Quasi una fantasia/III
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III.
LE BARUFFE DEL SABATO.
Ma la Società segreta non progrediva. Un solo amico avevano iniziato — Pierino Muggia — investendolo d’un alto grado. I gregari invece mancavano.
E un po’ per volta compresero che per formare il nucleo del loro esercito, la «Guardia del corpo» ciecamente fedele, fulgido esempio di valore indolcito a tutti gli altri, era mestieri cercarla lontano, non fra i pavidi concittadini e in genere non in questa vecchia Europa, infrollita fra troppi agi, ma nell’Africa tenebrosa e inesplorata, fra i negri più selvaggi, cui la guerra appare un giuoco magnifico e necessario.
— Non sai che i negri veramente selvaggi sono ancora innumerevoli?
— Lo so — rispose Renato. — Purtroppo invece i pellirosse delle Pampas vanno ormai scemando.
— Che importa! Abbiamo l’Africa e non dev’essere difficilissimo conquistare i negri.
— Macché, tutt’altro! Con un buon revolver in pugno ne verremo a capo.
— Credi?
— Non ànno che archi e zagaglie.
— Ma sono in gran numero.
— Con le armi da fuoco si tengono a distanza e se anche una freccia arriva non à forza.
— Caro mio, ànno frecce avvelenate.
Renato lo guardò meravigliato. Quante storie!
Come non si sapesse che le difficoltà non sono mai insormontabili per chi à la tempra del vincitore!
— No — disse Gino col tono di chi fa una confidenza. — Perché combattere con la forza, uno contro diecimila, con cinquanta probabilità su cento di rimanere sconfitti?
— Punto primo resterebbero sempre le altre cinquanta probabilità; e bastano largamente! — disse Renato con forza.
— Invece ora ti dirò una cosa.
— Su, sentiamo.
— Li vinceremo con la chimica.
— Con la chimica?
— Sì. Tu non sai quanti esperimenti si posson fare, che sembrano addirittura miracolosi.
— Che cosa si può fare con la tua chimica? — domandò Renato ripensando alla cameretta di Gino, sempre piena di lambicchi storte polveri acidi boccette meccanismi libri carte, tutto in un disordine polveroso, non privo di mistero.
— Che cosa? Quaranta milioni di cose! I selvaggi sono bravi ma sono molto stupidi.
— Ah, sì, sì! Cristoforo Colombo con dei pezzetti di vetro si faceva dare oro a palate.
— E tutti i Robinson ànno conquistato i selvaggi con simili mezzucci. Noi faremo dei fuochi magnificamente colorati, dei razzi ch’essi crederanno fulmini veri ma più belli. Ci crederanno inviati del cielo.
— Che bellezza! — esclamò l’altro battendo le mani; e andarono a gara a proporre il maggior numero di esperienze chimiche.
— Pensa: due gas che mescolati restano gas e io li faccio diventar acqua quando voglio. Liquidi incolori, trasparenti, che mescolati diventano verdi e azzurri e rossi.
— Magnifico!
— Un po’ d’acido solforico buttato sull’amido s’incendia.
— Figùrati che facce impaurite!
— E per fare una bomba micidialissima ci vuol poco: basta prendere una buona bottiglia, metterci dentro un po’ di carbone zolfo e salnitro e scaldarla sopra una fiammella a spirito.
— Questo esperimento dobbiamo farlo subito! Ma se laggiù non trovassimo tutti questi ingredienti?
— A rigore basta tappare la bottiglia ben bene e metterci dell’acqua.
— £ vero. E se in un deserto mancasse l’acqua basta anche l’aria che riscaldandosi si dilata e la bottiglia scoppia.
— Ci adoreranno in ginocchio! E quando vorremo dar segno del nostro corruccio sprigioneremo un po’ d’H2 S.
— Meraviglioso! — disse Renato che conosceva la formola.
Così parlando progettando e ridendo giunsero alla casa di Gino.
Salì anche Renato. Era un sabato e la mamma gli aveva permesso di dormire in casa dello zio, perché dovevano alzarsi la mattina presto per fare una gita sui monti.
La camera di Gino metteva sul corridoio, e sui cristalli appannati dell’uscio egli aveva scritto con certi acidi la parola STUDIO.
Il suo babbo in quell’occasione gli aveva spiegato per analogia: lucus a non lucendo e canis a non canendo, concludendo con una lode per quella scritta che evidentemente significava: luogo dove non si studia.
