Racconti (Hoffmann)/Gluck
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G L U C K
Il fine dell’estate ha sovente bellissimi giorni in Berlino. Il sole passa giojosamente attraverso alle nubi, e l’aria umida, che si spande sulle strade della città, leggermente svapora sotto ai suoi raggi. Allora si vedono lunghe file di gente che passeggia, una strana unione di giovani eleganti, di buoni borghesi colle loro mogli e coi loro figli vestiti da festa, di sacerdoti, di ebrei, di meretrici, di professori, di ufficiali e di ballerini passa sotto i viali di tigli e si dirige verso il giardino botanico. Bentosto tutte le tavole sono assediate presso Klaus e Weber; il caffè di radicchio fuma in piramidi a spira, i giovani accendono le loro pipe, si parla, si disputa sulla guerra o sulla pace, sulla calzatura di madama Bethmann, sull’ultimo trattato di commercio, e sul ribasso delle monete, sinchè tutte le discussioni si perdano nei primi accordi di un’arietta di Fanchon, con cui un’arpa scordata, due violini screpolati, ed un clarinetto asmatico vengono a tormentare i loro uditori e sè stessi. Presso alla balaustrata, che separa dalla strada la rotonda di Weber, vi sono alcune piccole tavole circondate dalle sedie del giardino, là si respira un’aria pura, si vedono quelli che vanno e quelli che vengono, e si è lontani dal romore discordante di quella maledetta orchestra: è là ch’io vado a sedermi abbandonandomi ai voli leggeri della mia immaginazione che mi presenta continuamente figure amiche colle quali io parlo all’avventura delle arti delle scienze e di tutto quello che fa la gioja dell’uomo. La massa di quelli che passeggiano scorre davanti a me, sempre più folta, sempre più mista; ma nulla mi turba, nulla mi toglie ai miei fantastici amici. Un aspro walsen sfuggito da quei maledetti istromenti mi richiama qualche volta dal paese delle ombre; io non odo che la voce stridente dei violini e del clarinetto che raglia: essa sale alternamente e discende per certe eterne ottave che mi straziano le orecchie, e allora il dolore acuto che provo mi strappa una esclamazione involontaria.
— Oh! infernali ottave! gridai un giorno.
Udii mormorare vicino a me: Maledetto destino! Un altro cacciatore di ottave!
Io mi alzai, e vidi che un uomo aveva preso posto alla mia tavola istessa. Egli mi guardava fissamente, ed io per parte mia non poteva allontanare i miei sguardi dai suoi.
Io non aveva veduta giammai una testa ed una figura che avessero fatta sopra di me una impressione così profonda. Un naso un po’ aquilino confinava con una fronte larga ed aperta, ove certe prominenze molto apparenti s’innalzavano sopra due sopracciglie folte e mezzo inargentate. Esse ombreggiavano due occhi scintillanti, quasi selvaggi a forza di fuoco, due occhi giovanili gettati sopra un volto di cinquant’anni. Un mento graziosamente ritondato contrastava con una bocca severamente chiusa, ed un sorriso involontario prodotto dal movimento dei muscoli sembrava protestare contro alla melanconia sparsa su quella vasta fronte. Alcuni ricci grigi pendevano soltanto dietro alla curva sua testa, ed una larga casacca inviluppava la sua alta e magra statura. Appena i miei sguardi caddero su quest’uomo che egli abbassò gli occhi e riprese la sua occupazione, che la mia esclamazione aveva senza dubbio interrotta: essa consisteva a scuotere con compiacenza da molti piccoli cartocci in una grande tabacchiera del tabacco che bagnava di tempo in tempo con alcune goccie di vino. Essendo cessata la musica, io non potei trattenermi dai dirigergli la parola.
— È una fortuna che la musica taccia, gli diss’io: non era proprio sopportabile.
Egli mi lanciò uno sguardo alla sfuggita, e versò il suo ultimo cartoccio.
— Sarebbe meglio che non si sonasse che sonar così male, io ripresi. Non siete voi del mio parere?
— Io non sono di nessun parere, diss’egli. Siete voi sonatore o conoscitore della professione?...
