, di benedetta memoria, com’egli dice, e che ho sempre amato con vero sentimento filiale. Si deve anche ricordare, per la verità, che l’educazione del fanciullo non fu diretta a modificare i suoi affetti di famiglia, essendo ai nuovi educatori bastata la certezza, che l’animo di lui era definitivamente acquistato alla nuova fede, ed al nuovo suo stato. In una lettera al Temps del 18 aprile 1900, datata da Parigi, smentisce che sua madre sia morta cristiana. La verité avant tout, egli dice. J’ai toujours désiré ardemment que ma mère embrassât la foi catholique, et j’essayai plusieurs fois de l’y disposer. Cependant, cela n’eut pas lieu, et lors de sa dernière maladie, me trouvant auprès d’elle, avec mes frères et sœurs, je ne remarquai en elle aucun indice d’une conversion.

A dimostrare l’affetto suo per la famiglia, pubblicò alcune terzine da lui scritte, nel luglio del 1891, da Modena, nel natalizio delle sue sorelle, nate ad un parto, Erminia ed Ernesta. Benchè la forma non rifulga di efficacia poetica, l’onda affettuosamente malinconica, che vi traspira, rende quei versi non privi d’interesse:

5 luglio 1891. Alle mie carissime sorelle Erminia ed Ernesta, nella fausta ricorrenza del loro giorno natalizio, il loro amantissimo fratello Pio Edgardo, stringendole al cuore dopo trentatre anni di dolorosa assenza, piangendo di gioia, dedica e consacra queste terzine:

O mie care sorelle, o benedette
Sorelle mie, ch’alfin pur stringo al cuore
Dopo sei lunghi lustri, o mie dilette!

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In questo fausto giorno, in cui l’albore
Spuntò di vostra vita, io pur nel canto
V’offro e presento del mio affetto il fiore.
Non di duol, ma di gioia è il nostro pianto:
Dopo l’assenza e sì crudeli prove,
Piangere insieme è un bello e dolce incanto...
Ora le nostre gioie e fresche e nove,
Come la primavera dopo il verno,
Come i fior dopo i nembi, il ciel le piove.
Dal fondo del mio cuor prego l’Eterno
Che vi conservi insieme ai vostri cari,
Di questa vita nell’oscuro inverno;
Che da voi cacci i giorni tristi e amari,
Che di gigli e di rose vi coroni,
E piacer vi conceda senza pari.
E che i consorti, così dolci e buoni,
Con questi amati angelici figliuoli,
Delle vostre virtù sian guiderdoni.
Ma in queste gioie, ah! no, non sarem soli:
Ci uniamo tutti all’adorata madre,
Che sue le faccia, come i nostri duoli.
O cara madre, nove volte madre,
Stringine tutti all’amoroso petto,
Pur ricordando quel compianto padre,
Che se qui fosse, ah! forse del diletto
Teco morrebbe, ed or lassù nel cielo
Ne porge ancora il pegno di suo affetto.
Ah! sollevando del passato il velo,
Il freddo sasso, che i suoi resti chiude,
Baciam tre volte con ardente zelo.
Non pianger, madre: l’avvenir ne schiude
Altre gioie per te non già furtive,
Ma sempiterne, se il cuor non 8’ illude.
Madre, non pianger, placide e festive
Le nostre alme s’intrecciano, per poi
Unirsi sempre nell’eterne rive.
Tu ne desti la vita, e tutti noi
Frutto siam del tuo sen, tutti tuoi figli,
E, te felice, lo sarem pur noil!...
Vivi contenta, tu di rose e gigli
Non vuoi corona, ma sol cerchi e brami
Il bel serto dei nove amati figli!...
Dei nove figli che tu adori ed ami
Coi tuoi nipoti tanto, che più morte
Vorresti, o madre, che vederli grami.

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O madre degna della miglior sorte,
I nostri cor saran la tua corona
Che non potrà spezzar la negra morte.
E quando fia che l’alma n’abbandone
La fragil spoglia, allor lassù con Dio,
Nei giardin dell’empirea Stone,
S’intrecceranno i nostri cuori, e in Dio,
Teco sarem felici, o cara madre,
Stretti al tuo cuore, e stretti al cuor di Dio,
Cantando osanna con le alate squadrel!...

