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Il Zuiderzee Groninga
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FRISIA.


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Mentre il bastimento s’avvicinava allo scalo, mi ricordai di quello che m’era accaduto ad Alkmaar, e pensando che forse mi sarei trovato nelle medesime péste ad Harlingen, per dove non avevo alcuna lettera di raccomandazione, mi turbai. E avevo ragione di turbarmi, poichè della lingua frisona, che è una mescolanza d’olandese, di danese e di vecchio sassone, presso che incomprensibile agli stessi Olandesi, io non capivo il bellissimo nulla; e sapevo per giunta che nella Frisia non si parla quasi punto il francese. Mi preparai dunque, con malinconica rassegnazione, a gesticolare, a far rider la gente e a lasciarmi condurre come un bambino, e mi posi a cercare cogli occhi in mezzo alla folla dei facchini e dei ragazzi che aspettavano i passeggieri sulla riva, una faccia più umana delle altre, a cui affidare la mia valigia e raccomandare la mia vita.

Prima che avessi trovata questa faccia, il [p. 418 modifica]bastimento si fermò e io discesi. Mentre stavo esitando fra due tarchiati frisoni che volevano impossessarsi della mia persona, mi sentii sussurrare nell’orecchio una parola che mi rimescolò il sangue: — il mio nome. — Mi voltai come se mi fossi inteso chiamare da uno spettro, e vidi un giovane signore, che sorridendo della mia meraviglia, mi ripetè in francese: “È lei il signor tale dei tali?” — “Son io,” risposi, “o almeno mi pare d’esser io, perchè a dirle la verità sono talmente stupito d’esser conosciuto da lei, che dubito quasi della mia identità. Che prodigio è questo?” — Il prodigio era semplicissimo. Un mio amico d’Amsterdam che m’avea accompagnato la mattina stessa al porto, aveva mandato un dispaccio, appena partito il bastimento, a un suo amico di Harlingen, per pregarlo di andare ad attendere allo scalo un forestiero alto, bruno e insaccato in un pastrano color cacao, il quale sarebbe arrivato verso sera, e avrebbe avuto gran bisogno d’un interprete e gran desiderio d’un compagno. Tutti i miei compagni di viaggio essendo biondi, l’amico dell’amico m’aveva subito riconosciuto, ed era venuto a cavarmi d’impiccio.

Se avessi avuto in tasca un collare dell’Annunziata, glielo avrei buttato al collo. Non avendolo, gli espressi la mia infinita gratitudine con un diluvio di parole, che lo fecero rimanere attonito, come direbbe il marchese Colombi, senza potere attribuire. Dopo di che, entrammo nella città, dove non intendevo di rimanere che poche ore.

[p. 419 modifica]Grandi canali pieni di bastimenti, larghe strade fiancheggiate da piccole case variopinte e nitide, pochissima gente fuor di casa, un silenzio profondo e non so qual aria di pace malinconica che fa pensare a mille cose lontane: tale è Harlingen, città di poco più di diecimila abitanti, fondata presso il luogo dov’era anticamente un villaggio che il mare distrusse nell’anno 1134. Fatto un giro per le strade, il mio compagno mi condusse a vedere le dighe, senza le quali la città sarebbe già stata cento volte sommersa, poichè tutto quel tratto di costa è esposto più d’ogni altro alle correnti e alle onde dell’alto mare. Le dighe sono formate da due file di palafitte smisurate, congiunte le une alle altre da grossi tronchi traversali, e tutte rivestite di grandi chiodi colla testa schiacciata, i quali le preservano dai piccoli animali marini che distruggono il legno. Fra queste palafitte ci sono delle assi fortissime, o piuttosto delle grandi travi segate in due, sprofondate nella sabbia, le une accanto alle altre; dietro queste assi una muraglia di massi ciclopici di granito rosso portati dalla provincia della Drenta; e dietro questa muraglia, ancora un robustissimo stecconato, che basterebbe da solo a trattenere le acque di un torrente furioso. Sopra questa diga si stende un viale alberato che serve di passeggio pubblico, di dove si vede il mare, qualche casa della città, e qualche albero di bastimento che sporge oltre i tetti. Quando vi passammo, l’orizzonte era ancora leggermente dorato da ponente e oscurissimo dalla parte [p. 420 modifica]opposta; non si vedeva nessuna barca in mare e nessun movimento nel porto; quattro ragazze ci passarono accanto a braccetto chiacchierando e ridendo, una si voltò; poi disparvero; la luna uscì da una nuvola; tirava un vento freddo, e noi passeggiavamo in silenzio. “Siete tristo?” mi domandò il compagno. “Punto,” risposi — e lo ero. Perchè? chi lo sa! Quanto m’è rimasto impresso nella mente quel luogo e quel momento! Chiudo gli occhi, rivedo ogni cosa, e sento l’odore del mare.


Il mio compagno mi condusse in un club, dove c’intrattenemmo fino all’ora della partenza del treno per Leuwarde, la capitale della Frisia. Era il primo frisone col quale avessi l’onore di parlare, e lo studiai. Era biondo, impettito, grave, come quasi tutti gli olandesi; ma aveva uno sguardo straordinariamente animato: parlava poco, ma diceva quelle poche parole con una rapidità e una forza, che lasciavano indovinare un carattere più vivace di quello dei suoi connazionali dell’altra riva del Zuiderzee. Il discorso cadde sull’antica Frisia e sull’antica Roma, e fu amenissimo, poichè avendo egli cominciato a parlare degli avvenimenti di quei tempi con una straordinaria serietà, come di casi seguiti pochi anni avanti, ed io dandogli spago, finimmo per discorrere tale e quale come s’egli fosse stato un frisone dei tempi di Olennio ed io un romano dei tempi di Tiberio, ciascuno facendo l’avvocato del suo paese. Io gli rinfacciavo i soldati romani messi in croce, ed egli [p. 421 modifica]mi rispondeva pacatamente che i provocatori eravamo stati noi, perchè fino a tanto che ci eravamo contentati di prelevare il tributo imposto da Druso, consistente in cuoi pur che fossero, essi non avevano rifiatato; e che se poi s’erano ribellati, l’avevan fatto perchè Olennio non si contentava più dei cuoi, e voleva i bovi, i campi, i ragazzi, le donne; e questo era un volerli assassinare. “Pacem exuere, dice lo stesso Tacito, nostra magis avaritia quam obsequii impatientes; e aggiunge che Druso ci aveva imposto un piccolo tributo, perchè eravamo poveri, pro angustia rerum. E se ai poveri rubavate i buoi e le terre, che cosa facevate ai ricchi?” — Quando m’accorsi che sapeva Tacito a memoria, battei in ritirata, e gli domandai amichevolmente se delle prepotenze dei miei padri egli serbava qualche rancore con me. — “Oh signore!” — rispose tendendomi una mano, come se gli avessi fatto quella domanda sul serio: “nemmeno per ombra!” — O sbaglio, — dissi tra me, — o di questa ingenuità nei nostri paesi non ce n’è più la semenza. — E non potevo finir di guardarlo, tanto mi pareva d’uno stampo differente dal mio.

