Novella di Dioneo e Lisetta
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DIONEO
e
L I S E T T A
NOVELLA
Perocchè gli accidenti del lusinghevole amore, gli avvenimenti della instabile fortuna sono varii molto, avviene che malagevolmente da’ suoi colpi si possono i mortali schermire, onde spesse fiate, come nelle istorie antiche si legge, avvenne che di coloro eziandio, li quali dagli abitanti di questo secolo erano per Dei riputati, altri nelle amorose panie invescati, altri dagli empiti della ingiuriosa fortuna percossi rimasero. Non doverà dunque maraviglia parere a chiunque la presente novella leggerà, che lo Giovane di carne e d’ossa essendo, e oltre a ciò, naturalmente alle ardentissime fiamme del concupiscibile amore soggetto, ne’ lacci suoi strabocchevolmente caduto sia, come chiaramente in essa appare: la quale cosa ho voluto, quanto più semplicemente per me s’è potuto, in carte stendere, non già perchè io ne speri nè utile nè gloria alcuna conseguire, nè altro che forse pietà appo coloro agli orecchi de’ quali questo mio amoroso e fortunevole caso perverrà. Ma hollo fatto e per isfogar in parte la passione nell’animo mio da giustissimo sdegno conceputa, per le ingiurie da colei ricevute, la qual amando io non meno che la propria vita mia, a morte quasi mi condusse; e perchè, a giudizio mio, a niuno, o a pochi, simili accidenti a’ giorni nostri son accaduti. E chi negherà che questa mia picciola fatica non possa quando che sia ad alcuno e diletto e utile recare? certo niuno: conciossiachè la lezione degli accidenti passati spesse volte faccia cauti i viventi di quegli che possono avvenire. Sarete adunque contenti, o lettori, in iscambio di mercede, di pregare colui, la cui potenza è senza fine, che me e voi guardi dalle insidie delle malvagie femmine, la cui pessima natura, per esserne il mondo oggidì più che mai pieno, non piglierò al presente fatica di narrare, ma come male impiegato fosse l’amore d’un valoroso giovane in una perversa e misleale femmina, ed in qual guisa l’arte dall’arte schernita rimanesse, mi piace di raccontare: acciocchè i seguaci delle donne ciò leggendo, per la vendetta fattane da un di loro, delle ingiurie ricevute da una rea femmina, piacer ne sentano; e per l’avvenire degl’inganni e frode femminili fatti cauti, più malagevoli siano da esser da loro presi nelle amorose panie. E voi, gentili et amorose donne (perocchè a voi che la maggior parte dell’anima mia siete, non meno che agli amanti, voglio che sia indirizzata questa mia Novella) alle cui orecchie perverrà questo accidente, da questa esempio pigliando, e a costo di lei senno apparando, vaghezza non prenda di beffar altrui: perciocchè spesso addiviene che l’ingannatore rimane a piè dello ingannato.
Dioneo ama Lisetta, la quale, fingendo d'amar lui, con altro amante si sollazza, col quale trovar credendosi, con Dioneo si trova, e mal suo grado è costretta a compiacerli.
Dico adunque che egli non è molto tempo passato che in Vinegia fu una donna del corpo bella e grande, di color bruno, di animo altera, di acuto e ingannevole ingegno, di legnaggio nobile quanto alcuna altra che nella città fosse, il cui propio nome, nè ancora di alcuno altro che alla presente novella appartenga, non intendo di palesare: perciocchè ancora vivono tutti, e potrebbene riuscir scandalo quando fossero conosciuti: ma et non senza cagione la chiamerò Lisetta. Alla quale entrò in pensiero di tentare, se con gli atti e arte sua ella potesse recare ad innamorarsi di lei alcun giovane: o fosse perchè tutte le donne piacer prendono d’essere vagheggiate e tenute belle, o forse per dare affanno, e metter gelosia ad un suo amante, col quale ella molto spesso si ritrovava. Costei adunque avendo più volte posti gli occhi addosso ad un valoroso giovane, il quale col marito e fratelli di lei molto usava, sì bene seppe co’ sguardi, e altri atti suoi amorosi e lascivi movimenti fare, che Dioneo, (che così mi piace di chiamare il giovane) di lei sì fieramente s’accese, che qual giorno egli non la vedeva, si riputava il più sventurato uomo del mondo: ma per tema di non dare a vedere l'amor suo ad altro, che