Modena, 5 settembre 1891.

Il vostro affezionatissimo fratello
Pio Edgardo Mortara
che vi ama tanto
con la nostra adorata madre e cara famiglia!...



Il Mortara rivide sua madre, prima a Perpignano, e poi a Parigi nel 1878, dopo venti anni. Il professor Carlo Usigli, amico intimo della famiglia, fu presente all’incontro, e ne ha lasciata un’interessante relazione manoscritta, nella quale accenna alla voce corsa, di avere il padre Edgardo, in quell’occasione, cercato di persuadere la madre, allora già vedova, a convertirsi al cattolicismo, entrando in un convento di suore, ed aggiunge di avernelo sconsigliato.


*


Il pietoso episodio, testè narrato, mi richiama al Ghetto di Roma. Massimo d’Azeglio, nel famoso opuscolo sull’Emancipazione degl'israeliti, così parla di quel sozzo covo della popolazione semita nella capitale della cattolicità:

... che cosa sia il Ghetto di Roma, lo sanno i romani, e coloro che l’hanno veduto. Ma chi non l’ha visitato, sappia, che presso il ponte a Quattro Capi s’estende lungo il Tevere un quartiere, o piuttosto un ammasso informe di case e tuguri mal tenuti, peggio riparati e mezzo cadenti, nei quali si stipa una popolazione di 3900 persone, dove invece ne potrebbe capire una metà malvolentieri. Le strade strette, immonde, la mancanza d’aria, il sudiciume che è conseguenza inevitabile dell’agglomerazione forzata di troppa popolazione quasi tutta miserabile, rende quel soggiorno tristo, puzzolente e malsano. Famiglie di quei disgraziati vivono, e più di una per locale, ammucchiate senza distinzione di sessi, d’età, di condizione, di salute, a ogni piano, nelle soffitte e perfino nelle buche sotterranee, che in più felici abitazioni servono di cantine.

[p. 295 modifica]Non diverso era il Ghetto nel 1870, e tale durò sino alle demolizioni per i lavori del Tevere. Oggi quel quartiere, abbellito dai villini sul Lungotevere, e dalla grandiosa sinagoga, è divenuto irriconoscibile. Allora, la nota via della Reginella terminava al portico d’Ottavia, ed era occupata dai maggiori mercanti di telerie, stoffe e abiti confezionati. Il primo negozio a destra era quello di Leone Cave Bondi, specialista in corredi nuziali, il quale faceva affari d’oro col «generone» ed anche con l’aristocrazia, come per le telerie grandeggiava il negozio Citone. I Pontecorvo, i Castelnuovo, i Tagliacozzo, i Piperno, gli Scazzocchio occupavano gli altri negozi della Reginella, dove vendevansi abiti manifatturati, cappe e cappotti per i contadini e i butteri. La via del portico d’Ottavia, con negozi più umili, conduceva in Pescheria vecchia, presso la chiesa di Sant’Angelo. Era li, che si vendeva il pesce sopra rozze pietre tolte dal portico, e tra i venditori di quella merce attirava gli sguardi, e i motti galanti dei frequentatori del mercato, una piacente figura di pescivendola cristiana, chiamata «la sora Luisa». Da secoli fioriva la tradizione, che non si potesse fissare il prezzo del pesce, prima che fosse arrivato il cuoco del Papa, per farne la scelta; e fu Pio IX, che abolì l’antipatico privilegio, proibendo al suo cuoco di recarsi in pescheria.

Tornando al Ghetto, parallela alla via del portico d’Ottavia, era l’altra detta Rua, centro del quartiere e degli stracciaroli; via, che terminava incontro alla chiesa di San Gregorio, a ponte Quattro Capi, e che oggi s’intitola della Divina Pietà. In dispregio della popolazione israelita, sulla facciata della chiesa si legge, anche oggi, il salmo d’Isaia in ebraico colla traduzione latina, che qui trascrivo: Expandi manus meas tota die ad populum incredulum, qui graditur în via non bona post cogitationes suas; Populus qui ad iracundiam provocati me ante faciem meam, semper. Congregatio Divinae Pietatis Posuit». Questa iscrizione si legge sotto un affresco rappresentante Gesù in croce. E dove ora biancheggia la maestosa sinagoga, si addensava il centro più immondo del quartiere, la cui demolizione fu vera opera di civiltà.