— Voi vi ingannate, io non sono nè l’uno nè l’altro. Ho imparato già tempo a sonare un po’ il cembalo e il contrabbasso, come cosa necessaria per una buona educazione, e il mio maestro mi diceva che niente fa così cattivo effetto come una voce di contralto che procede col mezzo di ottave verso le corde basse. Ecco la mia autorità, io ve la do per quello che vale.
— Davvero! ei rispose. Lasciando allora il suo posto ei si diresse lentamente e con aria pensierosa verso i sonatori, alzando a molte riprese gli occhi al cielo e battendosi la fronte colla palma della mano, come uno che voglia risvegliare in sè una memoria. Io lo vidi da lungi parlare ai sonatori ch’egli trattò con un’altera dignità. Ei ritornò, ed appena ebbe ripreso il suo posto che si suonò la sinfonia d’Ifigenia in Aulide.
Egli ascoltò l’andante cogli occhi semichiusi e colle braccia incrocicchiate sulla tavola. Con un leggiero movimento del suo piede sinistro, egli segnava le intonazioni, ei sollevò la testa, gettò uno sguardo dietro a sè, distese sulla tavola la mano sinistra le cui dita sembravano sonare un accordo sul pianoforte, ed innalzò la destra nell’aria: era un direttore d’orchestra che dava il segnale d’un’altro tempo. — La sua mano destra ricadde e l’allegro incominciò. Un rossore ardente coperse le sue pallide guancie, le sue sopracciglie si congiunsero tra le pieghe della sua fronte, ed un furore divino dissipò il forzato sorriso che errava sulle sue labbra. Egli retrocedette: le sue sopracciglie si rialzarono, i muscoli delle sue guancie si contrassero di nuovo, i suoi occhi brillarono, un’espressione dolorosa coperse i suoi lineamenti; il fiato gli usciva penosamente dal petto, delle goccie di sudore bagnarono la sua fronte, ed il suo dito alzato annunziò il tutti ed il pezzo d’insieme. La sua mano destra non cessò di battere il tempo; ma colla sinistra cavò il fazzoletto e si asciugò il volto. A questo modo egli animò quello scheletro di sinfonia che ci offrivano due violini, e diede loro vita e colorito. Io udiva i suoni teneri e lamentevoli del flauto ne’ suoi tuoni ascendenti, quando è cessata la tempesta dei bassi e dei violini, e che i tonanti timpani conservano il silenzio, io udiva gli accenti rapidi e brevi dei violoncelli e dell’oboè che esprime il dolore finchè il tutti ritornando improvvisamente avesse come un gigante schiacciati tutti i gemiti e i dolci lamenti sotto i suoi passi mossi in cadenza, e risonanti.
La sinfonia era terminata: l’uomo lasciò ricadere le braccia e rimase cogli occhi chiusi, come uno di cui un’applicazione estrema ha esaurite le forze. La bottiglia che si trovava davanti a lui era vuota. Io riempii la sua tazza col vino di Borgogna che mi era fatto portare. Lo invitai a bere; egli bevette senza cerimonia, e vuotando in un fiato il suo bicchiero gridò: Sono contento dell’esecuzione! L’orchestra si è portata bene!
— E non pertanto, io ripresi, non ci è stato dato che un pallido schizzo d’un capo d’opera composto coi colorì più splendidi.
— Se io giudico bene, voi non siete di Berlino!
— Effettivamente io sono qui che per in istante.
Ma è freddo: se andassimo nella sala?...
— L’idea è buona. — Io non vi conosco, ma neppur voi conoscete me. Noi non ci dimanderemo i nostri nomi: i nomi sono spesso una cosa imbarazzante. Io bevo con voi del vino di Borgogna che non mi costa niente; noi stiamo bene insieme, tutto è per lo meglio!
Ei disse queste parole con bonarietà. Noi eravamo entrati in sala; nel sedere si aperse la sua casacca ed io osservai con istupore ch’ei portava sotto questo vestito un abito ricamato, dei calzoni di velluto, ed una piccola spada d’argento. Egli abbottonò con cura la sua casacca.
— Perchè, gli diss’io, perchè mi avete voi dimandato se sono di Berlino?
— Perchè in quel caso sarei stato costretto di lasciarvi.
— Ciò è molto enigmatico.
— Niente affatto, s’io vi dico che... Ebbene! sì, io sono un compositore.
— Io non vi comprendo ancora.
— Allora scusate la mia dimanda, perchè vedo che non conoscete nè Berlino nè i Berlinesi.