a lei, non pur non andava, ma non si era curato di saper dove ella s’andasse alla Messa, così dalla lunga seguitandola senza sospezione di nessuno. Ma la fortuna, che le più delle volte alle cose dannose presta si offerisce, volle che essendosi malata una delle sorelle di Lisetta, la qual molto domestica era di Dioneo, et essendo egli andato a vederla, trovovvi per avventura Lisetta; la qual similemente era quivi venuta per visitar la sorella. Ora quanto caro fosse a Dioneo d’averla quivi trovata, non è da dimandare. Postosi adunque a sedere, e d’un ragionamento in altro travalicando, come in sì fatti luoghi far si suole, caddero in sul ragionar dello andare ad udir Messa. Onde Lisetta, la qual disiderava d’invescare Dioneo, voltata la coda dell’occhio verso lui disse: Io vo ogni giorno alla Messa nella chiesa della Carità. Dioneo, il quale avveduto giovane era, troppo bene comprese lei aver dette quelle parole, acciocché egli sapesse dove potesse andare a vederla, e parvegli un atto tanto ingegnoso e cortese, che seco diliberò di porre ogni opera e sollecitudine per, acquistare la grazia di costei: estimando beato potersi chiamare, se la fortuna gliela concedesse. Perché la mattina seguente levatosi, alla chiesa della Carità se n’andò, quivi attendendo che Lisetta venisse: la qual venuta, e Dioneo veduto, quanto potè s’ingegnò di dimostrargli che di lui le calesse: onde egli cominciò a riputarsi un felice e avventuroso amante, seco stesso ringraziando Iddio, che la vita e anima sua avesse posta nelle mani dì così gentile e valorosa donna; e da quel dì innanzi, lasciate tutte le compagnie e gli studii delle lettere, a’ quali avanti questo accidente dato si era, e ogni altra cura da parte posta, l’animo tutto rivolse a costei con tanto fervore e sollecitudine, che impossibile sarebbe a raccontarlo; e appresso ogni opera ponendo per piacerle. Continovando adunque Dioneo lo andare a veder Lisetta, e tion accorgendosi dell’amoroso veleno che egli cogli occhi beveva, anzi ogni giorno più dell’amor di lei accendendosi, non solamente le mattine tutte in veder Lisetta consumava, ma di state essendo, la casa di lei, la quale sopra il canal maggiore era, apparata, quindi ogni sera nella sua barchetta tutto solo passando, lei, che ad una finestrella lavorando sedeva, cautamente guardava. Ora stando la cosa in questa guisa, tentò Dioneo di aprirle il disiderio suo, prima volendo egli stesso, avendo più volte avutone modo, in casa di lei e della sorella darle lettere, le quali avendo ella rifiutate, Dioneo, quasi disperandosene; per una femmina più volte le mandò a parlare; ma tutto era niente. Mostrava Lisetta di crucciarsi con colei che le parlava, cacciandosela con mal viso d’innanzi, e appresso mostrando per uno o due giorni d’esser adirata con Dioneo, il che egli, da vero credendo, quasi per sua iscusazione compose questa Canzone.
- Donna leggiadra e bella
- Che con le vostre luci m’accendeste
- Il dì, che la mia stella
- Mi condusse a veder l’altere, oneste
- Vostre bellezze; poiché la mia sorte
- M’ha fatto vostro, non mi date morte.
- Morte mi date ognora
- Che mi negate il vago e chiaro lume
- Ove ’l cor mio dimora.
- Che sia vostro voler ch’io mi consume?
- Fa ch’io nol creda vostr’alma beltade,
- Ch’esser non può che sia senza pietade.
- Se a me, Donna gentile,
- Che molto più che l’alma propria v’amo,
- Non siete dolce e umile,
- E se celate a me quel che sì bramo
- Soave sguardo; chi mi darà aita,
- Da voi nascendo ’l fin della mia vita?
- Certo non si conviene
- Tanta durezza al vostro dolce aspetto:
- Delle mie tante pene
- Che a voi giova, o mio sommo diletto?
- A che negarmi, al fin, se mi vedete,
- Quel che per sempre darmi sempre avete?
- Alma cortese e pia,
- Esempio di bellezza e di virtute.
- Per cui cara ho la mia
- Vita, che sol da voi spera salute,
- Non fate le mie luci indegne e prive
- Del lume onde ’l mio cor respira e vive.
- Canzonetta, anderai
- Dinnanzi a quella che ’l mio cor possiede
- E umil la pregherai
- Che in premio del mi’ amor, della mia fede,
- A me non nieghi ’l sol di quelle stelle
- Che lei fan bella sovra l’altre belle.
