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annotazioni alle canzoni d’amore 303


che si adoperi il mio cuore e il mio corpo, cosí che mai non sovrasti; perché d’umile uomo qual ero mi ha innalzato sopra ogn’altro; e bene è superiore nella corte d’amore. È superfluo dire che la spiegazione data è tutt’altro che certa ed attendibile; il Pell. aveva addirittura omesso di dare ai vv. 30 e 32 un significato qualunque.

vv. 33-40. Il Pell.: «Quanto di bene da me si dice e si opera ognora va tutto attribuito a merito suo; poiché, se apro la bocca, e deporto e sovro i miei motti del suo savere... Temo soltanto che la morte non mi sovri (scevri? disgiunga?) di lei, per la soverchia dolcezza che grava sulle mie membra tutte, le quali da lui (dolzor) non stanno sovre (?)». Per i vv. 34-37, non spiegati dal Pell., oso proporre questa spiegazione: se apro la bocca e deporto i miei motti (si noti che il Pell. leggeva «e» e non «è» al v. 35), è superamento del suo volere (cioè operato dal suo valore), ché (si noti che il Pell. non ha virgola dopo «suo», né legge «ché», ma «che») il meglio di me non supera né ciò né cosa altra alcuna che è invece uopo mi sia superiore; il che in fondo vorrebbe dire che, senza di lei e senza il suo aiuto, sarebbe stato vinto dalle difficoltá di congegnar motti tanto sottili, non avrebbe dominato una materia tanto ardua. Anche il senso degli ultimi due versi è poco soddisfacente, e al v. 39 si potrebbe forse leggere: «...che me sovr’e», intendendo: che sovra, cioè sovrasta, me e le membra tutte e non stan sopra di lui.


XIV. vv. 1 segg. Il senso è questo: tutto il dolore ch’io ebbi mai a sopportare si può considerar gioia e la gioia un niente in confronto del dolore attuale del mio cuore, al quale spero porti soccorso la morte, ché nessun’altra cosa potrebbe valere.

vv. 7-8. Intendi: conviene che la povertá si presenti, appaia maggiore, cioè piú grave a chi ritorna povero, dopo essere stato ricco, che a chi da principio si trova povero, entra in povertá.

v. 11: «del meo paraggio», cioè: di condizione pari alla mia.

v. 13: «del meo for sennato», cioè: for del meo sennato. Cosí anche il Val. che spiega, giustamente: fuori del mio senno. Il Pell. invece stampa: «forsennato», che non mi sembra possa dar senso alcuno.

v. 23 «è pare», cosí A; il Val. e il Pell., seguendo B C I: «à pare»; ma, accogliendo questa lezione, sarebbe forse da leggere: «ca lo riccor...» e non «ch’a lo riccor...».