Roma e lo Stato del Papa/Capitolo VIII
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CAPITOLO VIII.
Roma di allora.
L’ingresso del Corso, da piazza Venezia, fu allargato dopo il 1870, con la demolizione di alcune piccole case, sostituite da altre, la cui deformità contrasta col bel palazzo, che dai Rinuccini acquistarono i Bonaparte, quando, non trovando asilo in alcun paese d’Europa, ebbero ospitalità da Pio VII in Roma. Il primo piano di quel palazzo era occupato da tutta la famiglia Bonaparte, e madama Letizia vi morì nel 1836. Vi abitò la famiglia di Luciano così numerosa, e poi quella numerosa egualmente di suo figlio Carlo, principe di Canino. Al secondo piano, nei tempi di queste cronache, abitava il banchiere americano Hooker, uomo ricco e bizzarro, del quale si ricordava sempre il ballo dato di mezzogiorno, come già si è detto. Il palazzo Doria non aveva allora l’attuale ingresso principale, ma vi si entrava dalla porta accanto alla chiesa di Santa Maria in via Lata. Nel 1857 il bel cortile si aprì ad una esposizione di fiori, che attirò numerosi visitatori. Vi andò fra gli altri il cardinal Gaude, che rimase estatico innanzi ad un vaso di camelie bianche, le cui foglie, incominciando ad appassire, si erano un po’ tinte di giallo alle punte. Al cardinale uscì detto ad alta voce: «Bellissime queste camelie scritte», e bastò questo perchè, per tre giorni, nell’alto mondo laico, non sì parlasse che delle camelie scritte del cardinal Gaude, tanta era la povertà di spirito di quella società, e tanta l’ignoranza di quel porporato. Com’è noto, nella chiesa annessa al palazzo fu canonico Pio IX, dopo che ritornò dalla missione d’America, ed in essa sono raccolti i resti della principessa Zenaide, moglie del principe di Canino.
Del palazzo Simonetti il pianterreno era occupato dagli uffici della banca romana, della quale, com’è noto, il conte Filippo Antonelli era governatore; il sor Antonio Costa, sottogovernatore; il fornaio Candi, cassiere; il conte Della Porta, commissario, e il sor Palica, factotum ed arbitro. Al primo piano v’era il banco del Baldini, ed al secondo abitava il cardinal Sacconi, zio del compianto architetto. Si ricordava di lui che, quando era nunzio a Parigi, in una rivista militare, a capo del Corpo diplomatico, mosse il riso di tutti gli astanti, perchè, venuto giù un improvviso acquazzone, si affrettò a coprirsi il cappello col fazzoletto da naso. Giù, sulla facciata di quel palazzo, zampillava la fontana detta del Facchino di via Lata, figura popolare in quel tempo perchè era il quarto del congresso degli Arguti, con Pasquino, Marforio e l’abate Luigi. I nuovi tempi, che rispettarono Pasquino e Marforio, hanno rincantucciato il Facchino nella via che va al Collegio Romano.
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Dopo il palazzo Simonetti, una piccola casa di proprietà del conte Cella è rimasta oggi tal quale, mentre che nel posto, dove sorge il bel palazzo della Cassa di risparmio, sorgeva un’antica casa appartenente ai mercanti di campagna Alibrandi, ricchi di censo ed anche più di adipe, tanto, ch’era detta la famiglia dei panzoni. Fra padre, madre e sei figli, si dava loro il peso netto di venticinque quintali. E i romani, parlo degl’indigeni, passando sotto il palazzo, studiavano per celia il passo, come a schivare il pericolo che la casa cascasse loro addosso per soverchio peso. Al pianterreno vi era il celebre caffè del Veneziano, illustrato dal Silvagni, e frequentato sino al 1848 da preti, fratelloni e domestici di cardinali e d’altri prelati. I domestici vi erano chiamati non col nome proprio, ma con quello dei cardinali che servivano, per cui il cameriere ordinava, gridando: Tazza bollente a Mezzofanti; Un’ombra a Micara; Caracca a Patrizi; Un’americana a Macchi. Dopo la restaurazione questo caffè perdette il suo vecchio carattere; e tra quelli, che, dopo la passeggiata estiva, seguitarono costantemente ad andarvi a prendere il gelato, fu la vecchia marchesa Casali del Drago, nonna del presente