Egli si alzò e fece rapidamente il giro della stanza, poi si avvicinò alla finestra e canterellò il coro delle sacerdotesse d’Ifigenia in Tauride, accompagnandosi col picchio delle dita sui vetri. Io osservai con sorpresa ch’egli vi introduceva delle nuove frasi musicali, la cui energia mi agitò. Io era singolarmente colpito dalle maniere di questo personaggio e dal suo talento musicale, e custodii involontariamente il silenzio.
— Non avete voi mai composto? mi diss’egli.
— Mi sono provato in quest’arte; ma ho trovato che quello che scriveva nei miei momenti d’entusiasmo, mi sembrava di poi debole e nojoso. Allora rinunciai a questa occupazione.
- Avete avuto torto, poichè è già un buon segno quello di non esser contento de’ suoi tentativi. Si impara la musica nella prima età perchè il papà e la mamma vogliono così; e sino d’allora si raschia e si ingarbuglia a piacere; ma a poco a poco l’anima diventa sensibile alla melodia. Forse il tema mezzo dimenticato di un’aria che si cantava altrevolte, è la prima idea che si abbia di proprio, e questo embrione penosamente nutrito da altre idee ugualmente straniere diventa un colosso! — Ah! come sarebbe mai possibile l’indicare soltanto i mille modi per cui si arriva a comporre? È una larga strada, in cui la folla si urta agitandosi e gridando: Noi siamo gli eletti! noi abbiamo raggiunto lo scopo. Si arriva per una porta d’avorio nel regno dei sogni. Vi sono pochi uomini che abbiano veduta una sola volta questa porta; ve ne sono ancor meno che l’abbiano oltrepassata! — Là tutto è meraviglioso; pazze immagini ondeggiano qua e là; ve ne sono anche di sublimi; ma quelle non si trovano che al di là delle porte d’avorio. È ancor più difficile l’uscire da quell’impero. L’uomo vi voga, vi è messo in giro, vi è travolto dal turbine. Molti di quei viaggiatori dimenticano i loro sogni nel paese dei sogni; essi stessi diventano ombre in mezzo a tutte quelle nebbie. Alcuni si svegliano e sentono; essi s’innalzano e raggiungono quelle nobili cime: infine arrivano alla verità! Il momento è venuto; essi toccano quello che è eterno, quello che è indicibile. — Vedete quel sole; è il diapason i cui accordi simili agli astri vi immergono e vi avviluppano in fiumi di luce. Lingue di fuoco vi circondano e vi legano come un neonato, finchè Psiche1 vi liberi e vi trasporti nel soggiorno dell’armonia.
A queste ultime parole egli si drizzò sui suoi piedi, ed alzò gli occhi verso il cielo; poi si rimise al suo posto, e vuotò la sua tazza ch’io aveva riempita. Noi eravamo soli, un profondo silenzio regnava intorno a noi, ed io mi sarei ben guardato dal romperlo per timore di turbare le meditazioni dì quest’uomo straordinario. Finalmente egli riprese la parola, ma con maggiore tranquillità.
— Quando penetrai in quel vasto campo, era inseguito da mille ansietà, da mille dolori. Era notte, e una folla di maschere che facevano mille visacci venivano a spaventarmi e ad aggrupparsi intorno a me, degli spettri mi trascinavano sino in fondo al mare, e nello stesso momento mi riconducevano alle luminose pianure del cielo. Tutto ritornava tenebre, se non che alcuni lampi fendeano la notte, e questi lampi erano suoni di una purezza ammirabile che mi cullavano dolcemente. — Io mi risvegliai e vidi un occhio vasto e limpido, che immergeva il suo sguardo in un organo, e ogni volta che il suo abbagliante raggio visuale coloriva uno dei tasti, ne uscivano accordi magnifici, quali io non ne aveva giammai uditi. Onde di melodie sgorgavano da tutte le parti, ed io nuotava deliziosamente in quel fresco torrente, che minacciava d’inghiottirmi. L’occhio si rivolse verso di me, e mi sostenne alla superficie delle onde schiumanti. Ritornarono le tenebre. Allora due giganti ricoperti di brillanti armature mi apparvero: erano il basso fondamentale e la quinta. Essi mi trascinarono di nuovo nell’abisso, ma l’occhio sorridendomi: lo so, disse, che il tuo cuore è animato dal desiderio; la dolce terza verrà per te a mettersi fra quei due colossi, tu udirai la sua voce leggiera, e tu mi rivedrai col corteggio delle mie melodie.
