Orlando innamorato/Libro secondo/Canto sesto

Libro secondo

Canto sesto

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Libro secondo - Canto quinto Libro secondo - Canto settimo

 
1   Convienmi alciare al mio canto la voce,
     E versi più superbi ritrovare;
     Convien ch’io meni l’arco più veloce
     Sopra alla lira, perch’io vo’ contare
     De un giovane tanto aspro e sì feroce,
     Che quasi prese il mondo a disertare:
     Rodamonte fu questo, lo arrogante,
     Di cui parlato ve ho più volte avante.

2   Alla cità d’Algeri io lo lasciai,
     Che di passare in Franza se destina,
     E seco del suo regno ha gente assai:
     Tutta è alloggiata a canto alla marina.
     A lui non par quella ora veder mai
     Che pona il mondo a foco ed a roina,
     E biastema chi fece il mare e il vento,
     Poi che passar non puote al suo talento.

3   Più de un mese di tempo avea già perso
     De quindi in Sarza, che è terra lontana,
     E poi che è gionto, egli ha vento diverso,
     Sempre Greco o Maestro o Tramontana;
     Ma lui destina o ver di esser sumerso,
     O ver passare in terra cristïana,
     Dicendo a’ marinari ed al patrone
     Che vôl passare, o voglia il vento, o none.

4   - Soffia, vento, - dicea - se sai soffiare,
     Ché questa notte pure ne vo’ gire;
     Io non son tuo vassallo e non del mare,
     Che me possiati a forza retenire;
     Solo Agramante mi può comandare,
     Ed io contento son de l’obidire:
     Sol de obedire a lui sempre mi piace,
     Perché è guerrero, e mai non amò pace. -

5   Così dicendo chiamò un suo parone
     Che è di Moroco ed è tutto canuto;
     Scombrano chiamato era quel vecchione,
     Esperto di quella arte e proveduto.
     Rodamonte dicea: - Per qual cagione
     M’hai tu qua tanto tempo ritenuto?
     Già son sei giorni, a te forse par poco,
     Ma sei Provenze avria già posto in foco.

6   Sì che provedi alla sera presente
     Che queste nave sian poste a passaggio,
     Né volere esser più di me prudente,
     Ché, s’io me anego, mio serà il dannaggio;
     E se perisce tutta l’altra gente,
     Questo è il minor pensier che nel core aggio,
     Perché, quando io serò del mare in fondo,
     Voria tirarmi adosso tutto il mondo. -

7   Rispose a lui Scombrano: - Alto segnore,
     Alla partita abbiam contrario vento;
     Il mare è grosso e vien sempre maggiore.
     Ma io prendo de altri segni più spavento,
     Ché il sol callando perse il suo vigore,
     E dentro a i novaloni ha il lume spento;
     Or si fa rossa or pallida la luna,
     Che senza dubbio è segno di fortuna.

8   La fulicetta, che nel mar non resta,
     Ma sopra al sciutto gioca ne l’arena,
     E le gavine che ho sopra alla testa,
     E quello alto aeron che io vedo apena,
     Mi dànno annunzio certo di tempesta;
     Ma più il delfin, che tanto se dimena,
     Di qua di là saltando in ogni lato,
     Dice che il mare al fondo è conturbato.

9   E noi se partiremo al celo oscuro,
     Poi che ti piace; ed io ben vedo aperto
     Che siamo morti, e de ciò te assicuro;
     E tanto di questa arte io sono esperto,
     Che alla mia fede te prometto e giuro,
     Quando proprio Macon mi fésse certo
     Ch’io non restassi in cotal modo morto,
     "Va tu, - direbbi - ch’io mi resto in porto."-

10 Diceva Rodamonte: - O morto o vivo,
     Ad ogni modo io voglio oltra passare,
     E se con questo spirto in Franza arivo,
     Tutta in tre giorni la voglio pigliare;
     E se io vi giongo ancor di vita privo,
     Io credo per tal modo spaventare,
     Morto come io serò, tutta la gente,
     Che fuggiranno, ed io serò vincente. -

11 Così de Algeri uscì del porto fuore
     Il gran naviglio con le vele a l’orza;
     Maestro alor del mare era segnore,
     Ma Greco a poco a poco se rinforza;
     In ciascaduna nave è gran romore,
     Ché in un momento convien che si torza:
     Ma Tramontana e Libezzo ad un tratto
     Urtarno il mare insieme a rio baratto.