cardinale, che, dopo la visita alle Sacramentate del Quirinale, ordinava al cocchiere: «Al Veneziano». Prima di voltare per il Caravita, sul cantone, trionfava la celebre cappelleria del Testori, il quale, col Vacchini, coll’Antonini, con Vincenzo Rosa e Luigi Mancinelli, era uno dei cinque maggiori cappellai. Sul cantone di via di Pietra, dopo il palazzo Brenda, espropriato come il palazzo Piombino, con una fretta che non ha avuto in tanti anni alcuna giustificazione, sorgeva il palazzo Polidori, il cui pianterreno era stato adibito da Giovanni Olivieri a tipografia. Avendo questi assunto i lavori della Sapienza e dei teatri, stampava nel tempo stesso i libri di testo per le scuole e i programmi degli spettacoli dell’Apollo. Spesso s’incontrava nella stamperia il padre rettore della Sapienza col Jacovacci, il noto impresario di quel teatro. Seguiva, in ordine di botteghe, la profumeria della signora Alegiani, il cui figliuolo, non volendo saperne di odori e di essenze, si dedicò alla medicina e sposò una simpatica fanciulla, la quale, rimasta vedova di lui, passò in seconde nozze con Angelino Antonelli, ultimo fratello del cardinale, morto da pochi anni, e dal quale fu lasciata in gran parte erede del suo vistoso patrimonio. Più innanzi s’incontrava il gran negozio di mode, stoffe e telerie di Raimondo Puccinelli, molto frequentato dalle signore del generone, ed anche dall’aristocrazia. Seguiva verso piazza Colonna la libreria Merle, ritrovo di uomini colti, e dove convennero, nel tempo che stettero a Roma, Ampère e About. Erano fra i più assidui Pietro Ercole Visconti, il De Rossi e il Vescovali, e molti degli ufficiali superiori dell’armata francese e pontificia, con a capo il generale Zucchi.
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Dov’è oggi la pasticceria Rossi e Singer fioriva il caffè del Giglio, frequentato dai liberali più ardenti fino al 1849, e dove era vivo il ricordo dell’insulto, che, per la seconda volta, Cernuschi diresse all’armata francese, nel suo ingresso a Roma. Quel caffè divenne poi clericale, e ad ora tarda, dopo il teatro, vi si davano convegno guardie nobili, ufficiali e giovani eleganti, che cenavano col crostino alla provatura. Vi erano assidui i fratelli Colacicchi, il marchese Paolo del Bufalo, il marchese Paolucci dei Calboli, padre del presente diplomatico, il conte Oscar Angelini, che lasciò il suo patrimonio alle sorelle Simoncini, ballerine dell’Apollo, e lo scultore Nicola Cantalamessa-Papotti, del quale si narra che essendo andato in polizia per richiedere il passaporto, dopo di averne udito il nome, l’impiegato gli rispose: «scriveremo Nicola Papotti, cantante; canti, poi, la messa o il vespero, per noi è lo stesso». Di tale risposta, diffusa rapidamente, si rise per più giorni. La piazza Colonna era qual’è oggi, con più il palazzo Piombino. Nè il palazzo Brancadoro, ora Ferrajoli, nè il palazzo Chigi, hanno mutato aspetto; allora vi alloggiavano soltanto i loro padroni, mentre oggi gli ampi saloni del primo piano del palazzo Ferrajoli sono abitati dai marchesi Prinetti, e il piano nobile del palazzo Chigi dall’ambasciatore d’Austria presso il Quirinale. Il palazzo sul portico di Veio quasi non si riconosce. Al pianterreno, dove sono i due restaurants, e dove prima e dopo il 1870 stette per pochi anni la posta, vi era il comando di piazza. Al primo piano era il circolo militare francese, divenuto poi, dopo che i francesi partirono, il circolo militare degli ufficiali pontifici. Al secondo piano alloggiava il signor Mangin. Da piazza Colonna partiva la ritirata militare coi tamburi, ai quali il venerdì era sostituito il concerto dei dragoni. Queste ritirate furono cagione di frequenti dimostrazioni politiche nel 1859 e nel 1860, soprattutto quando al circolo francese fu inalberata la bandiera sarda per Magenta e Solferino. Qualche volta, a render più gaia la piazza, ch’era davvero il cuore di Roma, apparivano al gran balcone del palazzo Chigi le figliuole del principe, fino a che non passarono a marito.