Entrarono.
— Sai, — disse piano Renato — stamane abbiamo avuto una riunione.
— Chi?
— Io, Peppino Ferrari, Giorgio Androvich, Ettore Cantoni e gli altri delle grotte.
— Ah, ci andate sempre?
— Ogni mercoledì. Ce n’è ancora tante da esplorare e delle più belle.
— Andateci pure!
Gli seccava un poco quel club sorto fra compagni di scuola di Renato, ch’egli non conosceva.
— Era per l’elezione del presidente: sono stato eletto io. Ma — aggiunse ancora più piano — le grotte più belle son lontane e bisognerebbe disporre di più tempo. Si potrebbe qualche volta.... non andando a scuola.... Capirai, con quelli là non è il caso....
— Già — approvò Gino pensoso.
— Si potrebbe fondare un altro club, io, tu e Pierino Muggia.
Sulla discrezione di quest’ultimo si poteva contare. Faceva già parte dell’altra società segreta, quella politica, e senz’essere un’aquila d’intelligenza era tuttavia un bravo ragazzo, sincero, devoto e buon patriota: insomma imo di quelli che nella vita e protetto da loro sarebbe stato, non già un Garibaldi, ma un Nino Bixio.
— Sta bene, glielo dirò.
Prepararono i diversi timbri, incidendo le lettere alla rovescia su dei turaccioli di sughero e inscrissero in prima pagina d’un bel quaderno nuovo i (nomi dei soci ch’erano già tre, per ora, — salvo sempre l’adesione di Pierino Muggia. Al piede della pagina e anche di alcune altre, ancora in bianco, misero addirittura il timbro: Il Presidente e la firma: Renato Obrizzo.
Stanchi di tanto lavorare s’accorsero che avevano fame.
Di là qualcuno si sgolava a chiamarli perché era l’ora del caffelatte. Chiamassero pure!
Altro che caffelatte!
Avevano scoperto sulla parete, in alto, dissimulata dalla carta del parato, un’apertura che comunicava nientemeno che con l’attiguo camerino della dispensa.
— Andiamo! — disse Gino; e in un batter d’occhio s’issarono sopra una piramide fatta con un tavolino e due sedie, l’una sull’altra; scavalcarono il finestrino e con due salti ben misurati, prima su di un armadio poi su di una tavola, piombaron giù dall’altra parte.
Bice, la sorella maggiore di Gino, non sapeva spiegarsi come la roba chiusa a chiave potesse scemare tanto presto. Gli altri si lamentavano che il vino era annacquato o che il liquore aveva sapor d’inchiostro.
Ma nessuno s’era accorto di nulla, nemmeno quel giorno che avevano asportato la bicicletta di Bice: operazione logistica di particolare difficoltà, perché dopo molte prove e misurazioni avevano smontato e rimontato la macchina due volte, senza perdere quasi nessun bullone e solo pochi pallini. Guai s’ella li avesse sorpresi, con quel suo carattere superbo e cattivo.
Bice voleva far credere d’appartenere ai grandi e d’essere già iniziata nei misteri, per cui se scopriva una marachella era pronta a trasformare il suo spontaneo sorriso d’approvazione in una sprezzante smorfia d’indulgenza.
Quel giorno, entrando in casa, l’avevan vista nel salotto parlar sommesso e troppo da vicino col fidanzato. O ch’erano quelle le ragioni della gran superiorità, dei gran segreti, della barriera insormontabile che gli uomini con animo cupo ed implacabile avevano innalzato per tenere i piccoli discosti dai loro cuori?
No, no, povera Bice! Se non era che per nascondere qualche sbaciucchiamento, non metteva conto che t’industriassi a darti tante arie. Ma via! Era chiaro che nemmeno lei sapeva tutto.
Renato ormai, se non tutto, aveva capito molte cose. Fra l’altro s’era avveduto che i grandi, e specialmente le donne, un po’ per dare una più solenne aria di mistero alle segrete cose che sono effettivamente nel loro dominio, un po’ per certa loro innata stupidità, assumevano un fare di tronfia importanza per trattare di argomenti futili. E intanto lanciavano ai piccoli un’occhiata di traverso e abbassavan la voce.
«Sa signora, oggi ò la mia emicrania.... capisce.... ehm!... Proprio oggi! Devo rimanermene distesa....» e l’altra dava a vedere d’aver compreso il gran segreto e commiserava e sospirava.