12 Allor se cominciarno e cridi a odire,
     E l’orribil stridor delle ritorte;
     Il mar cominciò negro ad apparire,
     E lui e il celo avean color di morte;
     Grandine e pioggia comincia a venire,
     Or questo vento or quel si fa più forte;
     Qua par che l’unda al cel vada di sopra,
     Là che la terra al fondo se discopra.

13 Eran quei legni di gran gente pieni,
     De vittuaglia, de arme e de destrieri,
     Sì che al tranquillo e ne’ tempi sereni
     Di bon governo avean molto mestieri;
     Or non vi è luce fuor che di baleni,
     Né se ode altro che troni e venti fieri,
     E la nave è percossa in ogni banda:
     Nullo è obedito, e ciascadun comanda.

14 Sol Rodamonte non è sbigotito,
     Ma sempre de aiutarse si procaccia;
     Ad ogni estremo caso egli è più ardito,
     Ora tira le corde, or le dislaccia;
     A gran voce comanda ed è obedito,
     Perché getta nel mare e non minaccia;
     Il cel profonda in acqua a gran tempesta,
     Lui sta di sopra e cosa non ha in testa.

15 Le chiome intorno se gli odìan suonare,
     Che erano apprese de l’acqua gelata;
     Lui non mostrava de ciò più curare,
     Come fusse alla ciambra ben serrata.
     Il suo naviglio è sparso per il mare,
     Che insieme era venuto di brigata,
     Ma non puote durare a quella prova:
     Dov’è una nave, l’altra non si trova.

16 Lasciamo Rodamonte in questo mare,
     Che dentro vi è condutto a tal partito:
     Ben presto il tutto vi vorò contare;
     Ma perché abbiati il fatto ben compito,
     Di Carlo Mano mi convien narrare,
     Che avea questo passaggio presentito,
     E benché poco ne tema o nïente,
     Avea chiamata in corte la sua gente.

17 E disse a lor: - Segnori, io aggio nova
     Che guerra ci vuol fare il re Agramante.
     Né lo spaventa la dolente prova,
     Ove fur morte de sue gente tante;
     Né par che dalla impresa lo rimova
     L’esempio de suo patre e de Agolante,
     Che morti fur da noi con vigoria:
     Or ne viene esso a fargli compagnia.

18 Ma pure in ogni forma ce bisogna
     Guarnir per tutto il regno a bona scorta,
     Perché, oltra al vituperio e alla vergogna,
     La trista guarda spesso danno porta.
     Costor verranno o per terra in Guascogna,
     O per mare in Provenza, o ad Acquamorta,
     E però voglio che con gente armata
     Ogni frontiera sia chiusa e guardata. -

19 Poi che ebbe detto, chiama il duca Amone,
     Ed a lui disse: - Poi che se ne è andato
     Quel tuo figliol, che fu sempre un giottone,
     Farai che Montealban sia ben guardato.
     Manda tua gente fore a ogni cantone,
     E fa che incontinente io sia avisato
     Ciò che se faccia in terra ed in marina
     Per tutta Spagna, dove te confina.

20 Là son toi figli; ogniuno è bon guerrero,
     Sì che non te bisogna una gran gente;
     Se pure aiuto te farà mestiero,
     Io commetto ad Ivone, il tuo parente,
     E qui presente impono ad Angelero
     Che ciascadun te sia tanto obediente
     Come proprio serìano a mia persona,
     Sotto a l’oltraggio di questa corona.

21 Così Guielmo, il sir de Rosiglione,
     Ed Ariccardo, quel di Perpignano,
     Con tutte le sue gente e sue persone
     Vengano ad aloggiare a Montealbano. -
     Di questo non si fece più sermone;
     Lo imperator, rivolto a l’altra mano,
     Disse: - Segnori, or con più providenza
     Convien guardarsi il mar verso Provenza.

