Orlando innamorato/Libro secondo/Canto quinto

Libro secondo

Canto quinto

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1   Vita zoiosa, e non finisca mai,
     A voi che con diletto me ascoltati.
     Segnori, io contarò dove io lasciai,
     Poi che ad odire sete ritornati,
     Sì come Orlando con fatica assai
     Quei duo giganti al ponte avea legati.
     Vinto ha ogni cosa il franco paladino,
     Ed a sua posta uscir può del giardino.

2   Ma lui tra sé pensava nel suo core
     Che se a quel modo fuora se n’andava,
     Non era ben compito de l’onore,
     Né satisfatto a quella che ’l mandava;
     Ed era ancora al mondo un grande errore,
     Se quel giardino in tal forma durava,
     Ché dame e cavallier d’ogni contrate
     Vi erano occisi con gran crudeltate.

3   Però si pose il barone a pensare
     Se in alcun modo, o per qualche maniera
     QuesQo verzier potesse disertare;
     Così la lode e la vittoria intiera
     Ben drittamente acquistata gli pare,
     Poi che l’usanza dispietata e fiera
     Che struggea tante gente pellegrine,
     Per sua virtute sia condutta a fine.

4   Legge il libretto, e vede che una pianta
     Ha quel giardino in mezzo al tenimento,
     A cui se un ramo de cima se schianta,
     Sparisce quel verziero in un momento;
     Ma di salirvi alcun mai non si vanta,
     Che non guadagni morte o rio tormento.
     Orlando, che non sa che sia paura,
     Destina de compir questa ventura.

5   Ritorna adietro per una vallata,
     Che proprio ariva sopra al bel palaggio
     Ove la dama prima avea trovata,
     Che mirandosi al brando stava ad aggio;
     E lui lì presso la lasciò legata,
     Come sentesti, a quel tronco di faggiog
     Così la ritrovò legata ancora:
     Ivi la lascia e non vi fa dimora.

6   De gionger alla pianta avea gran fretta;
     Ed ecco in mezo di quella pianura
     Ebbe veduta quella rama eletta,
     Bella da riguardare oltra misura.
     D’arco de Turco non esce saetta
     Che potesse salire a quella altura;
     Salendo e rami ad alto e’ fa gran spaccio,
     Né volta il tronco alla radice un braccio.

7   Non è più grosso, ed ha li rami intorno
     Lunghi e sotili, ed ha verde le fronde;
     Quelle getta e rinova in ciascun giorno,
     E dentro spine acute vi nasconde.
     Di vaghe pome d’oro è tutto adorno;
     Queste son grave e lucide e rotonde,
     E son sospese a un ramo piccolino:
     Grande è il periglio ad esser lì vicino.

8   Grosse son quanto uno omo abbia la testa,
     E come alcuno al tronco s’avicina,
     Pur sol battendo i piedi alla foresta,
     Trema la pianta lunga e tenerina;
     E cadendo le pome a gran tempesta,
     Qualunche è gionto da quella roina
     Morto alla terra se ne va disteso,
     Perché non è riparo a tanto peso.

9   Alti li rami son quasi un’arcata;
     Il tronco da lì in gioso è sì polito,
     Che non vi salirebbe anima nata,
     E se alcun fosse di salire ardito,
     Non serìa sostenuto alcuna fiata,
     Perché alla cima non è grosso un dito.
     Ogni cosa sapeva Orlando a ponto:
     Letto nel libro aveva ciò che io conto.

10 E lui prende nel cor tanto più sticcia
     Quanto le cose son più faticose,
     E per trar questo al fin la mente adriccia.
     Taglia de un faggio le rame frondose
     Subitamente, e fece una gradiccia;
     Crosta di prato e terra su vi pose,
     Poi sopra alle sue spalle e alla testa
     Stretta la lega, e va che non s’arresta.

11 Aveva il conte una forza tamanta,
     Che già portava, come Turpin dice,
     Una colonna integra tutta quanta
     D’Anglante a Brava per le sue pendice.
     Or, come gionto fu sotto la pianta,
     Tutta tremò per sino alla radice.
     Le sue gran pome, ciascuna più greve,
     Vennero a terra e spesse come neve.