Stemmo insieme fino a notte, e m’accompagnò alla stazione della strada ferrata, per andar poi ad assistere ad un concerto musicale. In quella piccola città di marinai, di pescatori e di mercanti di burro, c’era un concerto dato da quattro artisti, due tedeschi e due italiani, fatti venire espressamente dall’Aja, per sonare un par d’ore, al prezzo di [p. 422 modifica]duecentocinquanta fiorini! Dove questo concerto si facesse, in un città come Harlingen, tutta casette liliputtiane, non lo potevo capire, se non supponendo che i suonatori stessero in casa, e gli uditori nella strada; e domandai una spiegazione al mio compagno. “Una casa abbastanza grande c’è,” mi rispose: — Una! — pensai. O dove sarà questo colosso di casa, che non l’ho veduto? Attraversammo due o tre strade semioscure, ma un po’ più popolate che due ore innanzi, e arrivammo alla stazione. “Non ci vedremo mai più” mi disse quel franco e simpatico frisone stringendomi la mano. “Probabilmente mai più,” risposi. Stemmo un po’ guardandoci l’un l’altro, e poi ci dicemmo tutti e due insieme: — Addio! — e con questo triste saluto ci separammo. Egli andò al concerto, ed io partii per l’interno della Frisia.


La Frisia è tutta una pianura, d’un terreno misto di sabbia, d’argilla e di torba, bassa in ogni parte, e sopratutto a occidente, dove non di rado, verso la fine d’autunno, le acque del mare si spandono su grandi spazi. Vi sono moltissimi laghi, i quali formano come una catena a traverso tutta la provincia dalla città di Stavoren fino alla città di Dokkum. La campagna è coperta di vastissime praterie, e solcata in tutti i versi da larghi canali, lungo i quali pascolano, per nove mesi dell’anno, armenti innumerevoli non guardati nè da pastori nè da cani. Lungo il Mare del Nord, vi si trovano dei piccoli rialti di terreno, chiamati terpen, innalzati dagli [p. 423 modifica]antichi abitanti per rifugiarvisi coi loro armenti al montare delle maree, e su alcuni di questi rialti son fabbricati dei villaggi. Altri villaggi e città son costrutti su palafitte, in terre conquistate a poco a poco sul mare. La provincia ha duecento settantadue mila abitanti, che traggono non solo sostentamento, ma ricchezza dal commercio del burro, del formaggio, dei pesci, della torba, e comunicano agevolmente tra loro per via dei canali e dei laghi. Pochi alberi dietro i quali son nascoste le case campestri e i villaggi; qualche vela di bastimento; degli stormi di pavoncelle, di cornacchie e di corvi; e i bellissimi armenti che picchiettano d’infinite macchie nere e bianche il verde della campagna, sono le sole cose che attirino l’occhio su quella vasta pianura di cui un velo di vapori bianchi nasconde perpetuamente i confini. L’uomo che in quel paese ha fatto tutto, non si vede da nessuna parte, e pare un paese nel quale l’acqua viva e lavori da sè, e la terra non sia posseduta che dagli animali.


Arrivai a Leuwarde a notte fitta e trovai per buona ventura un albergo dove si parlava francese.

La mattina per tempissimo — credo che non ci fossero ancora cento persone levate in tutta la città — uscii, e mi diedi a girare per le strade deserte sotto una pioggiolina lenta e diacciata che arrivava alle ossa.

Leuwarde ha l’aspetto d’un grande villaggio. Le strade sono quasi tutte spaziosissime, percorse [p. 424 modifica]da larghi canali, e fiancheggiate da case straordinariamente piccine, colorite di rosa, di lilla, di cenerino, di verde chiaro, di tutti i colori di Broeck. I canali interni si congiungono con canali esteriori, i quali si stendono lungo i bastioni della città, e si collegano alla loro vòlta con altri canali, che conducono ai villaggi e alle città vicine. Vi sono piazze e crocicchi da grande città, che paiono anche più vasti per la piccolezza delle case, in moltissime delle quali le finestre sono a un palmo da terra e toccano quasi il tetto colla parte superiore. Per lunghi tratti di strada, se si ammucchiassero tutte insieme le case, non si formerebbe un edifizio di grandezza ordinaria. Pare una città antichissima, primitiva, fondata da un popolo di pescatori e di pastori, e a poco a poco ristaurata, dipinta, ingentilita. Ma nonostante i bei ponti, le botteghe ricche, le finestre adorne, il suo aspetto generale ha qualcosa di così esotico per un europeo del mezzogiorno, da fargli parer strano che gli abitanti portino il soprabito e il cappello cilindrico come noi. Di tutte le città della Neerlandia è quella in cui un italiano si sente più lontano dal suo paese. Le strade erano deserte, tutte le porte chiuse: mi pareva di girare per una città abbandonata e sconosciuta, che avessi scoperta io. Guardavo quelle strane casette e dicevo tra me, meravigliandomi, che pure là dentro ci dovevano essere delle signore eleganti, dei pianoforti, dei libri che anch’io avevo letti, delle carte geografiche d’Italia, delle fotografie di Firenze e di Roma. [p. 425 modifica]Girando di strada in strada, passai dinanzi all’antico castello dei governatori della Frisia, della casa di Nassau Diez, gli antenati della regnante famiglia d’Orange; scopersi una curiosissima prigione, un palazzo bianco e rosso, sormontato da un tetto altissimo, e decorato di colonnine e di statue, che gli dan l’aspetto d’un villino principesco; e infine riuscii in una gran piazza, dove vidi una vecchia torre di mattoni, ai piedi della quale si dice che cinquecento anni fa giungessero le acque del mare, e che ora è lontana più di dieci miglia dalla costa. Di qui, passando per altre strade pulite come salotti, in mezzo a due file di case di cui rasentavo le gronde coll’ombrello, ritornai nel centro della città.