Egli si tacque.
— E rivedeste voi quell’occhio divino? — Sì, io lo rividi. Mi trovava nel paese dei sogni. Era in una valle bellissima, e i fiori vi cantavano insieme. Soltanto un girasole conservava il silenzio, ed inchinava tristamente verso terra il suo calice chiuso. Una forza irresistibile mi strascinava verso di lui. — Egli rialzò la testa. — Il calice si riaperse, e in mezzo alle sue foglie io vidi comparire l’occhio i cui sguardi erano rivolti verso di me. Allora fuggirono dalla mia fronte dei suoni armoniosi che si spargevano in mezzo ai fiori e sembravano ravvivarli; essi gli aspiravano, fremendo, come una pioggia benefica che viene dopo una lunga siccità. Dei vapori odorosi s’innalzarono tra i fiori, e mi immersero nell’ebbrezza, le foglie del calice si sollevarono sopra la mia testa, ed io perdetti l’uso dei sensi.
A queste ultime parole, egli si alzò e fuggì con passo rapido. Io aspettai vanamente il suo ritorno, indi risolvetti di rientrare solo in città.
Era già vicino alla porta di Brandeburgo, quando vidi camminare nell’ombra davanti a me una lunga figura che riconobbi pel mio originale. Io gli indirizzai la parola:
— Perchè mi avete voi lasciato sì improvvisamente?
— Principiava a esser troppo caldo e l’Eufonte cominciava a risonare.
— Io non vi comprendo.
— Tanto meglio.
— Tanto peggio, perchè vorrei comprendervi.
— Non udite voi nulla?
— Nulla.
— È passato. Camminiamo. Io non amo molto la compagnia; ma voi non componete, e non siete di Berlino.
— Io non posso indovinare la causa del vostro rancore contro i Berlinesi. In questa città dove si stima tanto la musica e dove si coltiva così generalmente, un uomo come voi dovrebbe trovarsi felicissimo.
— Voi siete in errore. Per mio tormento sono condannato ad errare come un angelo riprovato in una contrada deserta.
— Una contrada deserta, qui, a Berlino?
— Sì, è un deserto questo luogo, perchè nessuno spirito si avvicina al mio. Io son solo.
— Ma gli artisti!... i compositori!
— Lungi da me quella gente! Essi scarabocchiano, raffinano, accomodano tutto, sinchè sia gentile e compassato; essi mettono in movimento ogni cosa per trovare un miserabile pensiero, e infine con tutte queste chiacchiere sull’arte e sul genio delle arti non possono arrivare a produrre, ovvero se si sentono abbastanza cuore per mettere alla luce una o due idee, la freddezza glaciale della loro opera prova la loro lontananza dal sole. — È un lavoro da Lapponi.
Il vostro giudizio mi sembra troppo rigoroso. Le belle rappresentazioni del teatro devono almeno soddisfarvi.
— Io aveva stabilito di andare ancora una volta al teatro per udir l’opera del mio giovine amico. — Come si chiama egli? — Ah il mondo intiero è in quell’opera! Gli Spiriti dell’inferno si mostrano in mezzo alla folla brillante delle genti del mondo; tutto vi ha una voce ed un accento onnipotente. — Diavolo! io parlo del Don Giovanni. Ma non potei resistere sino al termine della sinfonia, che fu precipitata senza tatto e senz’anima. Ed io mi era preparato ad udirla col digiuno e colla preghiera!
— Se io devo convenire che qui i capi d’opera di Mozart sono troppo spesso trascurati in un modo colpevole, almeno quelli di Gluck sono rappresentati con una pompa degna del loro merito.
— Lo pensate voi? Io ho voluto udire una volta l’Ifigenia in Tauride. Entrando in teatro, mi accorgo che si suona la sinfonia dell’Ifigenia in Aulide. Hem! dico a me stesso è un errore. Si dà questa Ifigenia. Ma cado dalle nuvole sentendo l’andante con cui incomincia l’Ifigenia in Tauride e poi l’uragano. Tutto l’effetto, tutta la disposizione calcolata del dramma sono perdute. Un mar tranquillo. Una tempesta. I Greci gettati sulla riva, tutta l’opera è là! E che! il compositore ha forse scritta la sua sinfonia sopra un tamburo, perchè la si suoni come si vuole e dove si vuole come un motivo di trombetta?