Lisetta, passati due giorni, sembiante facendo d’essere pacificata con lui, seguitò di fargli le maggiori dimostrazioni d’amarlo che mai ad uomo fossero fatte. Ora avvenne, che una domenica mattina vide Dioneo nella chiesa della Carità, non vi essendo Lisetta, un uomo, il quale mai egli davanti in quella chiesa non aveva veduto, come che gran tempo per addietro per veduta conosciuto lo avesse: e vennegli sospizione, non costui fosse quivi per veder Lisetta venuto. Ma pensando poi che egli mai non l’avea veduto in luogo dove ella stata fosse, e dopo averlo da capo a piè più volte tutto bene considerato, sapendo lui esser vilmente nato, e di cattivi costumi, e mal in arnese vedendolo, e con aspetto anzi di poltronieri che no, come che egli aitante della persona paresse, tra se medesimo disse: Deh stolto di che temi tu? come ti può egli cader nell’animo, Lisetta, che è nobile, superba e ricca, dovere inchinarsi ad amar costui, che ragionevolmente in mezzo ai pubblici luoghi appena troverebbe chi lo guatasse, nonchè altro? Ahi quanto è cieca la mente de’ miseri amanti! Era tanto e sì ardente l’amore di Dioneo, che non gli lasciava conoscer l’animo suo essere indovino; ma non passarono molte ore appresso, che il male avventuroso amante, della viltà e malvagità di Lisetta, e del presago cor suo chiaramente si avvide. Perciocchè la mattina seguente, essendo ito Dioneo alla Carità, non prima fue nella chiesa entrato che egli vide il Membruto (che così mi piace di chiamar quel mal nato) che dirimpetto a Lisetta una medesima Messa con esso lei udiva: la quale come fornita fu, Lisetta all’altar maggiore, dove prima andar Dioneo veduto avea, ad udirne un’altra se n’andò: lasciato colui nella chiesa, il quale a spiar si mise se Dioneo e Lisetta si guatassero o facessero alcun atto: di che avvedutosi Dioneo, e ricordandosi della sospezione che la mattina dinnanzi egli avea conceputa, ebbe per costante costui dovere essere amante di Lisetta. Perchè standosi tutto dolente, finita la Messa, egli vide Lisetta nello uscir del coro guardar il Membruto e tutta nel viso cambiarsi, còme intervenir suole a chi in qualche misfatto è ritrovato: il che gli aggiunse maggior sospetto assai che egli prima avuto non avea; onde postosi in cuore di volerne avere qualche maggior certezza, si pose a seder dietro l’uscio della chiesa, attendendo che di questo fatto seguir ne dovesse. Il Membruto, il quale ben mille atti e cenni tra Dioneo e Lisetta veduti avea, era in tanta rabbia divenuto, che egli scoppiava; e per l’affanno soffiando e ansando ora usciva ed ora entrava nella chiesa. Ma essendo l’ora del desinare venuta, partitasi Lisetta, ed essendo già fuori della chiesa uscita, e passando dinnanzi al Membruto, che l’attendeva, vide Dioneo, per l’apertura che fanno i gangheri, il Membruto mover le labbra e crollar il capo, non d’altra maniera che se egli voluto dir le avesse: io t’ho pure scoperta. Questo atto non solamente certificò Dioneo costui essere amante e possessor di Lisetta, ma sì gliela fece cader dell’animo che al tutto deliberò di lasciarla: recandosi a gran biasimo lei che di sì abbominevole amore vedeva accesa, e reputando gran vergogna di se stesso di aver sì vile e così mal nato rivale. Per la qual cosa molti giorni stette che in parte dove Lisetta fosse non volle andare. Ma come il più delle volte veggiamo avvenire negli accidenti amorosi, più forza avendo lo appetito che la ragione, tornato Dioneo alla tralasciata impresa, d’assai molto maggior fuoco si accese, che egli prima stato non era. Lisetta, che in tutti quei dì non avea veduto Dioneo, dubitando lui non l’avesse scoperta, commise al Membruto che non si lasciasse vedere là dove Dioneo fosse; ma si contentasse di godere secretamente dell’amore di lei. Il Membruto altresì, dubitando Dioneo aver già recata al voler suo Lisetta, poco della fede di lei fidandosi, rispose, che vedere dunque non si lascerebbe se non quanto a lei piacesse, sì veramente, che ella gli facesse conoscere chiaramente, lei non essere amante di Dioneo. Il che