Il banco Marignoli e Tommasini occupava il primo piano del palazzo Verospi, e nelle botteghe sottostanti aveva il negozio il Massoni, commerciante di lane, di sete per ricami e di oggetti. ecclesiastici. Le altre botteghe del palazzo erano occupate dal caffè degli Scacchi, dove signoreggiava il maggiore scacchista del tempo, Serafino Dubois, ed erano molto ammirate le partite fra lui, l’avvocato Lupacchioli e il dottor Poli, dell’armata pontificia. Dalla scuola del Dubois uscirono i viventi e valorosi giocatori Bellotti, Tonetti, Seni e Marchetti. Dove sono adesso i negozi di Finzi e Bianchelli si nascondevano botteghe anguste ed oscure. Luigi Mancinelli, il cappellaio dell’aristocrazia, ne occupava una. Egli aveva fatto un viaggio in America, e quando tornò a Roma, un gruppo di curiosi stazionava innanzi al suo negozio per ammirare il coraggioso viaggiatore, che aveva attraversato l’Oceano. La bottega accanto era occupata dall’ortopedico Mariani, il quale aveva perduto un figliuolo a Vicenza, volontario nell’artiglieria romana, e agli ordini del capitano Federigo Torre. Altra piccola bottega l’aveva l’armiere Diamanti, con esposizione di armi da fuoco e da taglio, che non vendeva però se non a persone ben cognite a lui ed al governo. Seguiva la nuova casa che Andrea Seretti, orologiaio e orefice, edificò, distruggendo alcune catapecchie, e destinando una bottega all’orologeria e un’altra all’oreficeria.
Il palazzo Fiano, dalla parte del Corso, aveva tutta l’aria di una baracca. La sola bottega discreta era quella della signora Rosina Massoni, prima modista di Roma e madre di monsignor Massoni, internunzio al Brasile, dove morì di febbre gialla.
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Sulla destra del Corso, a partire da piazza Venezia, il maggior palazzo era, com’è oggi, quello del duca Salviati. La duchessa riceveva la sera del lunedì il mondo elegante più ortodosso, e vi si ballava in carnevale. In un ballo in costume, dopo il 1860, vi si presentò, con quello de’ Malatesta di Rimini, il conte Emilio Malatesta, ma poichè allo stemma, che gli ornava il petto, mancava una linea trasversale, fu da quello spirito mordace del duca Proto fatto segno ad un volgare epigramma, che per poco non die’ origine ad una sfida. Al secondo piano del palazzo abitava il generale Rufus-King, ministro degli Stati Uniti. Non essendovi in Roma, allora, una chiesa protestante americana, il generale trasformò l’ampio salone in cappella, mettendo nelle maggiori angustie la cattolicissima padrona di casa, la quale, quando il ministro cambiò alloggio, fece ribenedire l’appartamento, quello stesso che aveva abitato Pellegrino Rossi. Il palazzo non era allora deturpato dalle botteghe del pianterreno.
Dove il principe Odescalchi ricostruì più tardi il nuovo palazzo, era un piccolo fabbricato che apparteneva ai signori Righetti, e all’angolo di San Marcello, sotto l’attuale sede della questura, vi era la libreria Bonifazi. Si alzava, a due passi, la bella chiesa di San Marcello, dov’è sepolto il cardinal Consalvi, e quel dottor Concionofrio Concioni, che aveva sconsigliato il conte Giammaria Mastai Ferretti dallo entrare nel corpo delle guardie nobili, e per cui il giovane patrizio sinigagliese si fece prete, e divenne Papa. In questa chiesa sorge pure il monumento del cardinale Tommaso Welt, che da protestante aveva abbracciato il cattolicismo, ed era entrato, non so perchè, a far parte, coi cardinali Mazio e De Simoni, di un certo triumvirato, dei cui componenti si diceva: «il primo non può parlare; il secondo non sa parlare, e il terzo è meglio che non parli». Ed infatti, il Mazio era accidentato, il Welt non riuscì mai a pronunziare una parola italiana, e il terzo non apriva bocca senza spropositare. Sul conto di quest’ultimo se ne dicevano di cotte e di crude in fatto di costumi, ma tutto ciò rimonta veramente ad un tempo anteriore al nostro. Il palazzo, che segue, e dove ora trionfano gli eleganti magazzini del Cagiati, apparteneva ai Costa di San Marcello, per distinguerli dai Costa di San Francesco a Ripa, due famiglie quasi estinte. Ed eccoci al palazzo Sciarra, il cui portone era una delle meraviglie architettoniche di Roma. L’arco non esiste più, e neppure il palazzetto abitato