Il trattato di Piazza Lipsia

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I III
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II.

IL TRATTATO DI PIAZZA LIPSIA.

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La Piazza Lipsia era una piazza simpatica, non ostante il suo brutto nome.

Da un lato c’era, è vero, il gran palazzo delle scuole tedesche; ma le Reali, la scuola di Renato, erano dal lato opposto, in una via stretta, buia, dove il sole non entrava mai: almeno così gli pareva.

Dal lato della piazza invece, dov’era un bel giardino inondato di luce, s’affacciava il Ginnasio che, per quanto tedesco, Renato teneva in gran conto perché vi si studiava il latino. Il dare tanta importanza a questa lingua morta gli pareva da parte di quei tedescacci una confessione indiretta del primato dell’Italia, un omaggio reso, sia pure a denti stretti, alla nostra patria antica e gloriosa.

Poi, dal lato opposto della piazza, c’era un palazzo meno borioso nell’aspetto, ma tanto più bello, in cui si trovavan tre cose stupende e italianissime: il Museo di Storia Naturale, l’Accademia di Nautica e la ricchissima Biblioteca Civica, dove c’era [p. 20 modifica]un’infinità di volumi, forse più di mille, e nella quale i due ragazzi passavano molte ore.

Un giorno erano in quel giardino e discorrevano di politica.

— L’Italia — diceva Gino — non può contare su nessuna alleanza sincera e le sue sole forze potrebbero non essere bastanti per sconfiggere un esercito tanto più numeroso, magnificamente preparato, abituato a una disciplina feroce.

— Per mare, — disse Renato — se l’Ammiraglio non sarà un vigliacco, vinceremo certo.

Egli era ben sicuro d’esser prode; e non gli riusciva di pensare a Lissa senza uno stringimento di cuore e a Persano senza un peuh! di disprezzo.

— Sicuro — approvò l’altro, e guardandolo in fondo agli occhi soggiunse; — Da questo lato mi sento abbastanza tranquillo.

— Ma — disse Renato che non voleva restare a lungo sotto il peso di quella lode prematura — capisco bene che dalla parte di terra l’impresa non è meno importante, mentre presenta difficoltà anche maggiori.

— Colui che avrà da condurre l’esercito — rispose Gino — dovrà essere un genio, non solo strategico ma anche politico.

— Ma intendi proprio il vero esercito italiano?

— Non so, vedremo; secondo le circostanze: o l’esercito d’Italia o forse, meglio ancora, un esercito di volontari, anche piccolo, ma di uomini devoti al loro capo e decisi a tutto. Il grande alleato noi l’avremo, ma nell’Austria stessa. [p. 21 modifica]

— La rivoluzione? — fece Renato raggiante.

— Sss.... parliamo piano. Sì, la rivoluzione.

— Ah, sì, sì! Ò sentito dire che alla morte di Francesco Giuseppe scoppierà la rivoluzione. È vero?

— È vero.

— Ma allora siamo a cavallo!

Parlarono a lungo dell’assetto che bisognava dare all’Austria, vinta che fosse la guerra; una guerra svelta, agile, audace, tutta d’imboscate, di piccole azioni geniali ed eroiche, combattuta da un pugno d’eroi contro il colosso austriaco, immenso ma già ansante e sfiancato per l’improvviso scoppiar degl’interni rivolgimenti.

Renato andava tracciando col lapis uno schizzo dei nuovi confini.

— Boemia e Moravia: Stato Czeco, capitale Praga. Va bene?

— Benissimo.

— La Galizia andrebbe veramente alla Polonia....

— Sì, sì: intanto anche la Polonia avrà pensato a risorgere.

— Qui ci sarebbe la Bucovina.

— Alla Polonia!

— No.

Allora diamola alla Rumenia.

— La maggioranza è rutena. Più giusto sarebbe alla Russia....

— Vedremo....

— La Transilvania senz’altro alla Rumenia. Qui casca la Croazia, la Bosnia-Erzegovina e la [p. 22 modifica]Carniola che vanno alla Serbia. Un piccolo regno d’Ungheria....

— E cosa fai dei paesi tedeschi dell’Austria?

— Son pochi. Ecco, vanno alla Germania.

— È giusto.