promise Lisetta senza fallo di fare; e come quella che di malizia era piena, pensò, che se una lettera di Dioneo aver potesse, di leggieri le verrebbe fatto il poter far fede al Membruto lei non averli mai parlato, non che altro: e sapendo Dioneo sopra ogni cosa desiderare di darnele una, avendone più volte ella rifiutate, pensatasi una nuova malizia, finse una lettera dirizzata al marito suo, e quella mandò ad un calzolaio, dal quale, ella e Dioneo, si servivano di pianelle, e che vicino di lui stava. Era allora il marito di Lisetta in villa, perchè essendo ella ita una sera a casa di quella sua sorella, della qual di sopra facemmo menzione, per avventura vi capitò Dioneo. Onde a Lisetta parendo esserle dato tempo e luogo di poter recare ad effetto il pensier suo disse alla sorella: Questa mattina, mentre che era alla Messa, il calzolaio mio portò una lettera a casa, la qual lettera, secondo che egli disse, è stata mandata da Roma a mio marito: e perchè non mi vi trovò, non la volle lasciare. Poi voltatasi a Dioneo disse: Deh potreste voi mandar per essa e mandarlami? Dioneo, che cosa al mondo maggiormente non desiderava che di compiacerle, disse di farlo volentieri: e avvisandosi quella essere l’ora ch’egli le potrebbe sotto quella mandarne una che molti mesi addosso portata avea per darle, sentì non mediocre piacere: appresso estimando quella lettera essere finta da Lisetta acciocchè egli per quella via le potesse mandare le sue; come quella che nel sembiante mostrava di non men di lui desiderare la conclusione del loro amore. Onde quella istessa sera andatosene Dioneo al calzolaio, tolse la lettera, e pagato un grosso di porto, messovi sotto la sua, per un suo servidore a Lisetta ne la mandò: la quale il giorno seguente, come egli poi seppe, al Membruto la mostrò. Conoscendo adunque il Membruto Dioneo non essersi mai abboccato con Lisetta, si racchetò, facendo amenduni gran festa, e riso insieme di Dioneo, dicendogli Lisetta: Parti che io, come che femmina sia, abbia bene uccellato questo valente cortigiano, che tanti anni ha studiato nella mocciconeria? Domine fallo tristo poichè e’ vuole che io gli vada a parlare, o dia modo a lui che ei venga da me: dirai tu ora, ben mio, che io ami lui più di te? Mai no, diceva il Membruto, e promise per questo a Lisetta, di non andare mai più là dove ella e Dioneo fossero. Per la qual cosa più non vedendolo, e stimando Dioneo l’amore di costoro essere giunto al fine, sapendo niuno mondano accidente essere eterno, ed olire di ciò ricordandosi Lisetta incontro lui ad amarlo aversi fatta, e non egli incontro lei; considerata la grandezza, la età, e le altre condizioni di Lisetta, e le sue insieme, che non pativano ch’ella fingesse a seguitarlo con maggior sollecitudine che prima, si mise di giorno in giorno attendendo la risposta, o altro effetto della lettera che egli mandata le aveva. Onde nel primo furore ricaduto, la presente Canzone, del mese di Aprile essendo, compose.
- Almo lucente sole,
- Che cogli ardenti rai del tuo bel viso
- Illustri il mondo; e colli e piagge adorni,
- Di rose e di viole,
- Di ligustri, giacinti e di narciso:
- Or ch’a scaldar ritorni.
- Col tuo soave ardore,
- L’erbe e le piante in mezzo del mio core.
- Sento destarsi amore
- Per ritornarmi alla prigion antica,
- Della dolce ed amara mia nemica.
- Siccome al tuo ritorno,
- Benigno padre, a la stagion novella,
- De’ tuoi fecondi ed amorosi ardori
- S’impregna d’ogni intorno
- La terra, e perde la più fredda stella
- I suoi gelati umori;
- Perchè non di dolcezza
- S’empie quel cor che il mio servir non prezza?
- E la fredda durezza,
- S’intiepidisce di colei
- Che per mia morte piacque agli occhi miei?
- Zefiro torna, e spira
- Sotto l’ardenti tue dolci fiammelle,
- Movendo l’erbe e i fiori in ciascun lato:
- Amor torna e martira
- Con le spietate tue crude facelle
- Il mio cor impiagato:
- Deh perchè non tormenta
- Quell’empia donna, al mio morir intenta,
- In lei sì ch’ella il senta,
- Destando gli amorosi spiritelli,
- Come l’aura soave i fior novelli?