12 Il conte va correndo tutta fiata,
     E de gionger al tronco ben s’appresta,
     Ché già tutta la terra è dissipata,
     Né manca di cader l’aspra tempesta.
     Ora era carca tanto quella grata,
     Che sol di quel gran peso lo molesta,
     E se ben presto al tronco non ariva,
     Quella roina della vita il priva.

13 Come fu gionto a quella pianta gaglia,
     Non vi crediati che voglia montare;
     Tutta a traverso de un colpo la taglia:
     La cima per quel modo ebbe a schiantare.
     Come fu in terra, tutta la prataglia
     D’intorno intorno cominciò a tremare;
     Il sol tutto se asconde e il celo oscura,
     Coperse un fumo il monte e la pianura.

14 Ove sia il conte non vede nïente,
     Trema la terra con molto romore.
     Eravi per quel fumo un fuoco ardente,
     Grande quanto una torre, ancor maggiore;
     Questo è un spirto d’abisso veramente,
     Che strugge quel giardino a gran furore,
     E, come al tutto fu venuto meno,
     Ritornò il giorno e fiesse il cel sereno.

15 La pietra che ’l verzier suolea voltare,
     Tutta è sparita e più non se vedia;
     Ora per tutto si può caminare.
     Largo è il paese, aperto a prateria,
     Né fonte né palagio non appare;
     De ciò che vi era, sol la dama ria,
     Io dico Falerina, ivi è restata,
     Sì come prima a quel tronco legata.

16 La qual piangendo forte lamentava,
     Poi che disfatto vidde il suo giardino.
     Né come prima tacita si stava
     Negando dar risposta al paladino;
     Ma con voce pietosa lo pregava
     Che aggia mercè del suo caso tapino,
     Dicendogli: - Baron, fior de ogni forte,
     Ben ti confesso ch’io merto la morte.

17 Ma se al presente me farai morire,
     Sì come io ne son degna in veritade,
     E dame e cavallier farai perire,
     Che son pregioni, e fia gran crudeltade.
     Acciò che intendi quel che ti vo’ dire,
     Sappi che io feci con gran falsitade
     Questo verziero e ciò che gli era intorno,
     In sette mesi; ora è sfatto in un giorno.

18 Per vendicarme sol de un cavallero
     E de una dama sua, falsa, putana,
     Io feci il bel giardin, che, a dirti il vero,
     Ha consumata molta gente umana;
     Né ancora mi bastò questo verzero:
     Io feci un ponte sopra a una fiumana,
     Dove son prese e dame e cavallieri,
     Quanti ne arivan per tutti e sentieri.

19 Quel cavalliero è nomato Arïante,
     Origilla è la falsa che io contai.
     Or de costoro io non dico più avante,
     A benché vi serìa da dire assai.
     Per mia sventura tra gente cotante
     Alcun de questi duo non gionse mai,
     E già più gente è morta a tal dannaggio
     Che non ha rami o fronde questo faggio.

20 Perché al giardin, che fu meraviglioso,
     Tutti eran morti quanti ne arivava;
     Ma il numero più grande e copïoso,
     Il ponte ch’io t’ho detto mi mandava,
     Perché avea in guardia un vecchio doloroso,
     Che molta gente sopra vi guidava.
     Il ponte non bisogna che io descriva,
     Ma per se stesso chiude chi ve ariva.

21 Né è molto tempo che una incantatrice,
     Quale è figliola del re Galafrone,
     Che ora col patre, sì come se dice,
     Assedïata è dentro ad un girone,
     Passando alor di qua, quell’infelice,
     Al ponte fo condutta dal vecchione,
     E poi, con modo che io non sazo dire,
     Partisse, e tutti gli altri fie’ fuggire.

22 Ma molti vi ne sono ora al presente,
     Perché ne prende sempre il vecchio assai,
     E come io serò occisa, incontinente
     Il ponte e lor non si vedran più mai,
     E meco perirà cotanta gente:
     E tu cagion di tutto il mal serai.
     Ma se mi campi, io ti prometto e giuro
     Che lasciarò ciascun franco e sicuro.