— E questi — concluse Renato — sono i paesi che vanno all’Italia: il Trentino, la Contea di Gorizia e Gradisca, Trieste, l’Istria, Fiume, la costa croata, le isole e la Dalmazia.

Questo era secondo giustizia.

Ma Renato pensava:

«Quando avremo compiuto tutte queste cose tanto belle, avremo pur diritto a qualche compenso e potremo bene ingrandire l’Italia almeno fino alla Drava, per dominare a nostra volta su sloveni e croati. Quanto agli altri paesi per ora ci basterà mantenerli sotto il nostro protettorato; perché altre guerre e altre conquiste ci attenderanno, nei mari lontani, dove andremo a strappare agl’indigeni e agli inglesi le più belle colonie.

«L’Italia è il nostro paese che amiamo sopra ogni cosa. È il paese più grande del mondo; e non v’è dubbio che noi lo sapremo ingrandire anche nei confini, tanto da far sentire anche ai suoi più accaniti nemici, se non la sua grandezza, ché son troppo barbari per comprenderla, almeno la sua potenza e magnanimità».

Egli ora non faceva più quei sogni puerili d’una volta, quando pensava mortificato che l’Italia non aveva il più gran fiume del mondo, né l’alpe più alta, né la più popolosa città, o s’avviliva perché [p. 23 modifica]non si poteva dire che i suoi confini rinserrassero in un tempo regioni che vanno dal Mar Glaciale all’Equatore; onde una gran confusione si faceva nel suo cervello nel sognare di cataclismi e di portentose invenzioni umane che avrebbero dovuto dare all’Italia il primato delle grandezze, delle altezze, dei numeri.

Nella strada dov’egli abitava sboccavano le ripide viuzze dei quartieri alti e nei giorni di gran pioggia scorrevan giù due ruscelletti impetuosi. Aveva notato che quello che si formava al lato opposto della via s’ingrossava da principio un poco, ma non passava mai una certa linea, mentre l’altro; che dapprima pareva uguale o anche minore, andava gradatamente ingrandendosi, sommergendo anche il marciapiede, fino a diventar di due e di tre volte più largo del rivale. Egli si divertiva un mondo a stare alla finestra, pensando che quello di faccia era il Danubio e questo il Po.

Per ore ed ore seguiva ansiosamente la lotta fra i due fiumi, sebbene sapesse fin da principio l’esito finale della gara; e quando il Po finalmente vinceva, s’insuperbiva tutto.

Che gioia I E anche i monelli com’era bello seguirli in quel loro diguazzar nell’acqua gialla, i calzoncini rimboccati fino alle coscie, mentre facevan correre le loro barchette di carta, che scendevano maestose il fiume come vere corazzate!

Ma da quei tempi lontanissimi eran passate ormai più e più settimane. [p. 24 modifica]

— Ora son serio — pensò Renato — e so bene quello che il mondo attende da me.

£ all’amico disse:

— Mi piacerebbe fare un buco, per esempio dalla cantina di casa mia fino a Vienna. Servirebbe magnificamente per le sorprese strategiche.

— Altro che!

Furono improvvisamente interrotti da un’irruzione di ragazzi delle Reali .

Erano quattro: tre contro uno; e i tre lanciavan le loro contumelie in quell’italiano bastardo che usano slavi e tedeschi. L’altro, ch’essi conoscevano appena di saluto, era italiano.

Senza por tempo in mezzo, Gino e Renato si schierarono al suo fianco gridando:

— Su, fatevi innanzi se avete coraggio!

— O avete coraggio solo in tre contro uno?

Il capo avversario, con la scusa di dominar meglio l’azione, si mise un passo indietro, incitando i suoi a bassa voce:

— Giù botte, senza paura!

Gli inviti alla sfida gli piovvero allora con formole sanguinosissime, sicché in breve la zuffa divenne inevitabile; e fu un picchiarsi di santa ragione: pugni e calci, schiaffi e percosse, morsi ed unghiate, tutto servì, pur d’arrecare il maggior danno possibile al nemico.