- Già nelle ombrose valli
- Dagli ahi monti mormorando scende
- La neve, volta dal tuo caldo raggio
- In liquidi cristalli;
- Perchè pietà del foco che m’incende,
- Da l’uno e l’altro raggio
- Del volto altero e divo,
- Per cui di me medesmo in odio vivo,
- Non mando fuori un rivo
- Di pianto, ch’ammolisca il duro petto
- Solo dell’alma mia dolce ricetto?
- All’apparir dell’alba
- Degli augelletii accende il dolce canto
- Nei leggiadretli cori amoros’esca:
- Lasso! quando s’inalba,
- Di cocenti sospir d’amaro pianto,
- Tu l’alma mia rinfresca,
- Amor, l’usata guerra;
- Solo il petto di quella che m'atterra,
- Giammai non si diserra
- Per tuo scaldar: né per spirar di vento,
- Né per cantar d’augei, né per lamento.
- E per più mio martire,
- Per le campagne veggio e per li boschi,
- Gir scherzando le fere aspre e selvagge,
- E di dolce desire
- Le serpi accese a cui gli amari toschi
- Amor del cor sottragge:
- Ma perch’io venga meno,
- Punto non scema, lasso! del veleno
- Che il bel guardo sereno
- Per gli occhi al cor mi porse, il giorno ch’io,
- Altrui mirando, me posi in oblio.
- Poi ch’ogni nostra speme
- Per lung’uso, Canzon, torna fallace,
- Nostra speranza sia non sperar pace.
Da l’altra parte sembiante facendo Lisetta di amarlo quanto l’anima sua, davagli le maggiori speranze di farlo contento che mai dato gli avesse, mostrando, vedendolo struggere come la cera al foco, che di lui molto le ’ncrescesse; tenendo però ferma e segreta la pratica col Membruto, il quale non si lasciava mai vedere là ove Lisetta fosse; ma secondo gli ordini tra lor posti si trovavano insieme. Ora essendo già passati quattordici mesi dal dì che Dioneo avea cominciato a seguir Lisetta, non avendogli giovato la lettera mandatale, nè l’averle fatto parlare, e dimostratole per ben mille segni l’ardentissimo amore che egli le portava, piacque a messer Domeneddio, il quale con giusti occhi riguarda le ingiustizie dei mortali, di palesare a Dioneo gl’inganni di Lisetta. Avendo adunque ella posto ordine col Membruto di sollazzarsi con lui la mattina della vigilia del Corpo di Cristo, partitasi dalla chiesa della Carità, ove insieme con Dioneo aveva udito Messa, entrata nella sua barca a casa se n’andò: e giunta alla riva, smontar subito fece la fante che con essa lei era stata alla Messa, e tantosto ne fece montare un’altra nella barca, e quella verso san Marco fece avviare. Dioneo, che la seguiva, siccome quegli che di vederla mai stanco non si trovava, veduta la mutazione della fante, sospicò Lisetta non andasse a far quello che nel vero andava: perchè,
smontato dalla barca ove egli era, sembiante facendo di non volerla più seguire, non avvedendosene ella, entrò in un’altra, e tutto solo entrato e fatto abbassar il felze, di maniera che Lisetta lui non potesse vedere, la seguitò, e videla uscire di barca, ed in un tal chiassolino entrare; e quivi senza picchiar uscio, o altro segno fare, in una casuzza entrarsi. Onde fatta fermar la barca ove egli era, in aguato si mise, attendendo che Lisetta fuori se ne venisse: la quale, passato lo spazio di poco meno di due ore, uscire vide, ed entrata nella barca che l’attendeva, andarsene: onde più volte fu per iscoprirsi e darle il buon pro vi faccia, ma desiderando di conoscere chi con essa lei stato fosse, non le volle dir nulla, e lasciolla andare: nè guari dopo lei, di quella stessa casa uscire vide il Membruto, e colle chiavi serratala, andarsene: per la quale cosa egli ebbe per costante, costoro tenere quella casa vota per fare simili effetti. Quanta fosse allora la passione di Dioneo, consideri chiunque per pruova, o per qualunque altra via ha cognizione degli accidenti ed infortunii amorosi, che a me non dà il cuore di poterla colla penna esprimere, essendo a giudizio mio la maggiore che nello stato amoroso provare si possa. Questo solo dirò io, che se egli in quel punto non morì, mercè fu della celestiale pietà che di lui ebbe cura, ma non perchè quel dolore non bastasse a spezzar un cuore di marmo. Ahi quanto è misera ed infelice la sorte di que’ cattivelli amanti, li quali fondano l’amore e speranza loro nelle disleali e malvagie femmine, le quali, animal