In tutto quel giro non avevo visto altre donne che qualche vecchia scarmigliata e insonnita, che guardava il tempo dalla finestra; e ognuno può immaginare quanto fossi curioso di vedere le altre, non tanto per la loro celebre bellezza, quanto per la stranissima copertura di capo della quale avevo inteso parlare e letto descrizioni e trovato immagini in tutte le città dell’Olanda. La sera innanzi, arrivando a Leuwarde, avevo ben visto a una cantonata qualche testa di donna stranamente luccicante; ma l’avevo vista di sfuggita, al buio, e senza quasi badarci. Ben altra cosa doveva essere il vedere tutto il bel sesso della capitale della Frisia, in pieno giorno, a mio bell’agio. Ma come cavarsi questa curiosità? Il cielo prometteva la pioggia per tutta la [p. 426 modifica]giornata, le donne sarebbero probabilmente rimaste tappate in casa, io avrei dovuto aspettare fino alla mattina dopo, e l’impazienza mi divorava. Per fortuna mi venne una di quelle idee luminose che nelle grandi occasioni sbocciano anche nei cervelli più piccoli. Vedendo passare un musicante della guardia civica, col pennacchio in capo e la tromba sotto il braccio, mi ricordai ch’era l’anniversario della nascita del Re di Olanda, pensai che si dovesse radunare la banda musicale, che questa banda avrebbe percorso la città, che dove sarebbe passata tutte le donne avrebbero fatto capolino, e che perciò, mettendomi accanto al capo-banda come i monelli che accompagnano i reggimenti agli esercizi, avrei veduto quanto volevo. Dissi a me stesso: — Bravo! — e canterellando l’arietta «Che invenzione prelibata» del Barbiere di Siviglia, seguii il musicante. Arrivammo nella gran piazza dove la guardia civica s’andava raccogliendo intrepidamente sotto una pioggia dirotta, in mezzo a un centinaio di curiosi; in pochi minuti, il battaglione fu ordinato; il maggiore gettò un grido stridulo; la banda diede fiato agli strumenti; la colonna si mosse verso il centro della città. Io camminavo accanto al capo tamburo, ed ero beato.

S’aprirono le finestre delle prime case, e si affacciarono alcune donne colla testa tutta luccicante d’argento, come se fossero elmate; ed avevano infatti due larghe lastre d’argento che nascondevano affatto i capelli e coprivano una parte della fronte [p. 427 modifica]stringendo il capo come un casco di guerriero antico. Un po’ più oltre, s’affacciarono altre donne, quali col casco d’argento, quali col casco d’oro. Il battaglione svoltò in una delle strade principali, e allora su tutte le porte, a tutte le finestre, agli svolti delle strade, sulle soglie delle botteghe, dietro le cancellate dei giardini, comparirono caschi d’oro e d’argento, grandi e piccini, con velo e senza velo, tersi e sfolgoranti come celate d’armeria; mamme in mezzo a una nidiata di ragazzine, tutte col casco; vecchie cadenti, col casco; serve colla casseruola in mano, col casco; signorine che s’erano alzate allora dal pianoforte, col casco; Leuwarde pareva una immensa caserma di corazzieri sbarbati, una metropoli di regine spodestate, una città dove tutta la popolazione si preparasse ad una grande mascherata medioevale. Non posso dire lo stupore e il piacere che provavo dinanzi a quello spettacolo. Ogni nuovo casco che vedevo, mi pareva il primo, ridevo, e mi pareva che il capo tamburo, le guardie civiche e i monelli che avevo intorno, dovessero riderne con me. Tutti quei caschi coloravano di riflessi dorati e argentati i vetri delle finestre e le imposte inverniciate; brillavano confusamente nel buio delle stanze semi-aperte del pian terreno; apparivano e sparivano lampeggiando dietro le tendine trasparenti e i fiori dei davanzali. Passando accanto alle ragazze ritte sul marciapiedi della strada, rallentavo il passo, e vedevo riflessi sulle loro teste gli alberi, le botteghe, le finestre, il cielo, le guardie civiche, il mio [p. 428 modifica]viso. In mezzo a tutte quelle teste amabilmente terribili, su cui non si vedeva una ciocca di capelli, io collo staio e la capigliatura lunga, mi parevo un uomo imbelle e spregevole, a cui da un momento all’altro una di quelle austere frisone dovesse porgere per scherno il fuso e la rocca. — Ma che spedizione hanno in mente tutte codeste donne? — pensavo, celiando con me stesso. — A chi vogliono far la guerra? A chi intendono di metter paura? — A ogni passo vedevo qualche scena curiosa. Un ragazzo, per far stizzire una bambina, le appannava il casco col fiato, e quella subito s’affannava a ripulirlo colla manica, prorompendo in invettive, come un soldato a cui il compagno insudici qualche parte dell’armatura un momento prima della rivista del capitano. Un giovanotto, da una finestra, toccava colla punta d’un bastoncino il casco d’una ragazza affacciata alla finestra accanto, il casco risonava, i vicini si voltavano, la ragazza faceva il viso rosso e spariva. In fondo a un corridoio, una serva si aggiustava il casco guardandosi in quello d’una compagna gentilmente inchinata per farle da specchio. Nell’atrio d’una casa, che doveva essere un collegio, una cinquantina di ragazze, tutte col casco, si disponevano a due a due, in silenzio, come un drappello di guerriere che s’apparecchiassero a fare una sortita contro il popolo ribellato. E in ogni nuova strada che infilava la banda, pullulava da ogni parte, come a un richiamo di guerra, una nuova legione di quell’esercito stravagante e gentile.