23 E se non dài al mio parlar credenza,
     Menami teco, come io son, legata,
     (Presa o disciolta, io non fo differenza,
     Ché ad ogni modo io son vituperata),
     E disfarò la torre in tua presenza,
     E tutta salvarò quella brigata.
     Piglia il partito, adunque, che ti pare,
     O fa l’altri morire, o mi campare. -

24 Presto questo partito prese il conte,
     Ché morta non l’avrebbe ad ogni guisa;
     Ni per grave dispetto ni per onte
     Avrebbe Orlando una donzella occisa.
     D’acordo adunque se ne vanno al ponte,
     Ma più di lor la istoria non divisa,
     E torna ove lasciò, poco davante,
     Marfisa alla battaglia e Sacripante.

25 La zuffa per quel modo era durata,
     Che io vi contai ne l’assalto primiero;
     Marfisa di tal arme era adobbata,
     Che di ferirla non facea mistiero
     Ponta di lancia ni taglio di spata;
     E Sacripante aveva il suo destriero
     Che è sì veloce che si vede apena,
     Onde la dama indarno e colpi mena.

26 Ma mentre che tra lor sopra quel piano
     È la battaglia de più colpi spessa,
     A benché ciascadun al tutto è vano,
     Ché essa non nôce a lui né lui ad essa,
     Brunello il ladro, il quale era Africano,
     E fo servente del gran re de Fiessa,
     Avea passate molte regïone,
     E de improviso è già gionto al girone.

27 Agramante mandò questo Brunello,
     Perché davanti a lui se era avantato
     Venire ad Albracà dentro al castello,
     Ove è la dama dal viso rosato,
     E tuore a lei di dito quello annello,
     Quale era per tale arte fabricato,
     Che ciascaduno incanto a sua presenza
     Perdea la possa con la appariscenza.

28 Fatto era questo per trovar Rugiero,
     Che era nascoso al monte di Carena,
     E però questo ladro tanto fiero
     Vien con tal fretta e tal tempesta mena.
     Sopra a quel sasso n’andava legiero,
     Che non vi avria salito un ragno a pena,
     Però che quel castello in ogni lato
     A piombo, come muro, era tagliato.

29 E sol da un canto vi era la salita,
     Tutta tagliata a botta di piccone,
     E sol da questa è la intrata e la uscita,
     Dove alla guarda stan molte persone;
     Ma verso il fiume è la pietra polita,
     Né di guardarvi fasse menzïone,
     Però che con ingegno né con scale,
     Né se vi può salir, se non con l’ale.

30 Brunello è d’araparsi sì maestro,
     Che su ne andava come per un laccio;
     Tutta quella alta ripa destro destro
     Montava, e gionse al muro in poco spaccio.
     A quello ancor se attacca il mal cavestro,
     Menando ambi dui piedi e ciascun braccio
     Come egli andasse per una acqua a nôto,
     Né fu bisogno al suo periglio un voto;

31 Perché montava cotanto sicuro,
     Come egli andasse per un prato erboso.
     Poi che passato fu sopra del muro,
     A guisa de una volpe andava ascoso;
     E non credati che ciò fosse al scuro,
     Anci era il giorno chiaro e luminoso;
     Ma lui di qua e di là tanto si cella,
     Che gionto fu dove era la donzella.

32 Sopra la porta quella dama gaglia
     Si stava ascesa riguardando il piano,
     E remirava attenta la battaglia
     Che avea Marfisa con quel re soprano.
     Gran gente intorno a lei facea serraglia:
     Chi parla, e chi fa cenno con la mano,
     Dicendo: - Ecco Marfisa il brando mena,
     Re Sacripante la camparà apena. -

33 Altri diceva: - E’ farà gran diffese
     Contra quella crudele il buon guerrero,
     Pur che non venga con seco alle prese,
     E guardi che non pèra il suo destriero. -
     A questo dire il ladro era palese,
     Che alla notte aspettar non fa pensiero;
     Tra quella gente se ne va Brunello
     Tutto improviso, e prese quello annello.

34 E non l’arebbe la dama sentito,
     Se non che sbigotì della sua faccia.
     Lui con l’anel che gli ha tolto de dito,
     Di fuggir prestamente si procaccia,
     Correndo al sasso dove era salito.
     Dietro tutta la gente è posta in caccia;
     Ché Angelica piangendo se scapiglia
     Cridando: - Ahimè tapina! piglia! piglia!