imperfetto e d’ogni bruttura pieno essendo, non ad altro il vilissimo animo loro intendono che alla distruzione e rovina degli uomini! Misero, e ben veramente misero colui il quale d’amoroso desio accecato, la libertà e vita propria sottomette a questo fiero, orribile e dispettoso animale! Quante ne veggiamo noi tuttodì, vestite di drappo di seta e d’oro, andare alle feste ed alle chiese, robuste e gonfiate, che poi segretamente dal famiglio, o dal fornaio, si fanno scuotere il pelliccione! Ma perchè se io avessi mille bocche, e altrettante lingue, e la voce di ferro, io non potrei colle parole spiegare, o con penna iscrivere la millesima parte de’ vizj loro, tornando là ove io vi lasciai, dico; che tanto di forza ebbe nel cuore di Dioneo questa ingiuria, sentendosi egli infino al vivo traffitto, che voltato l’ardentissimo amore ch’egli a Lisetta portava in mortalissimo odio, deliberò, che che avvenire se ne potesse, di farne vendetta. Perchè dopo molto e lungamente l’avere pensato come acconciamente ciò fare potesse, un modo gli piacque col quale egli sperava ad un colpo le malizie e vergogne di Lisetta sopra il volto di lei scoprire, ed il desiderio suo condurre a fine. Avea Dioneo, quella mattina che egli l’inganno di Lisetta scoprì, ben notata la effigie di quella fante che lei accompaguata aveva; ma non sapendo il nome suo, nè dove ella si tornasse, andossene ad una povera femmina che molto in casa di Lisetta si riparava, e che vicina le stava, della quale egli molto in sapere de’ fatti di Lisetta si serviva; e datole alcuni pochi denari, strettamente la pregò che spiare volesse chi quella fante stata fosse che la vigilia del Corpo di Cristo, tornata Lisetta dalla Messa, con essa lei in barca era stata: ed inteso chi ella fosse, operasse in modo che egli le potesse parlare. La povera femmina il giorno medesimo trovò e parlò con Maddalena, (che così si chiamava quella sensale che Lisetta avea accompaguata): e pregatala e promessole denari e robe, e oltre di ciò di tenerla segreta, fece sì, che ella le promise di parlar con Dioneo, e due giorni dopo, essendo così rimasi, nella chiesa di s. Stefano si trovarono. Quivi Dioneo, tiratala da uno dei canti della chiesa, l’animo suo le scoprì, e condussela a promettergli di far quello che egli voleva: e datole quattro corone d’oro, e promessole di tenerla segreta e di farle un più ricco presente, le commise ch’ella procacciasse d’intendere qual giorno Lisetta col Membruto dovevano trovarsi, e darneli avviso; il che promise Maddalena di fare. Avvenne non guari dopo questo ordine che al marito di Lisetta per certi suoi bisogni convenne andar fuori della città; onde a lei, come quella che libera si vedeva, venne voglia di ritrovarsi col Membruto, e avendo presa qualche sospizione la mattina che Dioneo seguita l’aveva, essendosi accorta lui avere veduto la mutazion della fante, dubitando, come quella che maliziosa era, che egli la casa dove erano stati apparata avesse, pensò, deliberata d’andare a sollazzarsi, di ritrovarsi in barca; forse anche per fuggire il caldo, del mese di luglio essendo: perchè fattasi venir Maddalena le impose che andasse a dire al Membruto, che
il giorno seguente, sul vespro, egli montasse entro una barca, e andatosene nel canale, il quale è dritto l’Arzana presso il monastero di s. Daniele, quivi l’attendesse, facendo abbassare il felze di drieto e dinnanzi, ponendovi sopra un fazzoletto per segno. Maddalena, avuto l’ordine, disse che sarebbe fatto; ed andatasene a Dioneo, il tutto gli raccontò; appresso tornata a Lisetta, le disse aver fatto il bisogno, e trovale certe sue favole, si scusò di non le poter fare compagnia. Dioneo, quando tempo a lui parve, fatto chiamare un barcaiuolo di cui egli molto si fidava, e che altre volte in simili accidenti adoperato aveva, secondo l’ordine avuto da Maddalena, andò ad attender Lisetta: informato prima il barcaiuolo di quanto egli avesse a fare. Lisetta a cui non mancavano sensali, fattasi venire una monaca del monastero dello Spirito Santo, che altre volte per l’amor di Dio le avea fatti di così fatti servigi, entrata nella sua barca, seco ne la menò. Stava Dioneo colla cappa su gli occhi tutto pensoso, attendendo che Lisetta venisse, quando alla sua barca sentì accostarsene un’altra, e di quella vide Lisetta colla cappa, o velo che lo vogliamo chiamare, sino a