[p. 429 modifica]Da principio, tanto ero assorto nella contemplazione dei caschi, che non avevo quasi badato ai volti di quelle Frisone, che hanno fama di essere le più belle donne dei Paesi Bassi, di discendere in diritta linea dalle antiche sirene del Mare del Nord, e di aver fatto andare in visibilio il gran cancelliere dell’Impero germanico; il quale non dev’essere di natura molto facilmente eccitabile. Riavuto dalla prima meraviglia dei caschi, mi diedi a considerare le persone; e debbo dire che ne vidi, come in tutti gli altri paesi, pochissime belle, ma queste degne veramente della fama. Son donne la maggior parte di alta statura, di larghe spalle, bionde, bianche, diritte come palme e gravi come antiche sacerdotesse, alcune di mani e piedi molto piccoli, e malgrado la loro gravità, sorridenti con una dolcezza che par davvero un riflesso lontano delle loro favolose progenitrici. L’elmetto argenteo, che stringendo e nascondendo i loro capelli, le priva del più bell’ornamento della bellezza, le rifà in parte di questo difetto, col mettere in mostra la nobile forma della loro testa, e col dare al loro viso dei lumeggiamenti bianchi e azzurrini d’una delicatezza inesprimibile. All’apparenza, non hanno ombra di civetteria.


Mi rimaneva però una grande curiosità, ed era di veder da vicino una di quelle belle teste olmate, e di sapere come questi elmi fossero fatti, e in che modo si mettessero, e che norme avesse quell’uso. [p. 430 modifica]A questo fine avevo una lettera per una famiglia di Leuwarde, la portai, fui ricevuto cortesemente in una bella casetta posta sull’orlo d’un canale, e scambiati appena i primi saluti, dimandai di vedere un casco, il che fece ridere di cuore i miei ospiti, perchè quella è immancabilmente la prima domanda che rivolgono tutti gli stranieri arrivati in Frisia ai primi Frisoni che hanno la fortuna di conoscere. Per tutta risposta, la padrona di casa, una signora colta e gentilissima, che parlava con molto garbo il francese, tirò il cordoncino d’un campanello, e comparve subito una ragazza col casco d’oro e la veste lilla, a cui essa accennò di venire innanzi. Era la serva: una ragazza alta come un granatiere, robusta come un atleta, bianca come un angelo, fiera come una principessa. Capì di volo che cosa volevo e mi si piantò davanti colla testa alta e cogli occhi bassi. La signora mi disse che si chiamava Sofia, che aveva diciott’anni, ch’era promessa sposa e che il casco gliel’aveva regalato il suo fidanzato.

Domandai di che metallo fosse il casco.

“D’oro!” rispose la signora quasi meravigliandosi della mia domanda.

“D’oro!” esclamai alla mia volta. “Scusi; abbia la compiacenza di domandarle quanto costa.”

La signora interrogò in lingua frisona Sofia, e poi rivolgendosi a me: “Costa,” mi disse, “senza le spille e senza la catenella, trecento fiorini.”

“Seicento lire!” esclamai. “Scusi ancora: vorrei sapere qual’è la professione del suo fidanzato.”

[p. 431 modifica]“Segatore di legna,” rispose la signora.

“Segatore di legna!” ripetei, e pensai con raccapriccio allo spessore del libro che avrei dovuto scrivere per poter vincere di splendidezza quel segatore di legna.

“Non hanno però tutte il casco d’oro,” soggiunse la signora. “I fidanzati che han pochi quattrini ne regalano uno d’argento. Le donne e le ragazze povere l’hanno di rame dorato, o d’argento sottilissimo, che costa pochi fiorini. Però la grande ambizione è d’averlo d’oro, e a questo fine si lavora, si risparmia, si sospira per anni interi. Se poi dovessi parlarle delle gelosie, io che ho la cameriera col casco d’argento e la serva col casco d’oro, ne potrei dire qualche cosa.”

Le domandai se portavano il casco anche le signore. Mi rispose che non lo portavano più, fuor che pochissime; ma che tutte, anche delle prime famiglie, si ricordano d’averlo veduto alle loro nonne e alle loro madri; ed eran caschi cesellati e tempestati di diamanti che costavano un subisso. Anticamente però non si portavano caschi, ma solo una sorta di diademi molto sottili, d’argento o di ferro, senza ornamenti, i quali, a poco a poco, si andarono allargando fino a coprire tutta la parte anteriore del capo. Ora, come tutte le mode che cominciano a decadere quando sono giunte all’esagerazione, anche il casco decade. Alle donne comincia a rincrescere di non poter mostrare i loro bei capelli biondi. Oltre questo, il casco produce il triste effetto di [p. 432 modifica]affrettare la calvizie, tanto che molte donne, in età ancor fresca, hanno già delle piazzate che metton paura. I medici, dal canto loro, dicono che quella continua pressione sul capo fa male al seno, e molti affermano che ne arresta lo sviluppo; il che non è difficile a credersi, poichè in fatti le donne frisone, robuste e carnose come sono, hanno per lo più un rilievo leggerissimo là dove è bello il vedere una curva audace. Tutte queste ragioni hanno indotto anni sono parecchie signore della provincia di Groninga, dove è pure in uso quella copertura di capo, a formare una specie di propaganda contro quell'uso, smettendolo esse per le prime; dopo di che moltissime altre lo smisero. Passeranno però molti anni prima che tutti i caschi siano spariti. Le serve, le contadine, la maggior parte delle donne del mezzo ceto, lo portano ancora. V'è la parte pro e la parte contro. Questa guadagna terreno lentissimamente, e quella si difende con ostinazione.

Desideravo di vedere il casco di Sofia, ma era coperto dal solito velo di trina, e non osavo farla pregare che se lo toghesse. Le presi il velo per l’orlo colla punta delle dita e spiegando la parola col gesto, le domandai se lo potevo alzare.

“Lo alzi pure,” mi disse la signora, traducendo la risposta della ragazza.

Lo alzai.

Dei del cielo, che bianchezza! Paragonai quel collo, ch’era tutto scoperto, col velo che tenevo in [p. 433 modifica]mano, e rimasi incerto di quale dei due fosse più bianco.