22 Però voglio che il duca de Bavera
     Di quella regïone abbia la impresa:
     In mare, in terra tutta la rivera
     Contra questi Africani abbia diffesa.
     Benché sia cosa facile e leggiera
     Vetare a’ Saracin la prima scesa,
     La gran fatica fia de indovinare
     Il loco a ponto ove abbino a smontare.

23 Per questo voglio che con seco mena
     Tutti quattro i suoi figli a quel riparo,
     Ed oltra a questi il conte de Lorena,
     Dico Ansuardo, il mio paladin caro,
     E Bradiamante, la dama serena,
     Ché di Ranaldo vi è poco divaro
     Di ardire e forza a questa sua germana;
     Così Dio sempre me la guardi sana!

24 Ed Amerigo, duca di Savoglia,
     E Guido il Borgognon vada in persona,
     E la sua gesta seco si raccoglia
     Roberto de Asti e Bovo de Dozona.
     Chi non obedirà, sia chi si voglia,
     Serà posto ribello alla corona.
     Ora, Naimo mio caro, intendi bene:
     Tenire aperti gli occhi ti conviene.

25 In molte parte te convien guardare
     Per non essere accolto allo improviso,
     Ché, stu li lasci a terra dismontare,
     Non andarà la cosa più da riso.
     Tien la vedetta per terra e per mare,
     E fa che de ogni cosa io n’abbia aviso,
     Ch’io starò sempre in campo proveduto
     A dare, ove bisogni, presto aiuto. -

26 Fu in cotal forma il consiglio fermato,
     Sì come avea disposto Carlo Mano,
     E ciascadun da lui tolse combiato,
     Ed andò il duca Amone a Montealbano,
     Da molti bon guerreri accompagnato;
     E il duca Naimo per monte e per piano,
     Con pedoni e cavalli in quantitade,
     Gionse in Marsiglia dentro alla citade.

27 Trenta migliara avea de cavallieri,
     Ed ha vinti migliara de pedoni;
     E tra lor cominciarno a far pensieri
     Qual terra ciascadun de quei baroni
     Tenesse al suo governo volentieri;
     Né già vi fôr tra lor contenzïoni,
     Ma ciascun, come a Naimo fu in talento,
     Prese la guarda e rimase contento.

28 Torniamo a Rodamonte, che nel mare
     Ha gran travaglia contra alla fortuna;
     La notte è scura e lume non appare
     De alcuna stella, e manco della luna.
     Altro non se ode che legni spezzare
     L’un contra a l’altro per quella onda bruna,
     Con gran spaventi e con alto romore:
     Grandine e pioggia cade con furore.

29 Il mar se rompe insieme a gran ruina,
     E ’l vento più terribile e diverso
     Cresce d’ognor e mai non se raffina,
     Come volesse il mondo aver somerso.
     Non sa che farsi la gente tapina,
     Ogni parone e marinaro è perso;
     Ciascuno è morto e non sa che si faccia:
     Sol Rodamonte è quel che al cel minaccia.

30 Gli altri fan voti con molte preghiere,
     Ma lui minaccia al mondo e la natura,
     E dice contra Dio parole altiere
     Da spaventare ogni anima sicura.
     Tre giorni con le notte tutte intiere
     Sterno abattuti in tal disaventura,
     Che non videro al cielo aria serena,
     Ma instabil vento e pioggia con gran pena.

31 Al quarto giorno fu maggior periglio,
     Ché stato tal fortuna ancor non era,
     Perché una parte di quel gran naviglio
     Condotta è sotto Monaco in rivera.
     Quivi non vale aiuto né consiglio;
     Il vento e la tempesta ognior più fiera
     Ne l’aspra rocca e nel cavato sasso
     Batte a traverso e legni a gran fracasso.

32 Oltra di questo tutti e paesani,
     Che cognobber l’armata saracina,
     Cridando: - Adosso! adosso a questi cani! -
     Callarno tutti quanti alla marina,
     E ne’ navigli non molto lontani
     Foco e gran pietre gettan con roina,
     Dardi e sagette con pegola accesa;
     Ma Rodamonte fa molta diffesa.

