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deva un grato odore d’arrosto; entrò nella stanzetta da pranzo, la cui finestra socchiusa era velata da una tendina di crespo giallognolo, e per l’uscio aperto vide che la cameretta di Gabrie, appena riordinata dalla signora Colorni, era vuota.

Si volse; la muta sorrise ancora attraverso i suoi occhiali azzurri e scosse una mano verso la finestra.

— Come, è uscita? Ma se mi scrisse che era a letto malata? — chiese Regina, entrando nella cameretta.

La donnina scosse la testina camuffata, tossì e si toccò la fronte, per significare che veramente Gabrie era stata malata; ma poi sorrise ancora, accennò di nuovo la finestra, prese una sedia e la pose davanti a Regina.

— Tornerà presto? Dov’è andata?

La donnina prese una busta dal tavolino di Gabrie e l’avvicinò alla parete.

— A impostare una lettera? Sì? Siedo un po’ perchè sono stanca. E il signor Ennio?

La donnina sorrise ancora, fece l’atto di suonare un violino, poi aprì le braccia forse per significare che il marito era lontano, e che il suo strumento parlava teneramente a qualche coppia di sposi tedeschi, in quell’ora di sole, nella poesia di un’osteria suburbana animata di galline e fiorita di peschi rosei.

Regina sedette; la donnina andò via.

Per qualche momento un silenzio profondo regnò nell’appartamentino pulito, pieno di pace e d’odor d’arrosto: la cameretta di Gabrie, con la carta gialla a fiori rosei, il lettuccio bianco, il tavolino coperto di libri e di quaderni, la fi-