Si rotolarono per terra, si rincorsero per i viali, si riagguantarono, e a poco valsero i disegni di strategia che si presentavano a tratti alla mente dei combattenti in un abbozzo appena accennato, ché [p. 25 modifica]la mischia era feroce ed improvvisa, troppo rabbiosa e rapida per dar tempo di concertare un piano che non fosse quello puro e semplice di sviluppare in pugni nel minor tempo possibile tutta l’energia che avevano in corpo.

La battaglia finì repentinamente, senza transizione, così com’era cominciata.

S’allontanarono i nemici per il viale di destra brontolando in tono minore nuove minacce, e l’italiano, dopo lanciato un ultimo grido beffardo, s’allontanò per il viale opposto, senza salutare i commilitoni, già tutto assorto in qualche suo intimo pensiero.

Gino e Renato si guardarono sorridendo e tornarono al sedile di prima.


Gino raschiava i nodi d’un rametto flessuoso per farsi uno sferzino.

Renato masticava le foglie d’un sempreverde, assaporandone l’acre amarognolo, e mentre guardava assorto la sabbia del viale che riverberava i vividi faggi del sole, col piede andava tracciando tratto tratto qualche segno, oppur muoveva un poco un sassolino in qua e in là.

Quel metro di terra era immenso e tutto vivo: era un mare con navi innumerevoli, e più in là eran terre e porti difesi. E dovunque cannoni; e se le navi del nemico eran dieci volte più numerose, di qua c’eran cuori più saldi, fede più sincera e devozione somma a un capo liberamente scelto. [p. 26 modifica]

— Egli mi tratta già da ammiraglio, — pensò — pur non avendo finora nessuna prova del mio valore sul mare. Lo fa perché conosce il mio cuore e perché è necessario che noi due, soli predestinati alle grandissime cose, ci si divida il compito. Ma gli farò ben vedere come conosco il mio mare!

Sì, quello era il suo elemento: da 11 doveva venire il miracolo. Solo unendosi col mare, quasi fondendosi con esso, le nebbie che l’opprimevano si sarebbero squarciate ed egli si sarebbe sentito tutto intero.

— Le navi, grandi o piccole, ecco l’arma per trionfare!

Lungo le rive di Trieste e nel Canal Grande v’erano tanti bragozzi inutili, sonnacchiosi, che servivano a trasportar cocomeri....

— Ma verrà, verrà il giorno!

E ripensò alla gran battaglia che nei suoi sogni modificava sempre, mettendo ogni volta in maggior risalto la bellezza dei singoli episodi.

Ecco: una piccola goletta sbattuta dalla tempesta.

— Mai visto una bufera simile! — dice il vecchio nostromo manovrando coi suoi muscoli d’acciaio la ruota del timone.

— Un po’ di maretta — gli dice Renato afferrando a sua volta la ruota e sfuggendo in tempo, con un’immediata, strana, quasi irregolare manovra, a un tiro in pieno della gran nave avversaria.

Il nemico è sbalordito. Qualche colpo dei piccoli cannoni porta scompiglio nelle sue file. [p. 27 modifica]

— Forza: chi va a sbrogliar quel par rocchetto?

Nessuno. Con quest’infuriar dei marosi, lassù sugli ultimi pennoni si descrivon fulmineamente nello spazio traiettorie enormi.

Egli allora, il comandante, corre vola fino alla più alta cima, affronta impavido il rischio tremendo, scioglie la vela, e scivola rapido giù sulla tolda.

I suoi uomini sono umiliati e si votano in cuor loro alla più cieca devozione per quel capo forte e buono.

Ora la nave fila a tutta forza.

Pochi istanti ancora. Un urto terribile; e si affronta l’abbordaggio.

La piccola ciurma si slancia furibonda a lottar corpo a corpo contro i cento uomini nemici.

L’accanimento dei combattenti è spaventevole.

— Avanti, o miei prodi! Qui si vince o si muore! — grida egli ai suoi, che son davvero ammirevoli.

Molti caduti già conta l’avversario. Ma, ahimè, tutto è inutile: troppo ìmpari è la lotta ed egli si riduce, circondato dal suo pugno d’eroi, al lato opposto della gran nave.

Arrendersi? Chi parla d’arrendersi? Ah ah!

— Coraggio e avanti!

Una bianca benda maculata di rosso gli fascia il capo, ma con la spada sguainata e la rivoltella nella sinistra egli combatte sempre per dieci.