35 Piglia! piglia! - cridava - ahimè tapina!
     Ché consumata son, s’el non è preso. -
     Ciascun per agradire alla regina
     A suo poter avrebbe il ladro offeso.
     Lui passa il muro e salta la roina,
     Per quella pietra se ne va sospeso,
     E per la ripa va mutando il passo
     Come per gradi, e gionge al fiume basso.

36 Né vi crediati che fusse confuso,
     Benché quella acqua sia grossa e corrente:
     Come un pesce a natare egli era aduso;
     Entra nel fiume, e di lui par nïente.
     Fuor de l’acqua teniva aponto il muso,
     E pareva una rana veramente;
     Quei del castel, guardando in ogni lato
     E nol veggendo, il credeno affocato.

37 Angelica per questo se dispera,
     E ben se batte il viso la meschina.
     Brunello uscì dapoi della rivera,
     Per la campagna via forte camina;
     Gionse dove era la battaglia fiera
     Tra il re circasso e la forte regina.
     Ivi firmosse alquanto per mirare,
     Ma l’uno e l’altro alor se vôl posare;

38 Perché il secondo assalto era bastato,
     E ciascadun di lor vôl prender posa.
     Dicea Brunello: "Io non serò firmato,
     Che io non guadagni vosco alcuna cosa.
     Se non vi spoglio, aveti bon mercato;
     Ma poi che seti gente valorosa,
     Io voglio usarvi alquanta cortesia:
     Ciò che io vi lascio, è della robba mia."

39 Così dicea Brunello in la sua mente,
     E vede a Sacripante quel destriero,
     Il qual da parte si stava dolente
     Avendo del suo regno gran pensiero,
     Che gli parea vedere in foco ardente,
     Come contato avea quel messaggiero;
     E tal doglia di questo ha Sacripante,
     Che non se avede quel che abbi davante.

40 Diceva lo Africano: "Or che omo è questo
     Che dorme in piede, ed ha sì bon ronzone?
     Per altra volta io lo farò più desto."
     E prese in questo dire un gran troncone,
     E la cingia disciolse presto presto,
     E pose il legno sotto dello arcione;
     Né prima Sacripante se ne avede,
     Che quel se parte, e lui rimane a piede.

41 A questa cosa mirava Marfisa,
     Ed avea preso tanta meraviglia,
     Che, come fosse dal spirto divisa,
     Stringea la bocca ed alciava le ciglia.
     Il ladro la trovò tutta improvisa
     In tal pensiero, e la spata li piglia;
     Quella attamente li trasse di mano,
     E via spronando fugge per il piano.

42 Marfisa il segue e cridando il minaccia,
     - Giotton, - dicendo - e’ ti costarà cara! -
     Ma lui si volta e fagli un fico in faccia;
     E fuggendo dicea: - Così se impara! -
     Il campo è tutto in arme e costui caccia,
     Cridando: - Piglia! piglia! para! para! -
     Ma lui, che si trovava un tal destriero,
     De lo esser preso avea poco pensiero.

43 Or Sacripante rimase stordito
     Per meraviglia, e non avria saputo
     Dire a qual modo sia quel fatto gito,
     Se non che esso il destriero avea perduto.
     "Dove è colui, - dicea - che m’ha schernito?
     Or come fece, ch’io non l’ho veduto?
     Esser non puote che uno inganno tanto
     Non sia da spirti fatto per incanto.

44 E se gli è ciò, mia dama con l’annello
     Ancor farami avere il bon destriero.
     Ben mi è vergogna: ma quale omo è quello
     Che possa riparare a tal mestiero?"
     Così dicendo tornasi al castello
     Pensoso, anzi turbato nel pensiero;
     Ma, come gionto fu dentro alla porta,
     Angelica trovò che è quasi morta:

45 Quasi morta di doglia la donzella,
     Pensando che riceve un tal dannaggio.
     Re Sacripante per nome l’appella,
     Dicendo: - Anima mia, chi te fa oltraggio? -
     Lei sospirando, piangendo favella,
     Dicendo: - Ormai diffesa più non aggio.
     Presto nelle sue man me avrà Marfisa,
     E serò in pena e con tormento occisa.