33 Nella sua nave alla prora davante
     Sta quel superbo, e indosso ha l’armatura,
     E sopra a lui piovean saette tante
     E dardi e pietre grosse oltra a misura,
     Che sol dal peso avrian morto un gigante;
     Ma quel feroce, che è senza paura,
     Vôl che ’l naviglio vada, o male o bene,
     A dare in terra con le vele piene.

34 Aveano e suoi di lui tanto spavento,
     Che ciascaduno a gran furia se mosse,
     Ed ogni nave al suo comandamento
     Sopra alla spiagia alla prora percosse.
     Traeva Mezodì terribil vento
     Con spessa pioggia e con grandine grosse;
     Altro non se ode che nave strusire
     Ed alti cridi e pianti da morire.

35 Di qua di là per l’acqua quei pagani
     Con l’arme indosso son per anegare,
     E gettan frezze e dardi in colpi vani;
     Mai non li lascia quella unda fermare.
     In terra stanno armati e paesani,
     Né li concedon ponto a vicinare,
     E di Monico uscì, che più non tarda,
     Conte Arcimbaldo e la gente lombarda.

36 Questo Arcimbaldo è conte di Cremona,
     E del re Desiderio egli era figlio;
     Gagliardo a meraviglia di persona,
     Scaltrito, e della guerra ha bon consiglio.
     Costui la rocca a Monico abandona
     Sopra un destrier coperto di vermiglio,
     E con gran gente calla alla riviera,
     Ove apizzata è la battaglia fiera.

37 A Monico il suo patre l’ha mandato,
     Ch’è sopra alle confine di Provenza,
     Perché intenda le cose in ogni lato,
     E dàlli avviso in ciascuna occorrenza.
     Il re dentro a Savona era fermato,
     Dov’ha condutta tutta sua potenza
     Con bella gente per terra e per mare,
     Ché ad Agramante il passo vôl vetare.

38 Ora Arcimbaldo con molti guerrieri,
     Come io vi dico, sopra al mar discese,
     E fie’ tre schiere de’ suoi cavallieri,
     E sopra al litto aperto le distese.
     Esso con soi pedoni e ballestrieri
     Andò in soccorso a questi del paese,
     Dove è battaglia orribile e diversa,
     Benché l’armata sia rotta e somersa.

39 Ché Rodamonte, orrenda creatura,
     Fa più lui sol che tutta l’altra gente;
     Egli è ne l’acqua fino alla centura,
     Adosso ha dardi e sassi e foco ardente.
     Ciascaduno ha di lui tanta paura,
     Che non se gli avicina per nïente,
     Ma da largo cridando con gran voce
     Con lancie e frizze quanto può li nôce.

40 Esso rassembra in mezo al mar un scoglio,
     E con gran passo alla terra ne viene,
     E per molta superbia e per orgoglio
     Dove è più dirupato il camin tiene.
     Or, bei Segnori, io già non vi distoglio
     Ch’e Cristïan non se adoprassen bene;
     Ma non vi fo remedio a quella guerra:
     Al lor dispetto lui discese in terra.

41 Dietro vi viene di sua gente molta,
     Che da le nave e da i legni spezzati
     Mezo somersa insieme era ricolta,
     A benché molti ne erano affondati,
     Ché non ne campò il terzo a questa volta;
     E questi che alla terra eno arivati,
     Son sbalorditi sì dalla fortuna,
     Che non san s’egli è giorno o notte bruna.

42 Ma tanto è forte il figlio de Ulïeno,
     Che tutta la sua gente tien diffesa,
     Come fu gionto asciutto nel terreno,
     E comincia dapresso la contesa;
     Tra’ Cristïan facea né più né meno
     Che faccia il foco nella paglia accesa,
     Con colpi sì terribili e diversi
     Che in poco d’ora quei pedon dispersi.

43 In quel tempo Arcimbaldo era tornato,
     Per condur sopra al litto e cavallieri,
     E giù callava in ordine avisato,
     Come colui che sa questi mestieri.
     Ogni penone al vento è dispiegato,
     Di qua di là se alciarno e cridi fieri;
     Il conte di Cremona avanti passa,
     Ver Rodamonte la sua lancia abassa.