allora dai fratelli Prospero ed Ettore Sciarra: il primo, principe di Roviano, uomo di qualche cultura e chiamato spesso a far parte di commissioni amministrative; e l’altro, Ettore, scemo di mente, che questionava con le sedie, le baciava quando voleva far la pace, urlava quando rumoreggiavano i tuoni; e se urtato nel passeggiare, non poteva tenersi dal ricambiare l’urto ricevuto. Nello stesso palazzetto era il banco Plowden-Chomeley. Quest’ultimo fu nominato cameriere di spada e cappa per la devozione a Pio IX. Sua moglie era una bellezza, cantava bene, dipingeva con arte, e nelle sue solitarie passeggiate attraverso la campagna romana, non accompagnata neppure dal groom, cavalcava superbamente. Nelle botteghe sottostanti vi erano il barbiere Visconti, padre di Eugenio, che fu segretario di Alessandro Torlonia; un tabaccaio col fez, che s’illudeva di passare per turco, e poi Sudriè, venuto dal Piemonte nel 1847, che aveva negozio di oggetti militari. Sull’angolo attirava i passanti la tradizionale pasticceria del Voarino, dalla quale uscivano i famosi maritozzi, delizia dei romani nella quaresima,
Nella casa, dopo la via delle Muratte, v’era il club delle guardie nobili, dove non fu senza difficoltà, che furono ammessi Angelino Antonelli e il signor Garofoli, uno dei cento calvi delle dimostrazioni papaline. Al palazzo Bonaccorsi nulla di particolare. Il conte vi appariva qualche volta per conferire col suo segretario, l’abate Saetta, ed al secondo piano abitava la marchesa Soncino di Milano. Il palazzo Piombino, non bello in apparenza, ma comodissimo nell’interno, completava il quadrato della piazza. Esso era occupato dai soli padroni, che avevano domestici lucchesi, portiere svizzero, e primo cocchiere quel Ragazzini, che il giorno di sant’Antonio faceva pompa di sè col guidare otto pariglie, per portarle a benedire innanzi alla chiesa omonima. I negozi del palazzo Piombino erano molti: il cartolaio Massimini, che fece fortuna; la farmacia Ottoni, poi Ottoni-Garinei; giù in uno dei due portoni un venditore ambulante, cui si permetteva di far la mostra dei suoi articoli, composti di «scarfarotti», pantofole e scarpine a bocca di lupo per signora; poi Sambucetti, un cambiavalute, che teneva dei cani barboni innanzi alla bottega, ed il litografo Ferrini, stampatore alla moda dì carte da visita.
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Dal vicolo Cacciabove il Corso si ristringeva nuovamente, ed era su quello strettissimo marciapiede che s’impalavano i «paini» per assistere al passaggio delle carrozze. V’era all’angolo un pizzicagnolo chiamato Bersani, la cui bottega diventò, appena dopo il 1870, il famoso caffè del Parlamento, ch’ebbe celebrità sino al giorno, in cui i nuovi e non giustificati lavori di piazza Colonna lo fecero sparire col palazzo Piombino, col vicolo Cacciabove, e con tutte quelle bottegucce di giuocattoli ed altri minuti oggetti, le quali affermavano ancora una volta il contrasto caratteristico della romana edilizia. Tra la via San Claudio e quella delle Convertite sorgevano vecchie case, con finestre irregolari, appartenenti al signor Filippo Marignoli, il cui genitore, spoletino di origine, aveva ottenuta la concessione delle poste pontificie. Filippo Marignoli sposò in seconde nozze la perugina Emma Torelli, con la quale si accrebbe il numero delle bellezze del generone; ed avendo conservata la concessione paterna, fu nel 1857 nominato da Pio IX commendatore di San Gregorio Magno. Sua moglie morì dopo il 1870 ancora giovane, dopo aver partecipato dalla sua terrazza, in costume da maschera, ad una delle ultime baldorie del carnevale. Nel negozio sottostante di Annibale Cagiati, famoso cacciatore, si riunivano i più appassionati di questo sport. Accanto al Cagiati v’era la tabaccheria Piccioni, centro di rivoluzionari, come diceva monsignor Randi, e perciò tenuta d’occhio dalla polizia, benchè nel 1860 i suoi principali avventori fossero stati esiliati. Quelle antiche case Marignoli son divenute oggi il grande palazzo, che ospita, al primo piano, il circolo della caccia, e nei pianterreni il caffè Aragno e il negozio del Gilardini. Nessuno avrebbe mai preveduto che quel punto della città sarebbe diventato il cuore della nuova Roma.
