Nel deserto/Parte III/Capitolo III
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III.
La zia Gaina aspettava con una certa ansia l’arrivo della nipote. Da qualche anno era diventata più strana del solito: non usciva quasi mai di casa, teneva la porta e le finestre continuamente chiuse e pareva avesse paura dei ladri o di altri pericoli.
I vicini la prendevano in giro.
— Avete trovato un asousorgiu,1 zia Gai?
— Sì, ma nel ritrovarlo mi son ricordata di voi e le monete son diventate carbone.2
Ad altri, che la interrogavano seriamente se aveva timore dei ladri, rispondeva!
— Il ladro che temo io entra anche dalla fessura: la Morte, consolazione mia, solo la Morte temo.
Molti credevano che Lia le mandasse denari; e che la vecchia li accumulasse e li nascondesse, con quella manìa speciale alle paesane sarde.
L’annunzio dell’arrivo della giovane vedova, sul cui conto correvano voci strane, arrivate di lontano così come arriva il vento o la nuvola, mise in subbuglio il vicinato.
Alcuni dicevano che Lia si sposava di nuovo, con un signore potente, un «ingegnere del re», altri che era diventata una donna di mondo, di quelle che vanno a passeggio con uomini soli; altri infine che aveva un amante vecchio, ricco, ammogliato. La zia Gaina non prestava fede a queste chiacchiere, e del resto bastava che le riferissero una cosa perchè ella credesse il contrario; ma era ben lontana dal l’approvare l’idea storta di Lia, di rimanersene a Roma sola coi bimbi, senza parenti, in mezzo alle tentazioni del mondo. La Tentazione è già così potente nei piccoli paesi solitari; figuriamoci nelle grandi città, dove inoltre non si crede più in Dio e non si usano neppure le più semplici precauzioni per tener lontano il demonio con le sue male arti.
Per conto suo la zia Gaina, nel preparare la camera per Lia e per i bimbi, aveva riattaccato la falce3 alla finestra e rinnovato la croce di palme in capo al letto.
Ma appena vide Lia alta e nera scendere dalla diligenza, nella desolazione della piazzetta che sembrava una fornace, le chiacchiere dei maligni le tornarono in mente. Lia sembrava una donna non solo vinta dalla Tentazione, ma anche stregata: un pallore terreo le oscurava il viso, i grandi occhi cerchiati, incavati, avevano un fosco splendore. I ragazzini, poi, con le ginocchia nude color legno di noce, i cappelli di paglia grandi come ombrelli, sembravano diavoletti veri e propri: o almeno ne avevano il colore e l’agilità.
— E perchè sei così, consolazione mia? — domandò la vecchia, esaminando da capo a piedi la nipote. — Hai avuto qualche spavento? E i bambini sono poco neri! Sembrano usciti da un forno.
— Siamo stati al mare, lo sapete! E la traversata, poco felice, e il viaggio entro quel vero forno che è la corriera, non li contate?
— E non stavate seduti? — ella osservò rudemente.
S’avviarono verso la casupola: le donne uscivano nella strada per veder Lia, e in un attimo tutti i bimbi del paesetto, alcuni vestiti in costume, altri seminudi, altri camuffati con strani vestiti tagliati da cappotti di soldati e da manti di paesani, circondarono i ragazzetti che arrivavano d’oltre mare. Salvador riconobbe alcuni monelli e li chiamò a nome: in breve i cappelli di paglia e i berretti e le cuffie con le frangie e un kepì che passava e ripassava baldanzoso fra tutte quelle testine irrequiete, formarono un gruppo solo. Lia e la zia Gaina dovettero voltarsi parecchie volte per chiamare le due pagliette, e la vecchia prese in braccio il piccolo Nino, promettendogli uva passa e miele per indurlo a entrare nella casetta.
— Sai che questo bambino è bello? — disse, esaminandolo bene, e trovandogli i segni della razza a cui ella apparteneva: labbro superiore lungo, sopracciglia folte, capelli crespi e occhi diffidenti.
Lia disse con un vago sorriso:
— Tutti trovano che rassomiglia al povero zio Asquer....
E fu meravigliata nel sentire per la prima volta la zia Gaina lodare il povero zio Asquer.
— Egli non era bello, ma aveva un ottimo cuore.... Egli ti voleva bene, rosa mia; egli ti fece andare a Roma. Se tu gli avessi dato retta....