Che cos’era? Un po’ di mal di capo!
E gli uomini parlavan con prosopopea degli «affari» come di guerre. E tutti, spessissimo, «avevan dei dispiaceri».
Da bambino codesti dolori gli erano apparsi davvero seri e riservati ai grandi, i quali probabilmente avevano una speciale sensibilità e forse altri organi, fisici e psichici, che a lui mancavano; onde sarebbe riuscito vano ogni suo sforzo per penetrare in quel vasto mondo chiuso.
Ma ora aveva compreso che gran parte di quelli atteggiamenti non eran che commedia. I famosi dispiaceri si riducevan di solito a mali piccoli e sopportabilissimi.
Non si trattava mica d’un pugno sul naso che si sa che cos’è, e si grida, e magari si piange; né era il caso che qualcuno si dolesse per il crollo d’un grande ideale, per aver perduto una battaglia o per non esser riuscito a trovare il passaggio dello stretto di Bering.
Non eran di quei mali tremendi come la sete nel deserto, lo scorbuto nei mari glaciali che ti decima i tuoi uomini, la paura dell’imboscata dei pellirosse, che se ànno il sopravvento ti scannano senza misericordia.
No, erano piccole beghe, piccoli pettegolezzi, piccoli interessi.
«S’immagini, signora mia, à perduto l’impiego!»
Quante storie! Ne avrebbe trovato un altro: succedeva sempre così; lo sapeva ormai per esperienza.
E quella povera Gigetta, una parente perpetuamente in miseria, che tutti quando parlavano di lei tiravano dei gran sospiri, volgendo gli occhi al cielo e scuotendo tristemente la testa?
— Miseria, miseria.... Eppure — pensava Renato — finora nessuno è morto di fame in casa sua. Quali esagerazioni!
Anzi, quand’ebbe occasione di frequentare più spesso quella famiglia, notò con stupore che l’ambiente era simpatico e i visi ridenti. La gaiezza veniva accolta a braccia aperte e cuor sincero, senza sussiego, senza l’ombra di quella elegante musoneria ch’era di prammatica presso i suoi parenti più ricchi.
Erano poveri, è vero, ma mangiavano certamente tutti i giorni. E la Gigetta coi suoi bei capelli bianchi era tanto bucala e tanto allegra; e indulgente coi ragazzi, che non c’era bisogno di nasconderle mai nulla. E le sue figliole, già grandi, eran così belline!
Il padre poi, quell’ubriacone, che s’era figurato così feroce da doverlo guardare come un leone attraverso le sbarre d’una gabbia, era in fondo un buon diavolo, allegro anche lui. Forse non lavorava abbastanza, ma la moglie gli voleva bene lo stesso.
Insomma egli aveva compreso che del lato esteriore e materiale della vita i grandi, chissà perché, esageravano pomposamente le difficoltà. Non v’erano tanti crucci come dicevano: la vita era facile e gioconda.
Altri misteri certamente vi dovevano essere, ma d’un genere affatto diverso; e proprio di quelli non parlavano mai.
I nuovi pensieri ch’erano germogliati in lui, queste sue scoperte, queste sue esperienze gli avevano dato una maggior sicurezza di sé ed un crescente disprezzo per i grandi.
— Pigliamo questo barattolo? — disse Gino. — È conserva di ribes, deliziosissima.
— Sei matto a gridar così? Parla piano!
— Che! — fece l’altro ancor più forte. — Oggi è giorno di baldoria.
— Taci! Può passar qualcuno.
— Niente! Niente! Ora piglieremo un’intera bottiglia di maraschino. Basta con le mezze misure!
— Non mi piacciono i liquori.
— Perché sei un vile ornitorinco!
— T’inganni. Io sono il grizzly.
Neanche a Gino piaceva l’alcool, ma voleva sapere che cos’è l’ebbrezza, specie dacché avea saputo che Edgar Allan Poe, uno dei suoi autori preferiti, era morto di delirium tremens.
S’arrampicò fino all’ultima scansìa, dov’erano le bottiglie più preziose e ne tolse una finissima, impagliata, dalla forma quadra, lunga ed esile, di quelle che il babbo sturava con gran cura, con un certo risolino, verso la fine del pranzo di Pasqua o di Natale, mentre la gran tavolata degli zii e dei parenti con le facce lustre e l’acquolina in bocca, attendevano con un’ansia assai visibile, sebben mascherata da un sorriso posticcio.