Più giù era la bottega di Lorenzo Suscipi, primo ottico del tempo, e primo a introdurre in Roma il dagherrotipo, seguito poi dal gesuita padre Vittorio della Rovere, il quale, uscito dal Collegio Romano, aprì uno studio di fotografia. Al Suscipi seguiva una pasticceria svizzera, dove un buon padre di famiglia comperava con cinque baiocchi cinque paste, e con egual prezzo, mezza foglietta di ratafia. Il pasticcere era il Caflichs, che, in pochi anni, mise insieme una fortuna. Dov’è oggi il negozio Tisiotti, v’era il grande magazzino di mode di Lucia Ripari, detta dalla sua terra di origine la Lucchesina, che fece anch’essa fortuna, e costruì una casa al Corso, all’angolo di via Frattina. E infine, al palazzo Raggi, c’era l’officina di Fortunato Castellani, il quale di là passò più tardi in via Poli: allora piccola officina, ma già notissima e frequentata dai forestieri. Accanto era la bottega del signor Mauche, primo ad introdurre in Roma l’argenteria Cristophle; e più innanzi, al posto dov’è oggi il negozio Pontecorvo, si apriva il magazzino della sarta e modista Borsini-Duprez, che serviva l’alta aristocrazia. Al piano nobile del palazzo Ruspoli, abitava il comandante francese, e al pianterreno era il famoso caffè Nuovo, del Ricci, il più ampio di Roma, perchè occupava i saloni da San Lorenzo in Lucina al portone di mezzo; mentre, a Fontanella di Borghese, erano le sale da bigliardo. Per quanto i francesi l’avessero battezzato Café Militaire Français, non perse mai il titolo originario. Fu questo caffè, che adoperò pel primo il gaz con gazometro proprio. E più giù, in piazza San Carlo, il palazzo del banchiere Lozzano fu acquistato dai signori Neiner e Bussoni, ricchi costruttori di carrozze, che ne fecero il grande albergo di Roma, il più ampio ed elegante della città. Più avanti ancora, nel magnifico palazzo Feoli, già Randanini-Capranica, acquistato poi dall’Odescalchi, prese stanza l’ambasciata russa, stanca della lunga dimora al palazzo Giustiniani, che aveva ospitato Nicolò I, quando venne a Roma, come si legge nella iscrizione murata nelle scale. Al cantone di via della Croce era il caffè Africano, così chiamato perchè aveva sulla porta una gran tigre dipinta. La nota grigia era poi data al Corso dall'ospedale di San Giacomo, sulla cui soglia, durante il passeggio, davano di sè malinconico spettacolo gli assistenti in veste rossa, non sempre pulita. E di botteghe e di palazzi non vi era altro di notevole al Corso di allora.
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Delle città d’Italia, Roma era quella, che aveva minor numero di botteghe da caffè, e queste non eccessivamente eleganti. L’abitudine della frequenza di quei locali era esclusivamente borghese, e fu solo negli ultimi tempi, che essendosi al caffè San Carlo al Corso instaurato un servizio di pranzi e colazioni, cominciarono a convenirvi dei giovani signori, oltre all’uffizialità pontificia e francese. N’era proprietario Pio Antonini, il quale fece fortuna. Poco avanti del 20 settembre, il governo aveva permesso che su quel locale si aprisse un club, con la condizione che prendesse il nome di «circolo a San Carlo» e non vi si giuocasse che al bigliardo. Del club fu presidente il marchese Angelo Gavotti Verospi e segretario il duca Lante della Rovere, e fu in quelle sale, come si dirà più innanzi, che la sera del 19 settembre fu dato dal pittore Scipione Vannutelli, cognato del Kanzler, e da Emanuele Ruspoli il primo annunzio che l’indomani le truppe italiane avrebbero attaccato da Porta Pia.
Si davano ordinariamente convegno nei caffè brigate di amici, che vi andavano a giuocare il tresette o lo scopone; uomini di affari che vi trattavano i loro negozi, e sfaccendati che vi s’indugiavano a tagliare, tra una bibita e l’altra, i panni addosso a questo ed a quello. I grandi alberghi e le pensioni, le trattorie e le infinite osterie, impedivano che nei caffè si facesse altro che conversare e sorbire le poche bibite calde o fredde, mangiar paste e maritozzi, e giuocare alle carte. Al numero 45 della piazza Sant’Eustachio, dov’è oggi un negozio di letti, fu il famoso caffè della Sapienza, frequentato dalla studentesca e dove, nel 1848, si aprirono gli arrolamenti per la guerra dell’indipendenza, e si organizzavano le dimostrazioni. Su di una parete di quel locale faceva di sè bella mostra la nuova carta geografica dell’Italia unita, dove, sotto il nome di Roma, era stato aggiunto in iscritto «capitale d’Italia». Quella carta fu regalata dallo studente Blasi, marchigiano, il quale vestiva da chierico, causa studiorum. Il caffè della Sapienza fu il precursore del «circolo universitario» che si riuniva al primo piano della Sapienza, in una lunga galleria, di fianco alla biblioteca Alessandrina.