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*


Agli ebrei era, com’è noto, vietato abitare fuori del Ghetto, donde non avevano interesse di snidare, perchè vi godevano dei privilegi, fra i quali un antichissimo diritto di locazione ereditaria, detto jus gadzagà, che obbligava i proprietari a non alterare la misura dell’affitto. Era questo uno dei provvedimenti, escogitati dal governo pontificio, per impedire il rialzo delle pigioni, che a Roma, del resto, eran più basse che in ogni altra città d’Italia, prima del 1870. Il primo ebreo romano, che si azzardò di aprire un negozio fuori del recinto giudaico, fu Isacco Pacifico, il quale si obbligò a pagare dieci scudi all’anno, alla parrocchia di Santa Maria in Via. Anche Samuele Alatri, la figura più notevole dell’università israelitica, aveva il suo ufficio fuori del Ghetto, al palazzo Antici Mattei, e per trasferirvelo, dovette ottenerne l’assenso del parroco di San Carlo ai Catinari, ed obbligarsi ad una grossa contribuzione. I parroci avevano pieni poteri, e potevano, anche da un momento all’altro, far rientrare gl’israeliti in Ghetto. Ma tutto questo era nulla rispetto ai pregiudizi cristiani, e alle angarie del governo pontificio. Se negli ultimi anni, grazie alle miti tendenze di Pio IX, non si videro più le tristi scene, delle quali furono vittime gli ebrei, nondimeno molte cose erano sopravvissute. Alle domestiche cristiane, per esempio, era proibito servire nelle case degl’israeliti; i giovani non erano ammessi a frequentare l’Università, a meno di forti raccomandazioni, e dovevano esclusivamente iscriversi nella facoltà di medicina, con giuramento che, conseguito il diploma, dovessero curare i soli israeliti.

Peggiori pregiudizi rimanevano vivi nel mondo aristocratico. Gli ebrei non erano ricevuti nei saloni aristocratici, ma ciò non tolse, che quando, nel 1864, venne in Roma la baronessa Natalia de Rothschild, accompagnata dalla sua dama di compagnia Saint-Mary, e prese alloggio principesco all’albergo di Londra, fosse ricevuta in casa Caetani, invitata ai balli di casa Rospigliosi, e ad un pranzo in casa Massimo, all’Aracoeli, come non tolse, che ai grandi ricevimenti, che ella dette, accorresse tutta la Roma blasonata. E quando, pochi anni dopo, un giovane [p. 297 modifica]ed elegante ufficiale delle Guide, Ulderico Levi, venne da Napoli in Roma, fu con gran festa accolto in parecchie famiglie del patriziato, e singolarmente in casa Sforza Cesarini. Francesco Sforza era suo camerata, ed insieme si erano distinti a Custoza. E de’ proprî pregiudizi, gli ebrei di Roma si andavano alla lor volta anche correggendo, come quelli di non voler passare sotto l’arco di Tito, di non accendere il fuoco il sabato, ma farlo accendere da una domestica cristiana, e del costume, specie nei vecchi, di andare a passeggio fuori porta Portese, donde si aspettava il Messia. Le diffidenze fra le razze sparivano, benchè lentamente, e la stessa leggenda dell’usura andava sfiorendo, di fronte ai numerosi esempi di vampiri cristiani. Le donne erano molto ricercate nelle case patrizie, perchè cucitrici e ricamatrici perfette, ed abili collocatrici di tappeti. Ma gli uomini seguitarono ad avere un’invincibile ripugnanza per i mestieri: non vetturini, non operai della terra, non fabbri, nè muratori, e assai meno spazzaturai. Mercanti sempre, e in varie guise, anche in quella lucrosa, per quanto bassa, di «robivecchia». Non si ricorda che alcuno di razza semita esercitasse notoriamente, fino al 1870, professione liberale in Roma, tranne quella del medico. E infatti, nei tempi remoti, Innocenzo VIII aveva avuto per medico un ebreo; Abramo De Palmis fu medico del cardinal Gambara; Vitale di Graziano fu archiatra di Martino V, ed anche Giulio II si fe’ curare da un Samuele Sarfati. Molte altre notizie di ebrei, medici di papi e di cardinali, si leggono nel libro di Camillo Re, e nel dizionario del Moroni. Tutto ciò dimostra, che, innanzi alle esigenze della salute, i pregiudizi cadevano. Ma bisogna pur dire, che la professione di medico era esercitata dagli ebrei con coscienza e intelligenza.