46 Aggio perduta tutta la diffesa
     Che aver suoleva a l’ultima speranza,
     E so che prestamente serò presa,
     E poco tempo de viver me avanza.
     E tanto questo danno più mi pesa,
     Quanto io l’ho recevuto come a cianza,
     E più non sazo, trista, dolorosa,
     Chi m’abbia tolta così cara cosa. -

47 Non sapea il re di quel fatto nïente,
     Ché era nel campo, come aveti odito;
     Ma detto gli fu poi da quella gente
     Come il ladro l’annel tolse de dito
     E fuggitte alla ripa prestamente,
     E fu impossibil de averlo seguito,
     Perché se era gettato giù del sasso,
     Sì che egli era affocato al fiume basso.

48 Il re diceva: - Se Macon mi vaglia,
     Che costui non deve esser affocato
     (Così foss’egli!), perché alla battaglia
     Il mio destrier di sotto m’ha robbato,
     E fuggito ne è via per la prataglia.
     Benché Marfisa l’abbia seguitato,
     Non serà preso, e ben lo so di certo,
     Ché del destrier ch’egli ha ne sono esperto. -

49 Mentre che tra costor se ragionava,
     E ’l dir de l’una cosa l’altra spiana,
     Colui che in guarda a l’alta rocca stava,
     - A l’arme! - crida, e suona la campana;
     E dà risposta a chi lo dimandava,
     Che una gran gente ariva in su la piana,
     Con tante insegne grande e piccoline,
     Che ne stupisce e non ne vede il fine.

50 Or questa gente che là giù venìa,
     Perché sappiati il fatto ben certano,
     Venuta è tutta quanta de Turchia
     (Qua la conduce il forte Caramano):
     Ducento millia e più quella zinia,
     Che con gran cridi se accampa nel piano.
     Torindo questa gente fa venire,
     Ché vôl vedere Angelica perire.

51 Sono accampati sopra alla pianura,
     E ciascadun giurando se destina
     Mai non partirse, che di quella altura
     Verà la rocca al basso con roina.
     Angelica tremava di paura
     Veggendosi diserta la meschina,
     Ché il campo de’ nemici è sì cresciuto;
     Lei de alcuno altro non aspetta aiuto.

52 Or si va di quel tempo racordando
     Che la soccorse il franco paladino
     Con tanti bon guerreri, io dico Orlando,
     Che avea mandato a quel falso giardino;
     La fortuna e se stessa biastemando,
     E l’amor de Ranaldo e il rio destino,
     Qual l’ha tanto infiammata e tanto accesa,
     Che gli ha tolto ogni aiuto e ogni diffesa.

53 Sol seco è Sacripante, il bon guerriero,
     Ma questo alla battaglia non uscia,
     Poi che perduto aveva quel destriero
     Che contra di Marfisa il mantenia,
     E stava del suo regno in gran pensiero,
     Che avea perduto, e in gran malenconia;
     Ma più pena sentiva e più dolore
     Veggendo quella dama in tanto errore.

54 Del destriero e del regno che è perduto
     Non avrebbe quel re doglia né cura,
     Pur che potesse dare alcuno aiuto
     A quella dama che è in tanta paura.
     Il castel per tre mesi è proveduto
     Di vittualia dentro a l’alte mura;
     Prima adunque che ’l tempo sia finito,
     Bisogno è di pigliare altro partito.

55 Venne in consiglio lo re Galafrone
     Col re circasso e sua figlia soprana.
     Disse quel vecchio: - Oditi una ragione,
     Ché ogni altra di soccorso mi par vana.
     Un mio parente tiene la regione
     Di là da l’India, detta Sericana,
     E lui Gradasso si fa nominare,
     Qual di prodezza al mondo non ha pare.

56 Settanta dui reami in sua possanza
     Ha conquistato con la sua persona,
     E vinto ha tutto il mare e Spagna e Franza;
     Per lo universo il suo nome risuona.
     Ora di novo per molta arroganza
     Ha tolto dal suo capo la corona,
     Ed ha giurato mai non la portare
     Se non compisce quel ch’egli ha da fare.