Chi volesse descrivere la vita di Roma negli anni fortunosi, che corsero dall’amnistia all’entrata dei francesi, non potrebbe non consacrare una pagina interessante a quel caffè; e all’altro, detto delle Belle Arti, al Corso, sotto il palazzo Fiano, dov’è oggi il pasticciere Ramazzotti. Ebbero entrambi grande celebrità, ma singolarmente dalla partenza del Papa ai giorni memorabili dell’assedio, e furono perciò chiusi, appena entrarono i francesi, d’ordine del generale Oudinot. Il caffè delle Belle Arti, più ancora del caffè della Sapienza, era frequentato dalle teste più accese, e assiduamente vigilato dal capitano Zambianchi di triste memoria, e con lui da Filippo Capanna, capitano di sicurezza pubblica, e suo degno compagno d’opere di sangue, consumate in omaggio alla libertà durante la repubblica. Alla cantonata delle Convertite era il piccolo caffè Bagnoli, frequentato da gente tranquilla, e per lo più, da vecchi artisti, virtuosi di teatro e giovani disoccupati, che si scambiavano le ultime notizie degli spettacoli e dell’arrivo dei forestieri nei grandi alberghi. Ogni giorno, alle tre pomeridiane, sì fermava innanzi a questo caffè un modesto equipaggio, ne scendeva un vecchietto ed ordinava un caffè, che pagava anticipatamente con due baiocchi, non dando mai un soldo di mancia; e bevutolo, tornava in carrozza senza uscirgli mai detta una parola. Era Vincenzo Grazioli, divenuto poi barone e duca, ed avo dei presenti Grazioli.
Il caffè Greco, rimasto in piedi dopo più di un secolo dalla sua fondazione, era in fama maggiore degli altri. Il Casanova ne parla nelle sue memorie, e sembra che ne fosse stato uno dei frequentatori negli ultimi anni del secolo XVII, quando faceva parte della famiglia del cardinale Acquaviva, ambasciatore di Spagna presso la corte pontificia. Non pochi scrittori, venuti a Roma, e, tra gli altri, il d’Azeglio, lasciarono nelle loro memorie notizie di quella modesta bottega, che divenne dopo il 1848, come si dirà, il quartier generale di pittori e scultori italiani e stranieri, che lo frequentarono fin dopo il 1870.
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L’aspetto generale della città sdegna qualsiasi paragone col presente. Sembra che sia corso un secolo d’allora! Dopo le nove di sera, le vie erano deserte e quasi buie, e solo le principali, e neppur tutte, rischiarate da un gaz malinconico. S’incontravano pattuglie di gendarmi incaricati del servizio di polizia, d’igiene e del corso pubblico. Il giorno si passava tra affari, visite ai monumenti, alle gallerie e altri svaghi, e le ore correvano con diletto; ma al cader della notte, la città prendeva un aspetto lugubre, che solo un sentimentalismo quasi morboso, o un ridicolo convenzionalismo poteva vestire di mistica poesia, e di memorie di altri tempi. A Firenze, dopo il 1865, ferveva la vita della capitale; e Napoli era sempre la città della gaiezza e del rumore; ma Roma, quasi a mezza via, pareva a noi giovani una città segregata dal mondo. Ci venni la prima volta nel 1867, e avevo poco più di venti anni. Mi ero di fresco laureato, e portavo con me, tra l’altro, le due lauree avvolte in un giornale di Napoli. Nella visita a Ceprano, i gendarmi, svolto il giornale, e letto: «in nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele II»; e poi: «dottore nelle scienze politico-amministrative», spalancarono gli occhi, mi chiesero il foglio di via, lo esaminarono, e mi domandarono che cosa erano quelle carte. Udito e visto ch’erano diplomi universitari, mi avvertirono che li avrei riavuti alla frontiera, la quale, dalla parte della linea maremmana, era allora Montalto sul Chiarone, ed io ero diretto a Pisa e a Firenze. Li riebbi di fatti senza ostacoli a Montalto. Non soffrii molestia, girai molto, ruminai dei paragoni con Napoli, e non conoscendo alcuno, mi sentivo addosso quasi come uno sgomento. Ricordo che la vita della città era concentrata fra piazza Colonna e piazza del Popolo; fra via Condotti, piazza di Spagna e il Babuino; fra la Maddalena, la Rotonda, piazza Navona e la Posta, ch’era allora al palazzo Madama. Gli equipaggi, di ritorno dal Pincio, non andavano oltre la colonna Antonina. I dragoni regolavano severamente le file, e se qualche cocchiere nulla nulla deviava, giù piattonate senza misericordia. In cambio del sudiciume delle carrozzelle napoletane, circolavano equipaggi di gran lusso, con bellissimi e fortissimi cavalli. Signoreggiavano le carrozze di Piombino, di Rospigliosi, di Borghese, di Massimo, di Torlonia. Erano phaetons, calèches, berline, vittorie, ed altre vetture di gala. Quel Corso, nell’ora della passeggiata domenicale, oscurava Toledo e Chiaia per proprietà ed eleganza, ma viceversa era così malinconico rispetto a quelli, e rispetto alle Cascine di Firenze!