Il casco di Sofia era assai diverso dai caschi di argento che avevo visti per le strade; anzi, per dire il vero, questo nome di casco non conviene che a quei d’oro, poichè gli altri, sebbene presentino, a chi li guarda di fronte, il medesimo aspetto di caschi, non ne hanno punto la forma. Questi son fatti di due lastre quasi circolari, congiunte da un cerchietto flessibile di metallo che passa dietro il cocuzzolo, e ornate di due grandi bottoni cesellati che riescono sulle tempie. Queste due lastre non coprono che la parte anteriore del capo. I caschi d’oro invece sono un larghissimo cerchio che abbraccia tutta la testa, fuorchè il cocuzzolo, e si allarga ancora alle estremità fino a non lasciar più vedere che una piccolissima parte della fronte. La lamina è sottile e flessibile come carta di Bristol in modo che si può adattare facilmente a teste di diversa grandezza. Sotto questo casco (anco sotto quei d’argento) portano una specie di cuffia nera, che serra i capelli come un berretto da notte; e sopra il casco, un’altra sorta di cuffia di trina, che scende fin sulle spalle. Su questa seconda cuffia molte donne mettono ancora un cappellino indescrivibile, ornato di fiori e di frutti finti, o un cappello Pamela. Prima di mezzo giorno, stando in casa o uscendo per faccende, le donne del popolo portano il casco senz’altro; la cuffia e il cappello se lo mettono per andare alla passeggiata.

[p. 434 modifica]Mentre osservavo il casco della ragazza, la signora mi parlava di certi usi singolarissimi che si ritrovano ancora nella campagna della Frisia.

Quando un giovane si presenta in una casa per domandare la mano d’una ragazza, questa gli fa subito capire se lo accetta o non lo accetta per sposo. Se lo accetta, esce dalla stanza e vi ritorna poco dopo col casco. Se non si va a mettere il casco vuol dire che il giovane non le piace, e ch’essa non acconsente a diventare sua regina. Gli amanti sogliono regalare alle loro fidanzate dei legacci da calze, sui quali sono iscritte delle sentenze, delle parole d’amore e degli auguri di felicità. Qualche volta l’innamorato presenta alla ragazza un fazzoletto annodato con iscrizioni nel nodo e dentro monete o gingilli. Se la bella lo scioglie, s’intende che accetta la mano del giovane; se non lo scioglie, s’intende che la ricusa. L’onore più ambito dagli amanti è quello di poter legare lo zoccolo, o patino che si voglia dire, al piede della loro diva; la quale li ricompensa di questa cortesia con un bacio. Del resto, giovani e ragazze godono della più ampia libertà. Vanno a passeggiare insieme come marito e moglie, e rimangono sovente soli in casa, per parecchie ore, di notte, dopo che il padre e la madre sono andati a letto. — E non si hanno mai da pentire di esserci andati troppo presto? domandai: “Il fallo,” mi rispose la signora “è sempre riparato.”

Durante tutti questi discorsi, la bella frisona era sempre rimasta seria ed immobile come una statua. [p. 435 modifica]Prima che se n’andasse, le dissi, per ringraziarla con un complimento, che era una delle più belle guerriere della Frisia, e pregai la signora di tradurle quelle parole. Le ascoltò col viso serio e diventò rossa fino ai capelli; poi, come se ci avesse pensato meglio, sorrise leggerissimamente, e fatto un mezzo inchino uscì dalla stanza, ritta, lenta e maestosa come una regina di tragedia.

Grazie alla cortesia dei miei ospiti, vidi un piccolo Museo d’antichità nazionali della Frisia, formato da pochi anni, e già ricco di moltissimi oggetti preziosi. Profano come sono a questi studi, non feci che sogguardare le medaglie e le monete, e mi trattenni particolarmente dinanzi agli antichi zoccoli dei patinatori, ai rozzi diademi da cui derivarono i caschi, e a certe strane pipe trovate nella terra a una grande profondità, le quali paiono anteriori all’uso del tabacco, e si crede servissero a fumare la canapa. Ma il più curioso oggetto del Museo è un cappello da donna, ch’era in uso sulla fine del secolo scorso, un cappello così spropositato e così ridicolo, che se l’antiquario che me lo mostrò, non m’avesse assicurato d’averne visto ancor uno, coi suoi occhi, sul capo d’una vecchia signora di Leuwarde, non sono molti anni, in occasione di una festa per l’arrivo del re d’Olanda, avrei creduto impossibile che delle creature ragionevoli si fossero mai incappellate in quella maniera. Non è un cappello, è una tenda, un baldacchino, una tettoia, sotto la quale si potrebbe riparare dalla [p. 436 modifica]pioggia e dal sole un’intera famiglia. Si compone di un cerchio di legno, grande due volte uno degli ordinari tavolini da caffè, e d’un cappello di paglia munito d’una tesa della stessa grandezza, mancante da una parte, in modo che presenta la forma d’un semicircolo. Il cerchio è ornato di una lunga frangia, ed ha una piccola apertura, nella quale entra la testa, e vi si assicura non so come. Quando il cerchio è assicurato, il cappello, che è una cosa a parte, vi si posa su e vi si stende come una tela sull’armatura d’una baracca, e l’edifizio è compiuto. Quest’edifizio, quando le signore entravano in chiesa, lo scomponevano, per non ingombrare troppo spazio, e lo rifabbricavano al momento d’uscire, e il cappello pareva grazioso, e l’operazione comodissima. Tanto è vero il proverbio, che tutti i gusti son gusti.


Un cortese frisone, al quale ero raccomandato da un amico dell’Aja, mi condusse in campagna per vedere le case dei contadini. Ci dirigemmo da Leuwarde verso la città di Freek, a traverso uno dei tratti più fertili della Frisia, per una bella strada ammattonata e pulita come un marciapiede di Parigi; e arrivammo, dopo un breve cammino, a una casa dinanzi alla quale il mio compagno s’arrestò e disse in tuono grave: “Ecco il friesche hiem del contadino frisone, la vecchia fattoria degli antenati.” Era una casa di mattoni, con le persiane verdi e le tendine bianche, coronata d’alberi e posta in mezzo a un giardinetto circondato da un fosso pieno [p. 437 modifica]d’acqua. Accanto a questa casetta, c’era un fienile formato di gigantesche travi di pino di Norvegia e coperto da un enorme tetto di canne; e in questo fienile la stalla, difesa da una gran parete di legno. Entrammo nella stalla. Le vacche, come nella Nord-Olanda, non hanno strame, e sono unite a due a due, colla coda legata alle travi del soffitto, perchè non s’insudicino. Dietro di esse corre un rigagnolo profondo che porta via le immondizie. Il pavimento, le pareti, gli animali stessi sono pulitissimi, e non mandano punto cattivo odore. Mentre io osservavo in ogni parte quel salotto animalesco, il mio compagno, che era un erudito agronomo, mi dava dei preziosi ragguagli intorno alla campagna frisona. In un podere di trenta o trentacinque ettari si suol tenere un cavallo e settanta bestie bovine. Per ogni ettare c’è una vacca da latte, e in quasi tutti i poderi otto o dieci grandi pecore, col latte delle quali si fanno dei piccoli formaggi cercati come una ghiottoneria sopraffina in tutte le città della Frisia. Tuttavia il prodotto principale, in Frisia, non è il formaggio, come nella Nord-Olanda; ma il burro. La stanza dove si fa il burro è il penetrale sacro della casa dei contadini. C’entrammo, e non fu piccola concessione quella che ci venne fatta, perchè i profani sono pregati per il solito di fermarsi sulla soglia della porta. Era una stanza pulita come un tempietto e fresca come una grotta, nella quale si vedevano molte file di vasi di rame pieni fino all’orlo di latte munto allora allora, e già coperto di [p. 438 modifica]un denso strato di fiore. La zangola era messa in movimento da un cavallo, come s’usa in quasi tutta la Frisia. A una parete era appeso un termometro, le finestre erano ornate di tendine, e sul davanzale si vedeva un bel vaso di giacinti. Questo burro di Frisia è così squisito, mi diceva il compagno, che sul mercato di Londra, dove se ne porta una quantità immensa, si vende a un prezzo esorbitante. Anno per anno se ne raccolgono nei varii mercati della provincia da sette a otto milioni di chilogrammi. Il burro è posto in certi bariletti di quercia di Russia, del peso di venti o quaranta chilogrammi ciascuno, che vengono portati al Peso Municipale delle città, della Frisia. Qui un perito li esamina, li assaggia, li pesa e poi ci mette il suggello delle armi della città; dopo la quale operazione sono trasportati ad Harlingen, e caricati sopra uno steamer, che li reca sulle rive del Tamigi. Questa è la nostra ricchezza, concluse il cortese frisone, colla quale ci consoliamo della mancanza delle palme e degli aranci che avete voi, prediletti dalla natura. E terminò, a proposito di aranci e di burro, raccontandomi di quel generale spagnuolo, che un giorno mostrò un arancio a un contadino frisone e gli disse con orgoglio: “Questo è un frutto che il nostro paese produce due volte all’anno!” e il contadino, ponendogli sotto gli occhi un pane di burro, gli rispose: “E questo è un frutto che il nostro paese produce due volte al giorno!” E il generale rimase senza parola.

[p. 439 modifica]Il contadino che ci accompagnava, ci permise di dare una capatina in una stanza dove sua moglie e la sua figliuola, l’una col casco d’oro e l’altra col casco d’argento, lavoravano sedute di qua e di là d’un tavolino. Pareva una stanza apparecchiata appositamente per gli stranieri curiosi. V'erano dei grandi armadi di forma antica, degli specchi colle cornici dorate, delle porcellane chinesi, dei vasi da fiori scolpiti, delle argenterie esposte sugli stipi. “E il meno è quello che si vede,” mi susurrò nell’orecchio il mio compagno, vedendomi dar segno di meraviglia. “Quegli armadi sono pieni di biancheria, di gioielli, di vesti di seta; e vi son dei contadini che hanno i piatti, le tazze, le caffettiere d’argento; e ve n’è persino di quelli che si fan fare le posate e le scatole da tabacco d’oro massiccio. Guadagnano molto, vivono economicamente, e spendono il frutto dei loro risparmi in oggetti di lusso.” Questo spiega perchè nei più piccoli villaggi ci sian delle botteghe di gioiellieri quali non si trovano in molte grandi città europee. Ci son contadine che comprano delle collane di corallo del valore di mille lire e che hanno nelle loro cassette per più di diecimila fiorini tra anelli, buccole, spille, gingilli. E vivono economicamente, è vero, durante la maggior parte dell’anno; ma i giorni di grandi feste, nelle occasioni di matrimonio, al tempo delle Kermesses, quando vanno in città per divertirsi, s’installano nei primi alberghi, pigliano i più bei palchi al teatro dell’opera e stappano tra un atto e l’altro [p. 440 modifica]delle brave bottiglie di Champagne. Un contadino che possegga un capitale di centomila lire non passa punto per ricco, poichè sono moltissimi quei che ne possedono duecento mila, trecento mila, un mezzo milione, ed anche molto di più.

Il carattere di questi contadini (e quello che si dice dei contadini si può dire di tutti i Frisoni) è per testimonianza universale ed antica, maschio, aperto, generoso. — Che peccato che non siate un Frisone! — dicono a una persona che stimano. Sono alteri della nobiltà della loro razza, che credono la prima della grande famiglia germanica, e si vantano d’essere il solo popolo di quella famiglia, che abbia conservato il suo nome dopo i tempi di Tacito. Molti credono ancora che il loro paese sia stato chiamato Frisia da Frisio, figliuolo di Alano, fratello di Mesa, nipote di Sem, e s’inorgogliscono di quest’origine antica. L’amore della libertà è il loro sentimento dominante. «I Frisoni, — dice il loro vecchio codice, — saranno liberi fin che i venti soffieranno nelle nuvole e fin che durerà il mondo.» È la Frisia, infatti, che manda al Parlamento i deputati più arditi della parte liberale. La popolazione è quasi tutta protestante, e gelosissima della sua fede, e non meno che della fede, della lingua, illustrata da un grande poeta popolare, e coltivata tuttora con grande amore. Il contadino in particolare, dice il Laveleye, cita con alterezza gli uomini illustri che nacquero sotto l’hiem frisone, i due poeti Gisberto Japhis e Salverda, il filologo Tiberio [p. 441 modifica]Hemsterhuis e suo figlio Frans, l’amabile e profondo filosofo che la signora di Staël chiamava il Platone olandese.

Strada facendo verso Leuwarde, incontrammo parecchi carri di contadini tirati da quei famosi cavalli frisoni, che si dicono i primi trottatori del mondo. Hanno il pelo nero, il collo lungo, la testa piccina e piena di vita. I più belli son quelli allevati nell’isola di Ameland. Resistono meravigliosamente alla fatica; servono insieme al tiro e alle corse, e cosa singolare in un paese dove tutto si muove placidissimamente, i loro flemmatici padroni li fanno andar sempre di trotto serrato, anche per tirare i carri del fieno, e quando non han punto premura di arrivare. Le corse di questi cavalli, che si chiamano le harddraveryen, sono uno spettacolo antico e caratteristico della Frisia. In tutte le piccole città si prepara un’arena divisa in due vie parallele e diritte, sulle quali i cavalli corrono successivamente a due a due, e poi lottano fra loro i vincitori di ciascuna corsa fin che uno li abbia vinti tutti, e questo ottiene il premio. Il popolo accorre in gran folla a questo spettacolo, e l’accompagna con applausi e grida festose, come alle gare dei patinatori.