mezzo ’l petto abbassata, nel suo entrare: la quale sì tosto com’ella fu nella barca di Dioneo, addosso gli corse credendo lui essere il Membruto. Dioneo, presala subito con ambe le mani, strettamente l’abbracciò, avendo ancora il viso coperto, e il barcaiuolo di Dioneo, girata prestamente la barca, verso Murano se n’andò. Lisetta cui un’ora mille anni pareva di vedere ed abbracciare il Membruto suo, con una mano levata la cappa dal viso di Dioneo, come lui vide, così mise uno strido e volle fuggirsi; ma Dioneo stretta tenendola non la lasciò partire, e vinto dalla subita allegrezza d’aver la preda sua nelle mani non poteva parlare. Lisetta non potendo fuggire, dal dolor vinta, addosso a Dioneo tramortita cadde: così l’uno di allegrezza, l’altro di angoscia vinto, ad un tratto vennero meno. Ma poi che le smarrite forze ad amendue furono ritornate, Dioneo in cotal guisa a dirle cominciò. Rirgraziata sia la benigna fortuna, poiché ella vostro mal grado, m’ha concesso d’acquistare coll’industria ed arte mia quello che la durezza e crudeltà vostra m’ha più volte a mille torti negato: lodato sia Iddio, voi siete pur qui, pur v’ho io ora nelle mie mani,
delle quali non uscirete, se prima me dell’ardentissimo mio desiderio non farete contento. Quanto meglio v’era, misera voi, l’avermi dell’amor vostro fatto grazia, ch’io ve n’avrei perpetua obbligazione, laonde avendovi io qui condotta coll’avvedimento mio, di voi pigliando quel piacere che già tanto tempo ho desiderato e meritato, e che tante volte cogli occhi, cogli atti e cenni vostri mi prometteste, non a voi, ma a me stesso, e alla mia buona sorte per sempre sarò tenuto. Infelice voi e ben veramente infelice e misera: chi vi forzava che fingeste d’amarmi non amandomi? a che fine usaste tante arti, tante finzioni? che pensiero vi venne di mettere l’onor vostro ed il mio in pericolo delle malvagie lingue? che piacere è stato il vostro nel vedermi languire per voi sedici mesi continui? che ingiuria riceveste voi mai da me per la quale io abbia meritato tanti affanni quanti dati mi avete? che utile avete voi avuto del mio tormento che per pigliarvi spasso di me, misero! vedendomi struggere come la neve al sole col vostro vilissimo mulazzo; mostrandogli le lettere le quali con arte mi traeste dalle mani, non ad altro fine che per fargli piena fede che io mi consumava per voi nelle chiese e per le strade, e che egli di voi nel letto e nelle barche si godeva? Molte cose mi vanno ora per la mente, le quali adoperando io in voi, mi potrei vendicare delle infinite ingiurie che fatte mi avete: ma tolga Iddio che io sia di sì vile e basso animo, che contro ad una vilissima femminuzza io stenda le mani: non già perchè voi da me mille morti non meritaste, per voi non essendo rimaso di darne molte più a me co’ tormenti e strazii che dati mi avete, o di costrignermi colla crudeltà vostra ad uccidermi colle mie proprie mani, come più volte da soverchio dolore vinto n’ho avuto pensiero: ma non sia mai vero che l’altezza dell’animo mio vincere si lasci dalla bassezza del vostro. Voi cogl’inganni ed arti vostre, in me operando, quell’ufficio faceste che le perverse e malvagie femmine fanno: io avendovi colle reti vostre presa, di voi ridendomi e schernendovi, quell’ufficio farò che i saggi e valorosi uomini fanno; e contentandomi d’avervi schernita ed uccellata come io v’ho, lasciandovi ora andare, di voi altra pena non piglierò che infinito riso. Andatevi con Dio... Che? non andate? andate ch’io non