Guglielmo Capitelli, che fu a Roma nel maggio di quello stesso anno, reduce da Firenze, riportò le stesse impressioni, delle quali mi fa cenno in una sua lettera.
Giunsi all’imbrunire, egli scrive, ed alloggiai alla Minerva, grande albergo frequentatissimo da preti e vescovi. L’impressione fattami dalla città, che vidi di sera, fu quasi di sgomento. Le vie erano, verso le ore dieci, quasi deserte, è la scura e pallidissima luce dei fanali, e l’incontro frequente di gendarmi pontifici davano ai monumenti, alle fontane, ai grandi palazzi, un aspetto lugubre. V’era come una mistica poesia di memorie secolari, come una stanca evocazione di gloria e di potenza; ma da piazza Navona al Corso, a San Pietro, e poi al Fôro, al Campidoglio, al Colosseo, sentivo una solitudine opprimente, e pareami essere in una necropoli immensa, in una città segregata dal mondo moderno.
Un particolare curioso. La custodia della colonna Antonina era affidata ad un lustrascarpe della piazza, il quale, mercè la tenue moneta di mezzo baiocco, apriva l’uscio e permetteva che il curioso andasse a morì ammazzato, non essendo rarissimi i salti mortali dall’alto della colonna. E dietro piazza Venezia, attraversata l’angusta Ripresa dei Barberi, fra il palazzetto Torlonia, il palazzo Nepoti e il palazzetto Venezia, cominciava, con la via Giulio Romano, quel quartiere o borgo umidiccio e incredibilmente sudicio, che prendeva nome di Macel de’ Corvi e di Pedacchia. Pareva impossibile, che in quel saliscendi barbaresco, che si stendeva dalle pendici del Campidoglio a piazza Venezia e al Foro Traiano, e le cui prime case rimontavano al quinto secolo, si annidasse e vivesse una popolazione nei tempi moderni. Dal giorno in cui, cadendo l’impero, gli agricoltori, cacciati dalla malaria, abbandonarono la campagna ed accamparono a pie’ delle storiche alture, Roma prese, via via, l’aspetto di un aggregato di borghi rurali, quasi una città fatta a pezzi, nè, sotto alcuni rapporti, questo aspetto mutò. E da qui le contraddizioni spiccate nei costumi della vita sociale, nei vari rioni e nei vari ceti, e più nell’edilizia, per cui, accanto ai grandi edifizi, sorgevano case inverosimili, con ingressi assurdi, tirate su senza il consiglio o l’opera di un architetto, nella città ove aveva presieduto alle costruzioni Vitruvio!
Il Ghetto, più caratteristico ancora che nelle altre città di Europa, e del quale si parlerà di proposito, era preceduto dal rione di via Montanara, abitato da una popolazione di campagna addirittura, di butteri e vignaroli: tutta gente rozza e manesca; e a poca distanza, dai vaccinari, corrivi al coltello. Quell’aggregato, col sudicio labirinto dei suoi chiassuoli, faceva ribrezzo. Del resto, se non quanto il Ghetto, tutta la città non brillava per nettezza; e se questa sembrava men trascurata che a Napoli, ciò era da attribuire alle diverse abitudini delle due città. Non solo nel Ghetto, ma a piazza Montanara, al rione Monti, a Macel de’ Corvi e nel Trastevere, la gente faceva delle strade l’appendice della propria casa, ed era comune il malvezzo di sciorinare la biancheria fuori le finestre, e di buttare ogni immondezza nelle vie. Le frequenti grida del senatore e gli avvisi del governatore, incisi su pietra alle cantonate delle strade, non erano più efficaci delle grida spagnuole del vicereame di Napoli e di Milano. E se Roma, signora del mondo, potè risparmiarsi l’onta di essere, come Napoli, la città più sporca d’Europa, lo dovette alla dovizia delle sue acque ed alla frequenza delle fontane pubbliche.