*


Se l’intolleranza verso gl’israeliti rasentava l’esagerazione, e in alcuni casi la crudeltà, non è a dire che si fosse larghi con le altre religioni. Il Papa non permise mai la costruzione di un tempio protestante in Roma. Uno soltanto era confinato fuori porta del Popolo, a sinistra uscendo, in una specie di granaio. Non essendovi ambasciata d’Inghilterra, i numerosi [p. 298 modifica]inglesi della colonia dovevano rassegnarsi a frequentare quell’unica chiesa, innanzi alla cui porta agenti del Vicariato e della polizia stavano alla vedetta, per trarre in arresto qualunque estraneo vi penetrasse, il quale, o era condotto a far gli esercizi spirituali, o veniva chiuso per parecchi giorni nelle Carceri Nuove. Le altre ambasciate, o legazioni di Stati protestanti, avevano solo delle cappelle nelle rispettive sedi, come la legazione di Prussia al palazzo Caffarelli, e la legazione russa al palazzo Fooli al Corso. La legazione americana, nel tempo che vi era ambasciatore il generale Rufus-King, accomodò a cappella come si è detto, una delle grandi sale al secondo piano del palazzo Salviati, con grave scandalo della padrona di casa. Ciò avvenne nel 1866, ma fino a quell’anno, gli americani frequentavano la chiesa inglese.

I casi d’intolleranza avevano la loro più frequento manifestazione in occasione di matrimoni. Il conte Ferdinando Frenfanelli Cibo, guardia nobile, per sposare una ricca americana protestante, dove andar via di Roma, nè potè tornarvi e rioccupare il suo posto nel nobile drappello, prima che la sposa si convertisse al cattolicismo. Emanuele Ruspoli potè tornare in Roma, sol dopo la morte della sua prima moglie, principessa Vogorides, avvenuta a Genova nel febbraio 1870; e suo fratello Paolo, che sposo, come si è detto, la protestante signorina Jork, rimpatriò coi nuovi tempi. La loro bellissima sorella Francesca, vedova di Giovanni Torlonia, per sposare Nicola Kisseleff, ministro di Russia, dovette allontanarsi da Roma, nonostante le insistenze del duca Marino Torlonia, primo suocero della Ruspoli.

Si ricorda, che il Torlonia, andato per tale oggetto da Pio IX, n’ebbe in risposta: «Questo non sarebbe un matrimonio, ma un concubinato»; e don Marino, interpretando a modo suo la parola del Pontefice, si profuse nelle più vive espressioni di riconoscenza ed ai maggiordomi dell’anticamera annunziò, tutto soddisfatto, che il Papa s’era degnato di assicurarlo che «tutto era combinato».

Erano frequenti le cerimonie di abiura, alle quali si dava una nota singolarmente spettacolosa. Ne avvenivano ogni anno, specialmente il giorno di Natale, a San Pietro, nel momento dell’elevazione. Nell’ottobre del 1852, nella chiesa di Santa Caterina [p. 299 modifica]da Siena, prese il battesimo una fanciulla mora di anni quattro, riscattata sui mercati d’Africa dal sacerdote genovese Nicolò Olivieri. Fu madrina la marchesa Ferraioli, e la fanciulla venne chiusa nel monastero di Santa Caterina delle domenicane. Di nulla più si commoveva l’animo di Pio IX, che di queste cerimonie, le quali segnavano per lui altrettanti trionfi della fede cattolica, e se ne commoveva forse sinceramente.



Note

  1. Alfredo Testoni, Bologna che scompare, con illustrazioni. 1905.
  2. Roma e l’opinione pubblica d’Europa nel fatto Mortara. Atti, documenti, confutazioni, con l’aggiunta del diritto canonico e del diritto naturale, per l’abate Delacouture, antico professore in teologia. Torino, Stamperia dell’Unione, 1859.