Lia corrugò la fronte.
— Che volete dire, zia?
— A quest’ora non saresti vedova, non saresti come l’uccello sul ramo, sola coi tuoi piccini....
— Zia! Egli non poteva impedire che il mio povero Justo morisse.
— Ma te ne avrebbe fatto sposare un altro, uno con un impiego fisso....
— Non bestemmiate, zia Gaina! — disse Lia, reprimendo un singhiozzo.
Ah, le pareva di soffocare. La casina coperta di glicine, con le invetriate, le terrazze, i fiori, il semicerchio luminoso del mare, tutto era ben lontano! Nella casupola dall’andito selciato di grossi ciottoli, dalla scaletta traballante, le camere basse e calde, pareva d’essere in un luogo di pena. Ella sentiva ad un tratto tutta la sua miseria, tutta la desolazione del suo destino, e piangeva con la disperazione di un sepolto vivo.
La zia Gaina pensava:
— Doveva volergli bene assai a quello straniero, se ancora lo piange così.
Intanto i bambini frugavano in ogni angolo della casetta, e ogni tanto correvano dalla mamma per comunicarle le loro scoperte. Vedendola piangere, Salvador la guardò meravigliato, poi le disse, timidamente:
— Perchè piangi, mamma? Eppure questa casetta è bellina. È tua, vero? C’è il pozzo, ci son le galline: vuoi venire a vedere?
Lia si lasciò condurre: ecco il cortiletto recinto da una muriccia a secco, sopra cui si delinea la brughiera verde e rossiccia e al di là della brughiera il mare lontano, azzurro sotto il cielo cinereo: ecco il pozzo coperto di muschio, la tettoia di frasche sotto cui si riparano le galline polverose: ecco la camera della zia Gaina, tinta di calce, con i canestri ed i vagli appesi alle pareti, il letto di legno, la cassa antica incisa, la botola che conduce in soffitta. In capo al letto pende, coi ceri e le croci di palma ornate d’oro come croci bisantine, una conocchia di legno d’olivo, su cui stanno incisi i simboli cristiani, il pesce e la colomba, e che termina con tre dita che fanno le fiche contro il malocchio.
E infine ecco la cameretta di Lia fanciulla. La zia Gaina l’ha rimodernata, ha messo due lettini di ferro con le coperte bianche, una zuccheriera di cristallo sul tavolo, quadri alle pareti: in uno di questi, tutto rosso e azzurro, San Giacinto con una Madonnina di marmo in braccio attraversa a piedi un mare agitato: in lontananza si scorge una città in fiamme.
Lia guardava pensosa, rassomigliando il suo passato a quella città bella e maledetta: tutto incenerito! E lei, lei come il piccolo santo, è fuggita attraverso il mare portando in salvo il freddo simulacro della sua virtù.
*
Nei giorni seguenti cominciarono le visite. Quando non era occupata con loro, Lia scriveva, e arrivata l’ora della posta diventava nervosa come la zia Gaina non l’aveva mai conosciuta.
Il suo contegno severo e triste le ridonava presso la gente del paese la sua fama di donna seria: soltanto la zia Gaina cominciava a dubitare del contrario. Di chi erano le lettere che Lia riceveva? Ed a chi ella scriveva, per ore ed ore, costringendo poi la zia Gaina a spazzare gli innumerevoli pezzetti di carta scritta che ella buttava dalla finestra?
I ragazzi, intanto, completamente trascurati da lei, correvano tutto il santo giorno intorno alla casupola, avanzandosi fino alla brughiera, e accorrendo volentieri alla chiamata delle vicine di casa, che davano loro latte, giuncata, pere acerbe, salvo poi ad osservare che i bimbi continentali sono sfacciati, golosi e mangioni. Alla sera, quando la luna illuminava con uno splendore uguale ed intenso metà della straducola, si vedeva una corona fantastica di bimbi scalzi girare vorticosamente, bianchi nel chiarore lunare, neri nell’ombra, cantando in coro:
Vogliamo una figlia, madama Dunrè. |
Fra tanti piedini scalzi, piedini di creta e di bronzo, se ne vedevano quattro calzati con sandali già molto logori e color della polvere: le vicine osservavano, e in breve tutto il paesetto si convinse che Lia Asquer non era ricca come la zia Gaina affermava: una persona benestante non manda i figli così mal calzati.