57 Perché al tempo passato, alora quando
     Vinse la Franza e prese Carlo Mano,
     Quel gli promise de mandare un brando
     Che al mondo non è un altro più soprano,
     Qual era de un baron che ha nome Orlando.
     Ora ha aspettato molto tempo in vano,
     Onde destina tornare in Ponente,
     E prender Carlo e tutta la sua gente.

58 E dentro alla città di Druantuna,
     Che è la sua sedia antiqua e stabilita,
     Per far passaggio gran gente raduna;
     E, secondo che intendo per odita,
     Tanta non ne fui mai sotto la luna
     Un’altra fiata ad arme insieme unita;
     Benché reputo quella gente a cianza,
     Dico a rispetto de la sua possanza.

59 Sì che a camparci de man di Marfisa,
     Questo serebbe lo ottimo rimedio;
     Ma non ritrovo il modo né la guisa
     A far sapere a lui di questo assedio;
     Ch’io so che lui verrebbe alla recisa,
     Né mai mi lasciarebbe in tanto attedio:
     Ma non so trovar modo né vedere
     Che questa cosa gli faccia asapere. -

60 Seguiva Galafron con questo dire
     A Sacripante voltando le ciglia:
     - Tu sei, figliolo, uno omo di alto ardire,
     E tanto amor mi porti ed a mia figlia,
     Che tu sei posto più volte a morire,
     Né Mandricardo, che ’l tuo regno piglia,
     Né il tuo caro Olibandro, che hai perduto,
     Mai ti puote distor dal nostro aiuto.

61 Dio faccia che una volta meritare
     Possiamo te con degno guidardone,
     Ben ch’io non credo mai poterlo fare;
     Ma ciò che abbiamo e le proprie persone
     Seran disposte nel tuo comandare.
     Ciò te giuro a la fede di Macone,
     Che la mia figlia e tutto il regno mio
     Seran disposti sempre al tuo desio.

62 Ma questo proferirti fia perduto,
     Ché serà il regno e noi seco diserti,
     Se non trovamo a qualche modo aiuto;
     Ed io che tutti quanti li aggio esperti
     E lungamente ho il fatto proveduto
     E i soccorsi palesi e li coperti,
     Dico che siamo a l’ultimo perire,
     Se ’l re Gradasso non se fa venire.

63 Sì che, figlio mio caro, io te scongiuro
     Per nostro amore e tua virtù soprana,
     Che non ti para questo fatto duro
     Di ritrovar Gradasso in Sericana;
     E questa sera, come il cel sia scuro,
     Potrai callar nell’oste in su la piana,
     Ché quella gente ne stima sì poco,
     Che non fa guarda al campo in verun loco. -

64 Sacripante non fie’ molte parole,
     Come colui che ha voglia de servire,
     E de altro nella mente non si dole,
     Se non che presto non si può partire;
     Ma come a ponto fu nascoso il sole,
     E cominciosse il celo ad oscurire,
     Iscognosciuto, come peregrino,
     Per mezo l’oste prese il suo camino.

65 Né mai sopra di lui fu riguardato;
     Va di gran passo e porta il suo bordone,
     Ma sotto la schiavina è bene armato
     Di bona piastra, ed ha il brando al gallone.
     Rimase Galafrone assedïato
     Con la sua figlia nel forte girone;
     E Sacripante, che de andare ha cura,
     Trovò nel suo vïaggio alta ventura.

66 Questa odirete, come l’altre cose
     Che insieme tutte quante sono agionte.
     E seran ben delle meravigliose,
     Perché fu in India al Sasso della Fonte;
     Ma primamente, gente dilettose,
     Io ve vorò contar di Rodamonte:
     Di Rodamonte vo’ contarvi in prima,
     Che una vil foglia il suo Macon non stima,

67 E meno ancor s’accosta ad altra fede:
     Tien per suo Dio l’ardire e la possanza,
     E non vôle adorar quel che non vede.
     Questo superbo, che ha tanta arroganza,
     Pigliar soletto tutto il mondo crede,
     Ed al presente vôl passar in Franza,
     E prenderla in tre giorni si dà vanto,
     Come odirete dir ne l’altro canto.