Scese e fece l’atto di volerla tracannare.
— Un di questi giorni faremo un’orgia e canteremo:
Uns ist ganz kannibalisch wohl |
Era una sfida a tutti i parenti, era una bravata di chi sentiva di potersi disciogliere dalle pastoie d’una disciplina ingiusta e stupida.
— Abbasso Fillinich!
— Abbasso Kramer!
— Abbasso Perotti!
— Abbasso Foffo!
E il rosario dei nomi e soprannomi dei professori si sgranava frammezzo a invettive, risate, sghignazzi
— A morte il latino e il greco!
— A morte la chimica!
— Abbasso l’Austria!
D’improvviso Renato fece un gesto con la mano per far tacere l’altro e tese l’orecchio abbassando il capo.
Ma Gino che in quel giorno decisamente era uscito di senno, gridò ancor più forte:
— Abbasso gli amori impudichi!
Di là altercavano. S’era fatto sera ed eran venuti tutti a casa; ora discutevano elevando sempre più il tono delle voci.
— Son tutti riuniti. Sta zitto!
Gino rincarava invece la dose, mescolando le sue grida con quelle di là, cogliendo a volo qualche desinenza, su cui innestava con rime e con abbasso ed evviva certe espressioni che rispondevano ai suoi sentimenti ed affetti del tutto personali, con qua e là qualche parola spinta, camuffata un po’ nella pronunzia. L’altro non riesciva a soffocare le risa.
Qualcuno passò per il corridoio. Tacquero.
— Ah, ò capito perché gridano.
— Perché?
— È sabato.
— Ah, sì, ài ragione.
Infatti ogni sabato in casa di Gino si discuteva animatamente sull’itinerario della gita domenicale: chi proponeva d’andar da una parte, chi dall’altra, e la discussione inevitabilmente degenerava in alterco, tanto che gli altri parenti, quando venivan di sabato, chiedevano entrando: «È già cominciata la baruffa?»
I ragazzi se ne disinteressavano perché quelle gite ufficiali, accanto a pochi vantaggi, presentavano più d’un inconveniente.
È vero che la lauta colazione in qualche osteria di campagna veniva molto opportuna; e sopratutto era bello tornare in ferrovia.
(La ferrovia è una gran cosa: è bella, è lucente, è forte, e uno quando vi sale si sente crescere, diventa più importante. Essere in ferrovia e pensare a quelli che vanno a piedi è come indossare un’uniforme sfavillante e passeggiare in mezzo ai borghesi; più ancora: come intendere una lingua che altri non sanno, come conoscere ed amare un grande autore che altri ignorano).
Ma purtroppo non si stava in ferrovia che mezz’ora o al massimo tre quarti. Ben altri e più lunghi viaggi sognavano!
Gli svantaggi invece erano grandi. Bisognava comportarsi da buoni ragazzi, ascoltare discorsi noiosi, non arrampicarsi sugli alberi, non andare nei pericoli. Non si poteva parlare dei propri ideali, non si poteva lasciar correre libera la fantasia oltre i confini dell’ordine, delle idee correnti, dell’ortodossia politica, religiosa, morale. Infine mancava la libertà, questo bene supremo dell’uomo: mancava la poesia!
— Taci, — disse Renato; — mi pare che ci siamo. Tu senti qualcosa?
— Sì, mi pare.... Aspetta....
— Anno gridato meno del solito oggi, vero?
— Pare. Lasciami sentire.
— Anno finito.
— Ah! si sono accordati.
— Sss!... aspetta.... Sembra che la zia Maria non si senta bene; à il solito dolore.
— E allora gli altri si sacrificheranno per lei; son commoventi questi cari tesori!
Presero la via del ritorno scavalcando cheti il finestrino, quando sentirono batter forte all’uscio. Nascosero in fretta il bottino, issarono la carta geografica.
— Chi è? — chiese Gino con voce melata, non senza una punta di canzonatura.
Era la Bice.
— Tò detto tante volte di non chiuderti a chiave! — e picchiava più forte.
Gino saltò giù e aperse.
— Che c’è? Non vedi che abbiamo da studiare?
— Cosa studiate?
— Geografia.
