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— Andiamo! — disse Gino; e in un batter d’occhio s’issarono sopra una piramide fatta con un tavolino e due sedie, l’una sull’altra; scavalcarono il finestrino e con due salti ben misurati, prima su di un armadio poi su di una tavola, piombaron giù dall’altra parte.

Bice, la sorella maggiore di Gino, non sapeva spiegarsi come la roba chiusa a chiave potesse scemare tanto presto. Gli altri si lamentavano che il vino era annacquato o che il liquore aveva sapor d’inchiostro.

Ma nessuno s’era accorto di nulla, nemmeno quel giorno che avevano asportato la bicicletta di Bice: operazione logistica di particolare difficoltà, perché dopo molte prove e misurazioni avevano smontato e rimontato la macchina due volte, senza perdere quasi nessun bullone e solo pochi pallini. Guai s’ella li avesse sorpresi, con quel suo carattere superbo e cattivo.

Bice voleva far credere d’appartenere ai grandi e d’essere già iniziata nei misteri, per cui se scopriva una marachella era pronta a trasformare il suo spontaneo sorriso d’approvazione in una sprezzante smorfia d’indulgenza.

Quel giorno, entrando in casa, l’avevan vista nel salotto parlar sommesso e troppo da vicino col fidanzato. O ch’erano quelle le ragioni della gran superiorità, dei gran segreti, della barriera insormontabile che gli uomini con animo cupo ed implacabile avevano innalzato per tenere i piccoli discosti dai loro cuori?