— Io convengo dall’errore. Però si fa di tutto per dar rilievo alle opere di Gluck!
Oh sì! diss’egli in tuono asciutto, sorridendo amaramente.
Tutto ad un tratto ei partì, e nulla potè arrestarlo. In un momento egli disparve. Per alcuni giorni io lo cercai invano nel giardino botanico.
Alcuni mesi erano passati. Io era rimasto troppo tardi, in una sera fredda e piovosa, in un quartiere lontano e tornava in tutta fretta alla mia abitazione situata nella strada Federico. Il mio cammino mi conduceva davanti al teatro, la musica romorosa dei timpani e delle trombette, che udii passando, mi fece ricordare che si rappresentava l’Armida di Gluck, ed io era sul punto di entrare quando un singolare monologo che giunse a me sotto alla finestra da cui si distinguevano quasi tutti i tuoni dell’orchestra, fissò la mia attenzione.
— Ecco viene il re. — Suonano la marcia. — Forte, forte, timpani! — Vigorosamente! Sì, sì, bisogna ricominciare questo pezzo undici volte, diversamente la marcia non sarebbe più una marcia. — Ah! Ah! Maestoso. Eseguite questo lentamente, figli miei. — Vedete, ecco un violino che si strascina! — Andiamo, riprendete per una duodecima volta e battete sempre alla dominante! — Ora fa il suo complimento. — Armida lo ringrazia graziosamente. — Ancora una volta. — Là, mancano ancor due soldati. — Ora entriamo vigorosamente nel recitativo. — Qual cattivo genio mi ha attaccato qui?
— L’incanto è rotto, io gli dissi. Venite.
Io presi pel braccio il mio originale del giardino botanico, poichè era desso, e lo strascinai con me. Egli parve sorpreso e mi seguì in silenzio. Ma noi eravamo già nella strada Federico; quando egli si arrestò improvvisamente.
— Io vi conosco, diss’egli. Voi, eravate al giardino botanico.
— Noi parlammo molto. Io bevei del vino che mi riscaldò assai. In seguito l’Eufonte risonò per due giorni. Io ho sofferto molto, ma è passato.
— Mi rallegro che l’accidente mi abbia ricondotto vicino a voi. Stringiamo un po’ più la nostra conoscenza. Io non dimoro lungi di qui, se...
— Io non posso andar da nessuno.
— Ebbene, voi non mi sfuggirete; io vi seguirò.
— Allora voi dovete fare alcune centinaja di passi con me. Non volevate voi andar a teatro?
— Io voleva udire l’Armida, ma ora...
— Voi udrete l’Armida! venite.
Noi risalimmo in silenzio la strada di Federico; ci prese vivamente una piccola strada laterale ed appena potei seguirlo, tanta era la sua rapidità, finchè giunse innanzi ad una casa di meschina apparenza. Ei batteva da lungo tempo alla porta, quando finalmente essa si aperse. Andando a tentone nell’oscurità arrivammo ad una scala e giugnemmo fino ad una camera dell’appartamento superiore; la mia guida la rinchiuse con cura. Io udii aprirsi ancora una porta, e bentosto egli comparve con un lume in mano che mi permise di distinguere questo luogo, il cui singolare addobbo mi sorprese non poco. Alcune sedie antiche riccamente guernite, un orologio in una grande scatola dorata, ed un largo specchio circondato di arabeschi di forma massiccia davano, al complesso delle suppellettili l’aspetto affliggente d’uno splendore passato. In mezzo alla camera vi era un piccolo pianoforte, sul quale si vedeva un grande calamajo di porcellana, e non lungi da esso alcuni fogli di carta rigata. Un secondo sguardo gettato su quello scrittoio del compositore, mi convinse che non se ne era fatto uso da lungo tempo, perchè la carta era intieramente ingiallita, ed una densa tela di ragno si stendeva su tutta la superficie del calamajo. L’uomo si avvicinò ad un armadio posto in un angolo della stanza, e tirò una cortina che lo nascondeva. Io vidi allora una fila di grandi libri ben legati con iscrizioni in lettere d’oro: Orfeo, Armida, Alceste, Ifigenia; in poche parole, io vidi raccolti insieme tutti i capilavori di Gluck.