La zia Gaina fremeva, e ciò che le destava sopratutto rabbia era l’indifferenza di sua nipote alle chiacchiere maligne. Lia viveva in un mondo lontano, pieno di visioni incerte e fosche, di fantasmi paurosi, simile al mondo ove passa, spinta e risospinta da un soffio di morte, l’anima dei febbricitanti. Aveva però la coscienza di trovarsi in uno stato anormale, e aspettava che il turbine e il delirio passassero. Dovevano passare, ella lo sapeva. Altre tempeste le avevano desolata l’esistenza: le sembrava, anzi, che quest’ultimo turbine fosse così rabbioso e insistente perchè non trovava più nulla da devastare.
Una mattina, nello sciogliersi i capelli s’accorse che ne aveva molti bianchi: la scoperta non la addolorò ma la sorprese; si aprì, dividendola sul viso, la folta capigliatura e si guardò nello specchio. Vide che il suo viso era grigiastro e affilato, e che i suoi occhi s’erano rimpiccioliti; si sentì vecchia, e si vergognò d’essersi abbandonata all’amore come una fanciulla di venti anni; e non pensò che era stata appunto la sua passione a consumarla e ad invecchiarla.
— Ed io ho fatto questo! — disse a voce alta, con meraviglia. All’improvviso, dopo giorni e giorni di accecamento, la sua passione le parve un episodio inutile della sua vita.
Scese nella strada, chiamò i ragazzi e ricominciò ad occuparsi di loro; ma dovette fare un grave sforzo per costringere Salvador a riprendere il libro di lettura e Nino a lasciarsi lavare.
Nel pomeriggio mandò a chiamare il Maestro, per pregarlo di dar lezioni a Salvador.
La zia Gaina brontolava:
— Vedi, rosa mia, io questo passo non l’avrei fatto! Il Maestro non è più venuto a farti visita e fa un largo giro per le strade qui intorno piuttosto che passarci davanti. E tu lo mandi a chiamare! Vedrai che non verrà.
— Verrà, cosa volete scommettere?
— Ebbene, e se viene? Dopo che s’è sposato con la sua serva è diventato un ubbriacone: per far dispetto a sua moglie che va in chiesa, lui legge i libri proibiti; sì, anche uno che dicono è stato scritto da un nemico di Cristo, uno che si chiamava Maometto come il cane del parroco.... Non è uomo da dar lezione ai fanciulli come Sarbadoreddu.
— Povero maestro, — pensava Lia; e ricordava d’averlo invidiato e quasi preso ad esempio per la passione ideale che egli nutriva per lei.
Egli arrivò alle cinque precise del pomeriggio. Aveva letto tante volte che le signore ricevono dalle cinque alle sette. Con la sua redingote verdognola, un fazzoletto di seta nera intorno al collo, un piccolo cappello duro in cima alla grossa testa circondata da una folta capigliatura grigia e polverosa, era così compassionevole che non faceva neanche più ridere. Lia lo ricevette nella piccola saletta terrena, umida anche d’estate, e dopo i primi complimenti gli versò da bere. Egli evitava di guardarla, e le sue mani rossastre posate sul grosso pomo del suo bastone da pastore tremavano come quelle dello zio Asquer nei suoi ultimi giorni di vita.
— Ecco il vero amore, — pensava Lia; e non sapeva perchè si sentiva allegra come una bambina davanti ad un giocattolo.
— Ebbene, mi racconti di Roma, — egli disse finalmente, guardando i mattoni su cui cominciò a batter la punta del bastone. — Roma eterna, madre dei cuori! Un paradiso, eh?
Ma Lia, che pensava a Roma come ad un paradiso perduto, cominciò a fare un quadro fosco della città.
— È l’inferno, le dico! Tanto è vero che voglio lasciarla. La gente umile e povera come noi non può viverci più.
La zia Gaina, che spiava dietro l’uscio, sollevò la testa meravigliata. Con lei sua nipote non aveva mai parlato così.
Il Maestro a sua volta, che, ad onta dei precetti del Profeta di cui leggeva con ammirazione i libri, beveva uno dopo l’altro i bicchieri di vino versati da Lia, gridò indignato:
— E lei vuol lasciare Roma per questo covo di vipere?
— