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opposta; non si vedeva nessuna barca in mare e nessun movimento nel porto; quattro ragazze ci passarono accanto a braccetto chiacchierando e ridendo, una si voltò; poi disparvero; la luna uscì da una nuvola; tirava un vento freddo, e noi passeggiavamo in silenzio. “Siete tristo?” mi domandò il compagno. “Punto,” risposi — e lo ero. Perchè? chi lo sa! Quanto m’è rimasto impresso nella mente quel luogo e quel momento! Chiudo gli occhi, rivedo ogni cosa, e sento l’odore del mare.


Il mio compagno mi condusse in un club, dove c’intrattenemmo fino all’ora della partenza del treno per Leuwarde, la capitale della Frisia. Era il primo frisone col quale avessi l’onore di parlare, e lo studiai. Era biondo, impettito, grave, come quasi tutti gli olandesi; ma aveva uno sguardo straordinariamente animato: parlava poco, ma diceva quelle poche parole con una rapidità e una forza, che lasciavano indovinare un carattere più vivace di quello dei suoi connazionali dell’altra riva del Zuiderzee. Il discorso cadde sull’antica Frisia e sull’antica Roma, e fu amenissimo, poichè avendo egli cominciato a parlare degli avvenimenti di quei tempi con una straordinaria serietà, come di casi seguiti pochi anni avanti, ed io dandogli spago, finimmo per discorrere tale e quale come s’egli fosse stato un frisone dei tempi di Olennio ed io un romano dei tempi di Tiberio, ciascuno facendo l’avvocato del suo paese. Io gli rinfacciavo i soldati romani messi in croce, ed egli