44 Fermo in due piedi aspetta lo Africante;
     Arcimbaldo lo giunse a mezo il scudo,
     E non lo mosse ove tenìa le piante,
     Benché fu il colpo smisurato e crudo;
     Ma il Saracin, che ha forza de gigante,
     E teneva a due mane il brando nudo,
     Ferisce lui d’un colpo sì diverso,
     Che tagliò tutto il scudo per traverso.

45 Né ancor per questo il brando se arrestava,
     Benché abbia quel gran scudo dissipato,
     Ma piastra e maglia alla terra menava,
     E fecegli gran piaga nel costato.
     Certo Arcimbaldo alla terra n’andava,
     Se non che da sua gente fu aiutato,
     E fu portato a Monico alla rocca,
     Come se dice con la morte in bocca.

46 Tutti quei paesani e ogni pedone
     Fôr da’ barbari occisi in su l’arena,
     Che eran sei miglia e seicento persone:
     Non ne campâr quarantacinque apena.
     Li cavallier fuggîr tutti al girone:
     Non dimandar s’ogniom le gambe mena;
     Ma se quei saracini avean destrieri,
     Perian con gli altri insieme e cavallieri.

47 Sino al castel fu a lor data la caccia,
     Poi giù callarno quei pagani al mare,
     Il quale era tornato ora a bonaccia:
     Qua Rodamonte li fece aloggiare.
     Ciascun de aver la robba se procaccia
     Che somersa da l’onde al litto appare;
     Tavole e casse ed ogni guarnimento
     Sopra a quella acqua va gettando il vento.

48 Fôr le sue nave intra grosse e minute
     Che se partîr de Algier cento novanta;
     Meglio guarnite mai non fôr vedute
     Di bella gente e vittuaglia tanta;
     Ma più che le due parte eran perdute,
     Né se atrovarno a Monico sessanta;
     E queste più non son da pace o guerra,
     Ché ’l più de loro avean percosso in terra.

49 Morti eran tutti quanti e lor destrieri,
     E perduta ogni robba e vittuaglia;
     Rodamonte al tornar non fa pensieri,
     Né stima tutto il danno una vil paglia.
     Va confortando intorno e suoi guerreri
     Dicendo: - Compagnoni, or non vi incaglia
     Di quel che tolto ce ha fortuna o mare,
     Ché per un perso, mille io vi vuo’ dare.

50 E quivi non farem lungo dimoro,
     Ché povra gente son questi villani.
     Io vo’ condurvi dove è il gran tesoro,
     Giù nella ricca Francia a i grassi piani.
     Tutti portano al collo un cerchio d’oro,
     Come vedreti, questi fraudi cani,
     Sì che del perso non vi dati lagno,
     Ché noi siam gionti al loco del guadagno. -

51 Così la gente sua va confortando
     Re Rodamonte con parlare ardito;
     Questo e quello altro per nome chiamando,
     Gli invita a riposar sopra a quel lito.
     Or de Arcimbaldo vi verrò contando,
     Che nel castel di Monico è fuggito,
     Rotto e sconfitto ed a morte piagato,
     Come di sopra a ponto io ve ho contato.

52 Come alla rocca fu dentro alle mura,
     Al patre un messaggiero ebbe mandato,
     Che gli contasse di questa sciagura
     El fatto tutto, come era passato.
     De avvisar Naimo ancora ha preso cura,
     Qual già dentro a Marsilia era arivato,
     E mandò ad esso un altro messaggiero,
     Che gli raconta il fatto tutto intero.

53 Re Desiderio fu molto dolente,
     Quando egli intese la novella fiera;
     Uscitte de Savona incontinente,
     Spiegando al vento sua real bandiera;
     A Monico ne vien con la sua gente.
     Da l’altra parte il duca di Bavera
     Si mosse di Marsilia con gran fretta,
     Per far de’ Saracini aspra vendetta.

54 Ciascuna schiera a gran furia camina,
     Dico Francesi e gente italïana,
     E l’una vidde l’altra una matina
     Da due vallette non molto lontana.
     In mezo è Rodamonte alla marina,
     Dove accampata ha sua gente africana.
     Quel forte saracin dal crudo guardo
     Vidde nel monte gionto il re lombardo,

55 Con tante lancie e con tante bandiere
     Che una selva de abeti se mostrava;
     Tutta coperta di piastre e lamiere
     La bella gente il poggio alluminava.
     Cridando Rodamonte in voce altiere
     Chiama sua gente e l’armi dimandava,
     E in un momento fu tutto guarnito
     Di piastra e maglia il giovanetto ardito.