— Gli affluenti di destra del Brahmaputra — disse dall’alto Renato puntando un dito sulla carta, mentre con l’altra mano andava assicurandosi che l’occhiello fosse bene infilato sul chiodino.
— Andiamo, ragazzi. È presto ora di cena; — e guardandosi intorno: — Dio, che disordine! Metti a posto le tue cose, almeno un poco.
— Kean, ovverosia Genio e sregolatezza — esclamò Gino. — Tu non sei che una squaw; non puoi capire.
— Cosa sono?
— Una squaw, una donna.
— Ma qui non siamo nelle praterie d’America e ti prego almeno di lavarti le mani.
— Va bene, va bene, — brontolò quello.
— Del resto — aggiunse la sorella, volgendosi sul punto d’uscire — anche molte donne furono grandi.
— Chi, sentiamo.
— Cornelia madre dei Gracchi....
— Bella bravura! Anche di te si dirà: Bice, sorella di Gino.
— Vittoria Colonna, Giorgio Sand....
— Senti, non so se la Giorgio Sand scriveva bene, perchè non ò letto e non leggerò mai niente d’una donna; ma so che si vestiva da uomo: segno che se per caso aveva un briciolo d’ingegno, sapeva bene ch’era una cosa irregolare.
— Va là, che sei pazzo. E tutte le martiri cristiane?
— Le ài viste tu? Erano tue amiche?
— Gino! sai bene che non ammetto scherzi su queste cose. Guardàtelo lì!... Un bimbetto che non sa nemmeno d’esser nato.... Studia piuttosto: mi pare che sei indietro specialmente in geometria descrittiva! — e se ne uscì con molta dignità.
— Non capisco — disse malcontento Gino — che cosa c’entri la geometria descrittiva con le martiri cristiane. Logica da squaw!
Mentre stavano nello stanzino da bagno a ripulirsi, s’udì nuovamente di là qualcuno alzar la voce, e poi uno sbacchiar d’usci.
Forse avevano altre e più forti ragioni di bisticcio.
Renato pensò: «Adesso avranno dei dispiaceri».
È immaginava la scena: una zia con gli occhi rossi che inalbera con ostentazione il suo mal di capo reso manifesto, quasi parlante, da una bianca pezzuola bagnata; un’altra che a metà del pasto, proprio quand’ànno messo in tavola il piatto migliore,» si volge esclamando: «È inutile, non mi va giù»; qualcuno che per animar la conversazione discorre con enfasi di cose indifferenti; una cura in tutti di tener nascosto ai ragazzi il vero motivo della lite; un disagio nell’ambiente, un’aria afosa, un’oppressione....
— Gino, che bella cosa se si potesse.... mettiamo.... uscir fuori questa notte e camminare liberi, lontano!
— Se si potesse rompere il muso a tutti, che bellissima cosa!
— No — e s’indugiava sotto la cannella, il sapone in una mano e con l’altra giocherellando con la bell’acqua fresca. — Io vorrei soltanto uscire di notte, quando tutti dormono.
— Per la finestra. Non dico di no: è complicato, ma si potrebbe. O intendi per il camino?
— Gino, tu scherzi, perché non capisci quanto sarebbe bello. Ma pensa!...
— Ci ò bell’e pensato.
— Convieni che sarebbe — la faccia gli si contrasse come per lo sforzo d’alzare un peso — meraviglioso.
— Se si potesse avere la chiave del portone.... Ma di solito la tiene l’Anna, ch’è la prima a uscire per la spesa. È ben difficile che.... No, no, sarebbe meraviglioso fin che vuoi, ma è inutile pensarci.
Il pasto non si svolse in modo gran che diverso da quello che aveva previsto Renato.
Entrando nella sala da pranzo ebbe una momentanea speranza di trovarvi la felicità. La tavola era assai riccamente imbandita.
Ma vide subito che la sua aspettazione andava delusa: i visi dei grandi eran turbati; non v’era in essi la maestà e la serenità di chi à il comando e si sente nell’occupazione del proprio posto sicuro di sé, superiore ai subalterni, adatto al proprio ufficio.
Essi, che secondo l’ordine delle cose rappresentavano il gran quadro delle deità, che i piccoli devono adorare compunti, non aderivano alla pomposa cornice, eran fuori centro, erano come un re che pretendesse di conservare Patteggiamento maestoso con la corona sulle ventitré.
Le loro facce eran devastate da passioni oscure che non lo interessavano, per le quali provava anzi un leggero ribrezzo.