— Voi possedete tutte le opere di Gluck? gridai. Ei non rispose nulla; ma un sorriso convulsivo contrasse la sua bocca, e l’espressione dei muscoli delle sue guance cadenti messi improvvisamente in moto cambiò il suo volto in una maschera carica di rughe. Cogli sguardi fissi sopra di me ei prese uno di questi libri — era l’Armida — e si avanzò con passo solenne verso il pianoforte. Io l’apersi prestamente e ne dispiegai il leggìo; ei parve osservare con piacere questa mia premura. Dischiuse il libro, e quale fu la mia meraviglia! Vidi la carta rigata, e neppure una nota vi si trovava scritta.
Egli mi disse: — Sonerò la sinfonia; voltate i fogli ed a tempo! — Io lo promisi, ed egli sonò magnificamente e da maestro, a grandi accordi fortemente scolpiti e quasi conformi allo spartito, il maestoso tempo di marcia, con cui principia la sinfonia, ma l’allegro non fu che seminato dei principali pensieri di Gluck. Egli vi introdusse tante frasi originali, che il mio stupore si accrebbe sempre più. Le sue modulazioni principalmente erano sorprendenti, ed egli sapeva attaccare il motivo principale a tante brillanti variazioni che questo sembrava ringiovanire continuamente, e presentarsi sotto novella forma. Il suo volto era ardente; ora le sue sopracciglie si congiungevano, ed un furore lungo tempo trattenuto sembrava sul punto di scoppiare; ora i suoi occhi pieni di lagrime esprimevano un profondo dolore. Alcune volte mentre le sue due mani faceano ingegnose variazioni, ei cantava il tema con una aggradevole voce di tenore; poi sapeva imitare in un modo particolare colla sua voce il sordo rumore dei timpani. Io voltava assiduamente i fogli seguendo i suoi sguardi. La sinfonia si compì, ed ei ricadde sulla sua sedia a bracciuoli spossato e cogli occhi chiusi. Bentosto egli si rialzò, e voltando vivacemente molte pagine bianche del suo libro, egli disse con voce soffocata: — Tutto questo, signore, io l’ho scritto ritornando dal paese dei sogni. Ma io ho scoperto a’ profani quello che è sacro, ed una mano agghiacciata si è posta su questo cuore ardente. Egli non s’è spezzato; solamente sono stato condannato ad errare fra i profani, come uno spirito sbandito, senza forma, perchè nessuno mi conosca, finchè l’occhio m’innalzi sino a lui col suo sguardo. — Ah! cantiamo ora le scene di Armida.
Ed egli si mise a cantare l’ultima scena dell’Armida con una espressione che penetrò sino in fondo dell’anima mia. Ma egli si allontanò sensibilmente dalla versione originale: la sua musica era la scena di Gluck, in un più alto grado di potenza. Tutto quello che l’odio, l’amore, la disperazione, la rabbia possono produrre di espressioni forti ed animate, egli le rese in tutte le loro gradazioni. La sua voce sembrava quella d’un giovane, e dalle corde più basse s’innalzava alle note più acute. Tutte le mie fibre tremavano sotto i suoi accordi; io era fuori di me. Quando egli ebbe terminata la scena, io mi gettai nelle sue braccia, e gridai con voce commossa: — Qual è dunque il vostro potere? Chi siete voi?
Egli si alzò e mi fissò con uno sguardo severo e penetrante, e nel punto in cui io mi disponeva a ripetere la mia dimanda, egli era scomparso col lume, lasciandomi nella più profonda oscurità. Io era solo già da un quarto d’ora, disperava di rivederlo e cercava, regolandomi sulla posizione del pianoforte, di guadagnare la porta, quando tutto ad un tratto ei ricomparve col lume; egli portava un ricco vestito alla francese, carico di ricami, una bella camiciuola di raso, ed una spada gli pendeva dal fianco.
Io restai stupefatto; egli si avanzò solennemente verso di me, mi prese dolcemente la mano, e mi disse sorridendo con un'aria singolare: Io sono il cavalier Gluck.
FINE DI GLUCK
E DEL VOLUME PRIMO
- ↑ L’anima.