Arrivando a Leuwarde ebbi il più bello e più inaspettato incontro che potessi immaginare: un corteo nuziale di contadini. Erano più di trenta carrozze, tutte colla cassa della forma d’una conchiglia, altissime, coperte di dorature e di fiorami [p. 442 modifica]dipinti, e tirate da robusti cavalli neri, su ciascuna delle quali stava seduto un contadino vestito in gala, e una donnina rosea col casco d’oro e il velo bianco. I cavalli andavano di gran trotto, le donne, strette al braccio dei loro compagni, gettavano confetti ai ragazzi della via, le trine sventolavano, i caschi mandavan lampi. Il corteo s’allontanò e disparve come una cavalcata fantastica in mezzo a un frastuono di risa, di schiocchi e di voci festose.


La sera, a Leuwarde, mi divertii a veder passare dinanzi alla porta dell’albergo le donne e le ragazze dalla testa luccicante, come un generale ispettore alla così detta rassegna annuale, quando i soldati sfilano uno per uno con armi e bagaglio. A un certo punto però, osservando che andavan tutte dalla stessa parte, seguii la corrente e riuscii in una vasta piazza, dove suonava una banda musicale, in mezzo a una gran folla, davanti a un edilizio con tutte le finestre illuminate, alle quali s’affacciavano di tratto in tratto dei signori in cravatta bianca, che dovevano essere là per un pranzo ufficiale. Benchè piovigginasse, la gente rimaneva immobile, e le donne essendo tutte in prima fila, formavano intorno alla banda un gran cerchio di caschi, che da lontano, al lume dei fanali e a traverso il velo della nebbia, pareva davvero una schiera di corazzieri a piedi, che tenesse indietro la folla. Mentre la banda suonava, una ventina di soldati di fanteria, raggruppati in un angolo della piazza, l’accompagnavano [p. 443 modifica]col canto, agitando il berretto e saltellando ora sur una gamba ora sull’altra cogli atteggiamenti grotteschi degli ubbriachi dello Steen e del Brouwer. La folla li guardava, e m’immagino che lo spettacolo le paresse straordinariamente bello e dilettevole, perchè rideva dai precordi, si alzava in punta di piedi, accennava, esclamava, applaudiva. Io mi fermai a osservare qualche bel viso di Frisona, che quando si vedeva guardata, mi vibrava uno sguardo pieno di orgoglio guerresco, e poi me n’andai a far conversazione con un libraio, cosa gradevolissima in Olanda, dove i librai sono generalmente molto colti e molto cortesi.


La notte, all’albergo, non potei quasi chiuder occhio per cagione d’uno scellerato pianista di campanile, il quale, forse perchè soffriva d’insonnia, si prese il barbaro piacere di dare alla città addormentata un saggio di tutte le opere del Rossini e di tutte le canzoni popolari dei Paesi Bassi. Non ho ancora parlato del meccanismo di questi organetti aerei, ed ecco com’è congegnato. L’orologio del campanile mette in movimento un piolo, il quale alla sua volta fa girare una ruota e un cilindro munito di cavicchi, simile a quello d’un organo di Barberia. A questi cavicchi, disposti nell’ordine voluto dalla melodia, sono attaccati dei fili di ferro i quali sollevano i battagli delle campane e i martelli che le percuotono. Quando suonan le ore, risponde un’arietta determinata; ma togliendo il cilindro, [p. 444 modifica]si possono suonare tutte le arie che si vuole, per mezzo di molle mosse da due tastiere, una delle quali si preme colle mani e l’altra coi piedi. Il suonare in questa maniera richiede una forza e uno sforzo considerevole, poichè alcuni dei tasti vogliono una pressione equivalente al peso di due libbre; eppure, è tale il piacere che i campanari trovano in questa musica, e che suppongono ci trovino anche gli altri, che suonano per ore intere con un vigore e una passione degna veramente di più grata armonia. Io non saprei dire se quel campanaro di Leuwarde suonasse bene; ma son certo che doveva avere dei muscoli erculei e una spaventosa passione per il Rossini. Dopo avermi addormentato col Barbiere, mi svegliò colla Semiramide, poi mi riaddormentò coll’Otello, poi mi fece riaprir gli occhi col Mosè, e così di seguito. Era una gara fra noi due, egli a vibrarmi delle note e io a scagliargli delle maledizioni. Cessammo tutti due insieme a un’ora molto avanzata della notte, e non so, se avessimo fatto il conto, quale dei due sarebbe rimasto creditore. La mattina mi lamentai col cameriere, un olandese flemmatico, a cui credo che nessun rumore del cielo o della terra aveva mai turbato la dolcezza del sonno. “Ma sapete” gli dissi, “che questa vostra musica dei campanili è molto importuna?” — “Come,” mi rispose innocentemente, “non ha osservato che ci sono tutte le ottave coi tuoni e coi semi-tuoni?” — “Proprio?” gli dissi coi denti stretti. “Allora il caso è diverso: scusate.”

[p. 445 modifica]La mattina per tempo partii per Groninga, recando con me, malgrado la persecuzione della musica, un caro ricordo di Leuwarde e delle poche persone che ci avevo conosciute, amareggiato però da un rammarico che mi dura ancora: quello di non aver visto scivolare sul ghiaccio le belle, ardite e severe figlie del Nord, che passano, come dice Alfonso Esquiroz, avvolte in una nuvola e coronate d’un nembo d’oro e di trine, simili a figure fantastiche intravvedute sognando.