Si guardò intorno. L’ordine di quella sala e l’imponente ricchezza dei mobili scuri gli davano tristezza; il pavimento a intarsio era così ben lustrato che a non fare attenzione s’andava sdruccioloni.
Più degli altri mobili egli odiava quel grande orologio a pendolo che annunziava le ore e le mezze ore con un sospiro rauco, lunghissimo, tenue e poi gradatamente più intenso, più ansioso; e solo quando il sospiro l’aveva gonfiato che non ne poteva proprio più, si decideva ad approdare al suono grave, cupo de’ suoi lenti rintocchi.
In quell’ambiente s’aveva l’impressione che il tempo si fermasse, si veniva colpiti dallo sbalordimento del nulla; le più vivide fantasticherie si dileguavano senza lasciar traccia.
La zia, che aveva la testa fasciata da una pezzuola bianca (l’aveva veramente), si sforzava a mantener desta la conversazione, facendo finta di non star male, di non essere offesa, d’essere anzi veramente allegra, ma in realtà facendo finta di far finta e con la speranza che tutti si sarebbero accorti del gran sacrificarsi che faceva.
Gli uomini cominciarono a discorrere con maggiore affiatamento, vero o falso che fosse, elevando il tono delle voci, accalorandosi anche su certi argomenti che a priori sapevano innocenti e innocui, lontani da ciò che dianzi li aveva turbati e divisi.
E allora, nella lunga snervante attesa fra una portata e l’altra, mentre il dolce si faceva assai attendere, egli sentì che gli veniva sonno.
Perché gli occhi non gli si chiudessero li tenne sbarrati. Lo sguardo fisso gli si posò sul mazzo di fiori che adornava la tavola. Anche quelli gli mettevano adosso una gran malinconia, coi loro gambi di fil di ferro e la carta d’argento, mentre son fatti per dar fragranza al bosco e ingentilire gli orridi della montagna.
Che vita inutile e vuota la sua!
Dopo cena si sarebbe andati a letto. E poi?
Non che la famosa gita con la grave comitiva dei parenti gli importasse assaissimo. Ma santo Dio, quando si promette una cosa la si mantiene!
Comunque dai discorsi dei grandi sentì che la decisione definitiva stava per esser presa.
— Certamente che farla tutta a piedi....
— .... è troppo faticoso per te.
— No, dicevo per te.
— Anche per la zia Maria.
— Ma come? Non è in carrozza che volevate andare?
— Macché! Non ci son vie carrozzabili lassù.
— È una pazzia!
— Eppure era tutto stabilito così.
— Va bene. Però anche il tempo.... hm.... mi pare e non mi pare.
— È buonissimo il tempo.
— Da 1 retta, vien giù una di quelle pioggione!
— Io per mio conto sto a casa.
— Allora anch’io.
— Anche per te, sai, è meglio; ài bisogno di far la tua riposatina dopo mangiato....
— Io, se non stessi così, verrei.... per i bambini, poveretti; ma è inutile: purtroppo queste emozioni a me mi riducon così.
— Ma anche loro son più contenti di stare in casa; vero, ragazzi? Così fate piacere anche alla zia Maria e non vi bagnate con quel gran diluvio che vien giù domani.
— Sì, sì, non se ne parli più.
— Sarà per un’altra volta.
«Meglio così», pensò Renato che quel tira e molla stomacava; ma si sentì proprio infelice a contar così poco nella vita. La sua l’aveva detta anche lui e con molta energia;, ma chi se n’era dato per inteso?
Si riscosse nel sentir Gino che di là cantava a squarciagola. Non s’era accorto ch’egli poco fa, mentre l’Anna portava il dolce, s’era allontanato. Ora, percorrendo il lungo corridoio per rientrare in sala da pranzo, cantava tirando le note in lungo e stonando maledettamente come sempre:
— Io sono San Pietro.... Io sono il santo Pietro!...
Qualcuno disse:
— Quant’è bizzarro quel ragazzo.
E una zia:
— Mi sarebbe tanto piaciuto fargli studiare il piano.
Ma Renato aveva compreso e il cuore gli aveva dato un balzo: Gino s’era impossessato delle chiavi di casa!
Gli diede un’occhiata d’intelligenza e gli disse forte:
— E io sono un pellegrino....
- ↑ Noi stiam cannibalmente bene
Al par di cinquecento scrofe!