Venti, trenta nemici son morti; ma purtroppo anche due dei suoi son caduti feriti. E a uno [p. 28 modifica]di questi, il più vecchio, il sangue è spruzzato così vermiglio e così caldo e così puro, come nessuno avrebbe supposto fuor da un corpo tanto indurito e incallito dalle rudi bestiali fatiche. La vista del sangue dell’uomo rozzo gli produce meraviglia dapprima e un grande accoramento e tenerezza infinita. Ma poi rinfiamma:

— È sangue d’Italia, è sangue nostro, santo! Avanti! — E pugnan tutti come forsennati.

Ma s’indietreggia ancora. Come resistere a un numero tanto soverchiante?

Eppure sì, si può resistere: venti uomini ch’eran celati giù nella stiva della goletta irrompono al segnale convenuto alle spalle del nemico, che vien costretto ora tra due fuochi e accenna a piegare.

Qual gioia per Renato aver potuto creare in quel momento angoscioso quegli uomini a cui nessuno prima aveva pensato, nemmeno lui!

E si vinceva, si vinceva!...


Egli ammirava ora quel giovane comandante che teneva saldamente in pugno la gran nave conquistata. Sì, era egli stesso! Eppure quell’autorità nello sguardo fermo, quella sua’ forza erculea, quel bel vestito tra di garibaldino e di soldato coloniale, eran tutte cose assai lontane dal lui d’adesso.


Si riscosse e disse a Gino:

— Occorrerà pensare alla rivoluzione. [p. 29 modifica]

— Senza dubbio, e subito.

— Come faremo?

— Per prima cosa ci vorrà la società segreta.

— Sì, mi piace ridea. Una setta estesissima e che abbia affiliati da per tutto.

— Fin nella reggia — disse Gino.

— Con la parola d’ordine per riconoscersi — aggiunse Renato; — differente a seconda del grado; perché bisognerà stabilire molti gradi diversi e iniziare i gregari nei più nascosti segreti solo dopo molte prove e con grandi cautele.

— Sì, ma il vero scopo della società lo sapremo solo noi due.

— E poi?

— E poi è semplicissimo: la morte dell’imperatore darà il segnale della grande rivoluzione.

— Benone. Del resto abbiamo tanti anni avanti a noi per preparar bene ogni cosa!

Ma a Gino sorse improvvisamente una preoccupazione gravissima.

— E se morisse domani?

— Che dici! — esclamò Renato sorridendo, ma subitamente turbato.

La realtà dell’immane sommovimento ch’essi dovevano incanalare, dirigere, dominare, vista così da presso, non più nelle brume d’un sogno indistinto, ma presente, vera, palpabile, lo sgomentò: questa realtà, che per un istante egli si raffigurò con assoluta lucidità di contorni, era troppo cruda e violenta: inebriante, sì, ma, pel fatto stesso ch’era realtà e non sogno, troppo piena di fragori inattesi, [p. 30 modifica]di squilibri, di avvenimenti non esteticamente preparati dalla fantasia, anzi disordinati e brutali come schiaffi.

Per un attimo egli formulò un pensiero quasi come questo: «Oh, meglio cullarsi nel dolce sogno lontano, che è mio, che è come lo voglio io!»

Ma si vergognò di quella mollezza. «Se bisogna agire,» pensò «anche subito, agiremo, con coraggio e con fede». Tuttavia disse:

— Non è possibile! £ vero che Cecco Beppe è vecchio: à settantanni sonati; ma è di pelle dura e vivrà ancora un pezzo.

E anche Gino non poté sinceramente ammettere un’ipotesi così mostruosa.

— Sarebbe un’infamia troppo grande! — disse. — Non è possibile: dobbiamo preparar molte cose e ci vogliono anni. Credimi, è escluso.

— Sì, — approvò Renato — sarebbe assurdo: sarebbe un’immoralità.

Né per quel giorno ci pensarono più, poiché un’altra faccenda importante avevano da risolvere, che li tenne lungamente occupati: lo scambio di alcuni francobolli delle loro collezioni e specialmente di uno degli Stati Pontifici contro uno del Guatemala e due dell’Honduras.