La pianura olandese, che veduta la prima volta, desta un senso vago e gradevole di malinconia, e presenta nella sua uniformità mille aspetti nuovi e mirabili, che divagano l’immaginazione, finisce però col generare stanchezza e noia anche in chi sia per natura meglio inclinato a comprendere e a godere la sua maniera particolare di bellezza. Vien sempre un giorno, in cui lo straniero che viaggia in Olanda, sente improvvisamente un desiderio irresistibile di altezze che gli facciano sollevare gli occhi e il pensiero; di curve su cui lo sguardo possa salire, precipitare, aggirarsi; di forme che l’immaginazione possa animare con quelle vaghe e meravigliose rassomiglianze di dorsi di leoni, di fianchi di donne, di profili di visi e d’edifizi, che presentano i poggi, i monti, le rupi del suo paese. La mente e gli occhi sono sazi di spaziare e di smarrirsi per quel mare sconfinato di verzura: hanno bisogno di cime, d’abissi, d’ombre, di [p. 446 modifica]azzurro, di sole. Allora si è veduto abbastanza l’Olanda e si pensa alla patria con amore impaziente.

Provai per la prima volta questo sentimento andando da Leuwarde a Groninga, capitale della provincia del medesimo nome. Uggito di vedere, a traverso la nebbia, praterie dopo praterie e canali dopo canali, mi raggomitolai in un cantuccio del vagone e mi diedi a pensare ai poggi della Toscana e alle colline delle sponde del Reno, nello stesso modo che maestro Adamo di Dante pensava ai ruscelletti del Casentino. A una piccola stazione posta a mezza strada fra le due città, salì nel vagone un uomo che mi parve a primo aspetto, ed era infatti un contadino, biondo, corpacciuto, color di cacio fradicio, come dice il Taine dei contadini olandesi, vestito pulitissimo, con una gran ciarpa di lana intorno al collo e una grossa catena d’oro al panciotto. Mi diede un’occhiata benevola e mi sedette davanti. Il treno ripartì. Io continuavo a pensare alle mie colline, e di tratto in tratto mi voltavo a guardar la campagna colla speranza di qualche cangiamento di paesaggio, e vedendo sempre pianura, facevo, senz’accorgemene, un atto che voleva dire che ero ristucco. Il contadino guardò per qualche tempo ora me ed ora la campagna; poi sorrise, e pronunziando le parole con grande sforzo, mi disse in francese:

“Noioso..... non è vero?”

Gli risposi in fretta di no, che non m’annoiavo punto, che anzi la campagna olandese mi piaceva.

“Eh no.....” riprese sorridendo, “noioso: tutto [p. 447 modifica]piano,” e accennava con tutt’e due le mani; “non c’è montagne.”

Dopo qualche momento, impiegato a tradurre mentalmente il suo pensiero, mi domandò, accennandomi col dito: “Di che paese?”

“D’Italia,” risposi.

“Italia,” ripetè sorridendo. “Ci son molte montagne?”

“Moltissime,” risposi, “da coprirne tutti i Paesi Bassi.”

“Io,” soggiunse, accennando sè stesso, “non ho mai visto una montagna in vita; non so che sia; nemmeno le colline della Gheldria.”

Un contadino che parlava francese per me era già una cosa straordinaria; ma un uomo che non aveva mai visto nè una montagna nè una collina, mi pareva una creatura favolosa. Perciò lo interrogai, e gli cavai di bocca delle cose assai strane.

Egli non era mai stato più lontano che ad Amsterdam, non aveva mai veduto neanco la Gheldria, che è la sola provincia montuosa della Neerlandia; e perciò non aveva idea di che cosa fosse una montagna, se non per le immagini che ne aveva viste nei quadri e nei libri. Le più grandi altezze a cui si fossero mai sollevati i suoi occhi erano le punte dei campanili e le cime delle dune. E quello ch’era di lui, è di migliaia d’Olandesi, i quali dicono: — Vedrei volentieri un monte, — come noi diremmo — Vedrei volentieri le piramidi d’Egitto. — Mi disse in fatti che appena avesse potuto, sarebbe andato a [p. 448 modifica]vedere il Wiesselschebosch. Gli domandai che cosa fosse il Wiesselschebosch. Mi rispose che era una montagna della Gheldria, vicina al villaggio di Apeldoorn, una delle più alte del paese. “Quanto è alta?” domandai. “Cento e quattro metri,” mi rispose.

Ma quel buon uomo doveva ben altrimenti farmi stupire.

Di lì a qualche momento mi ridomandò: “Italia?”

“Italia,” ripetei.

Stette un po’ pensando, e poi disse: “Fu respinta la legge sull’istruzione obbligatoria, vero?”

Oh cospetto! — dissi tra me; — stiamo a vedere che è abbonato alla Gazzetta ufficiale. In fatti, pochi giorni prima la Camera aveva respinto il progetto di legge per l’istruzione obbligatoria.

Gli risposi quel poco che sapevo.

Dopo un po’, sorrise, cercò, mi parve, una frase, e poi mi domandò:

“E Garibaldi continua.....” qui fece l’atto di zappare, e poi soggiunse: “.....la sua isola?”

Un’altra! “Continua,” risposi, e lo guardai con tanto d’occhi, stentando a persuadermi che fosse un contadino, benchè non ci potesse esser dubbio.

Stette un po’ senza parlare e poi disse:

“Voi,” e appuntò il dito verso di me, “avete perduto un grande poeta.”

A questa uscita, poco mancò che non facessi un salto.

“Sì, Alessandro Manzoni,” risposi; “ma come diamine sapete tutte queste cose?”

[p. 449 modifica]Or ora, pensai, costui mi mette sul tappeto la questione dell’unità della lingua.

“Ma ditemi un po’,” gli domandai, “sapreste per caso anche la lingua italiana?”

“No, no, no,” rispose scrollando la testa e ridendo; “niente, niente.”

Detto questo, continuò a ridere e ad almanaccare, e mi parve di capire che mi preparasse qualche sorpresa. Intanto il treno si avvicinava a Groninga. Quando fummo per entrare sotto la tettoia della stazione, il buon uomo prese il suo involto, mi guardò di nuovo sorridendo, e segnando le sillabe coll'indice della mano destra, mi disse in italiano, con una pronunzia impossibile ad esprimersi, e coll’aria di chi fa una grande rivelazione:

“Nel mezzo!”

“Nel mezzo?” gli domandai meravigliato. “Nel mezzo di che cosa?”

“Nel mez - zo del cam - min di no - stra vi - ta!” disse facendo un grande sforzo e saltando giù dal vagone.

“Un momento!” gli gridai; “Sentite! Una parola! Come mai.....”

Era scomparso.

Avete capito che razza di contadini c’è in Olanda? E dico, potrei far sacramento che non ho aggiunto una mezza parola di mio.

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