56 Fuor salta a piedi, e non avea destriero,
     Ché per fortuna l’ha perso nel mare.
     Or se leva a sue spalle il crido fiero
     Per l’altra gente che nel poggio appare,
     Io dico Naimo, Ottone e Belengiero,
     Che d’altra parte vengono arivare,
     Roberto de Asti e ’l conte di Lorena
     Con Bradamante, che la schiera mena.

57 Avanti a gli altri vien quella donzella,
     E bene al suo german tutta assomiglia;
     Proprio assembra Ranaldo in su la sella,
     E di bellezza è piena a meraviglia.
     Costei mena la schiera a gran flagella;
     Ma Rodamonte, levando le ciglia,
     Gionta la gente vede in ogni lato,
     Che quasi intorno l’ha chiuso e serrato.

58 A’ suoi rivolto con la faccia oscura,
     Disse: - Prendeti qual schiera vi piace,
     O questa o quella, ch’io non ne do cura;
     L’altra soletto, per lo Dio verace,
     Voglio mandare in pezzi alla pianura. -
     Così parlava quel giovane audace,
     Ma la sua gente, che ha per lui gran core,
     Verso e Lombardi è mossa con furore.

59 Trombe e tamburi a un tratto e cridi altieri
     Oditi fôrno intorno ad ogni lato;
     Re Desiderio e’ soi bon cavallieri
     Mena a roina il popol rinegato;
     A benché e Saracin eran sì fieri
     Per la prodezza del suo re appregiato,
     Che, ancor che fusser de’ Lombardi meno,
     Perdiano a palmo a palmo il suo terreno.

60 Ma in questo loco è la battaglia zanza,
     Dico a rispetto de l’altra vicina,
     Dove contra ai baron che eran di Franza
     Combatte Rodamonte a gran roina.
     Costui ben certo di prodezza avanza
     Quanta fôr mai di gente saracina;
     In guerra non fu mai tanto fraccasso,
     Però contar lo voglio a passo a passo.

61 Il duca Naimo, che è saggio e prudente,
     Come vede e nemici alla pianura,
     Fermò sopra del monte la sua gente,
     E divisela in terzo per misura.
     La schiera che venìa primeramente,
     Fu Bradiamante, ch’è senza paura;
     La figliola de Amon, quella rubesta,
     Venìa spronando con la lancia a resta.

62 E seco al paro il conte de Lorena,
     Ciò fu Ansuardo, de battaglia esperto,
     Che giù callando gran tempesta mena,
     E ’l conte de Asti, quel franco Roberto.
     Questa è la prima schiera, che è ben piena:
     Sedeci millia e più son per il certo.
     Poi mosse la seconda con gran crido,
     Sotto il duca Americo e il duca Guido.

63 L’un di Savoia e l’altro è di Bergogna,
     Ciascadun d’essi ha più franca persona.
     Contarvi e capitani mi bisogna:
     Con loro è gionto Bovo di Dozona;
     Per fare a’ Saracini onta e vergogna,
     Questa schiera seconda s’abandona;
     La terza guida Naimo il bon vecchione,
     E Avorio e Avino e Belengiero e Ottone.

64 Il padre e’ quatro figli a questa schiera
     Son posti di quel campo al retroguardo,
     Con tutta la sua gente di Baviera.
     Ora tornamo al saracin gagliardo,
     Che non avea stendardo né bandiera,
     Ma tutto solo a mover non fu tardo
     Contra alla gente che il monte discende;
     Solo ed a piede la battaglia prende.

65 Piacciavi, bei segnor, di ritornare
     Ad ascoltar la zuffa che io vo’ dire,
     Ché se mai prove odesti racontare
     E colpi orrendi e diverso ferire,
     E gente rotte a terra trabuccare,
     Tutto è nïente a quel ch’io vo’ seguire.
     Nel fin del canto tornerò ad Orlando:
     Adio, segnori; a voi mi racomando.