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Dei banchieri di Roma, Torlonia era quello che andava per la maggiore, anche per l’attrattiva degl’inviti, che ai forestieri, suoi clienti, soleva fare alle splendide feste, che dava nel palazzo a Scossacavalli. Il banco aveva gli uffici nella via dei Fornari, e n’era complimentario l’amabile Giuseppe Spada, autore della Rivoluzione di Roma dal 1846 al 1849. Quando il Torlonia si ritirò dagli affari, il banco fu da lui ceduto ad Alessandro Spada, figlio di Giuseppe, ed al signor Flamini, sotto il nome dei quali andò innanzi sino a dopo il ’70. Altro banco, che lavorava coi forestieri, era quello del signor Freeborn, che passò al Corinaldesi; e poi al capitano Danyell, il quale dovette chiuderlo per mancanza di affari. Gli americani si servivano al banco Hooker Maquay, di cui fu complimentario, e poi socio Guglielmo Grant. Il banco Kolb, che aveva i suoi uffici a San Luigi dei Francesi, serviva a preferenza i tedeschi. Il Kolb era console di Würtemberg, e tanto affezionato a Pio IX, che quando nel 1848 incominciarono i torbidi, egli andò dal Papa e gli disse: Sante Padre, per vostre Santità mi farei anche turche. Era cattolico fervente e amicissimo di lady Stewart, la solitaria signora di Monte Mario. Questo banco sopravvive tuttora sotto il nome di Nast-Kolb, con magnifica sede a San Claudio. E sopravvive anche un altro banco, esercitato allora nel palazzetto Sciarra, con clientela in gran parte inglese, dai soci Plowden-Chomeley, la cui ditta ha preso ora il nome di Plowden e C’. Il Chomeley era, quanto il Kolb, devotissimo alla Santa Sede. La sua signora, rimasta vedova, si ritirò in Tivoli, dove fabbricò un villino presso la gran cascata, e in vista delle cascatelle. Altro banchiere era il signor Macbean, console d’Inghilterra, il quale abitava lo stesso appartamento, ove fu il circolo dei commercianti, sopra Finzi e Bianchelli, e donde, nel 1848, il principe Doria, ministro della guerra, arringò il popolo.
Anche il console del Belgio, barone Terwagne, aveva un banco molto accreditato negli ultimi anni, nei quali Roma fu invasa da una folla di suoi connazionali, venuti ad arrolarsi nell’armata pontificia, o a visitare la città. Egli era particolarmente protetto da monsignore De Merode. Un banchiere speciale avevano pure gli svizzeri, in persona di Luigi Schlatter, console della repubblica elvetica. E infine la casa Rothschild, ch’era in sostanza la grande banca dello Stato, avea per suo rappresentante il banco Cerasi. Antonio Cerasi, ch’ebbe dal Papa il titolo di conte, è morto da pochi anni, lasciando un cospicuo patrimonio. La sua vedova, una Colloredo della nobile famiglia tirolese, e ricca a milioni, concorse con cinquecentomila lire alla costruzione del recente e grande edifizio ai Prati di Castello, battezzato collegio Leonino, e che accoglie i giovani preti, che vengono a Roma per studiare.
Dei banchi di Roma, questo del Cerasi fu il solo, dopo quello Torlonia, ch’ebbe fortuna. Gli altri liquidarono dopo il 1870, più o meno con perdita, o addirittura con rovina. Chiusero Guerrini e Tommasini, che avevano tanto guadagnato nelle imprese ferroviarie; Cavallini e Marignoli trascinarono faticosamente la propria liquidazione, che si chiuse in un disastro pel Marignoli, e finì tragicamente il Baldini. Questi banchi lavoravano quasi esclusivamente nel cambio, unica operazione che ci fosse in quei tempi, onde si facevano tra loro una concorrenza rovinosa. É non avendo potuto, dopo il 1870, sostenere la gara con i banchi di emissione, che. aprirono in Roma sedi o succursali, e con i banchi privati, che lasciarono Firenze, seguendo la capitale, come avevano lasciato Torino per andare a Firenze, dovettero purtroppo andare a rotoli. Il Cerasi si tenne su sino all’ultimo, sorretto dal suo buon nome e dalla clientela cattolica, che gli fu sempre larga di fiducia. L’azienda della banca, e quella privata del banchiere, erano improntate alla più rigorosa economia ed alla più avveduta amministrazione. Le opere di carità e di religione, compiute per effetto del testamento del Cerasi, furono e sono molte, così a Roma come nelle Marche, dov’egli era nato.