vi tengo. Vergognavasi Lisetta d’essere stata in cotal guisa gabbata da Dioneo, e nulla rispondea, ma la testa bassa tenendo l’infortunio suo forte piagneva. Dioneo allora, vedendola lagrimare, sorridendo così le disse: Ringraziato sia Iddio oh’io veggio acqua uscire, onde già tanto fuoco uscir vidi. Oh come è ben vero che spesse volte la mano che ferisce il colpo sana! Io veggio pure ora quegli occhi falsi e micidiali, da quali già mille e mille amorose fiammelle al mio misero core s’avventarono, versar acqua che l’incendio mio ammorza, e le profonde e mortali mie piaghe salda e sana. Poiché Dioneo queste e molt’altre simili parole ebbe dette, ed appieno sfogato l’animo suo, di lei, che tuttavia dolorosamente piagneva, rincrescendogli, con buone e dolci parole la volle umiliare e confortare, in cotal modo dicendo: Cuor del corpo mio, non vi turbate se io con inganno mi sono ingegnato d’acquistare quello che ardentissimamente amando aver non potei; non vi cruciate, anima mia, perch’io v’abbia colta in questo misfatto, perchè amandovi come io fo, che non meno di me stesso v’amo, potete viver sicura che e questa ed ogn’altra vostra cosa, non men ch’ogni mio importantissimo fatto, nel cuor mio starà sepolta: nemmen cara mi sarete voi, facendomi ora grazia dello amor vostro, come se prima fatto l’aveste, tanto è l’amore che io vi porto e il desiderio che io ho di vivere e morir vostro. Non siete voi, anima mia, certa e chiara della fede e amor mìo? non avete voi veduta la costanza e pazienza mia? non sono io così degno di voi come colui per lo quale qui vi conduceste? Per certo non dovete negare di darmi una sol volta almeno quello, che tante e tante volte cogli atti e sguardi vostri dolcemente mi prometteste: e negandolomi indubitamente sarete cagione della morte mia, la qual se non per altro, almeno vi dovrebbe dolere, perciocchè perdendomi, pur perderete uno che più assai che se stesso vi ama. E chi sa che ancora col tempo questa vostra ostinata e dura voglia non abbia a mutarsi e ad intenerirsi in maniera che dalla coscienza compunta, abbiate a dire: veramente feci torto a Dioneo, e a desiderare di contentarmi ad ora che non potrete. Dunque, sola speranza dell’anima mia, prendavi pietà di me; e così dicendo le volle gettare le braccia al collo e baciarla, ma ella ritrosa e sdegnosa non volle che egli
la toccasse. Essendo adunque stati gran pezza in così fatte contese, e veggendo Dioneo l’ora oggimai esser tarda, turbato dalla durezza di Lisetta, le giurò che mai non la lascierebbe partire, se alle sue voglie non consentisse; e voltatosi al barcaiuolo, gli comandò che a s. Martino di Strà, luogo miglia tre discosto da Vinegia, andasse. Le quali parole udendo Lisetta, e veggendo la barca già avviata verso il luogo ordinato da Dioneo, e lui vedendo adirato, di nuovo cominciò maravigliosamente a piangere. Dioneo, lasciatala alquanto piangere, la ripregò che ella dell’amor suo le facesse grazia: e tuttavia pregandola, il braccio ritto le mise al collo, e colla mano dell’altro il viso preudendole, lei quasi consenziente, per la bocca baciò: e veduto che ella più resistenza non faceva, da capo rabbracciò, la mano manca mettendole sotto i panni. Lisetta, fatto un tal pochetto di difesa, alla fine consentì di lasciarsi toccare, e da questo atto a’ congiugnimenti amorosi vennero, con poco e breve piacere dell’una e dell’altra parte: di Lisetta, perchè mal suo grado fatto l’aveva: di Dioneo, perchè conobbe aver comperata la gatta nel sacco. Pur volendola pacificare, di lei pietà prendendolo, le disse
molte amorevoli parole, alle quali ella, anzi bestiale che no, altra risposta non fece, se non che egli non sperasse già mai più di riaverla; il che udendo Dioneo, fatto uno gran scoppio di riso, comandò al barcaiuolo che tornasse là onde egli era partito; e quivi trovato quello di Lisetta, che l’attendeva colla Monaca, la quale era stata più arrendevole alle voglie di lui (come ella stessa disse poi ad un amico mio) che non era stata Lisetta a quelle di Dioneo, ridendo a Dio l’accomandò, ed egli altresì a casa se ne tornò. Lisetta, piena di mal talento, giurò di far sviare la Maddalena, la quale di peggio temendo, già s’era di Vinegia partita. Così, o amanti, fu pagata la malvagità e dislealtà di Lisetta, e bene andò che peggio non le avvenne. Sarete adunque più cauti nello entrar degli amorosi pelaghi di quello che non fu Dioneo, spiando prima non solo le parti de’ corpi di quelle donne alle quali la libertà e vita propria donarete, ma ancora quelle degli animi ne’ quali la vera nobiltà alberga: come che questo non così di leggieri fare si possa.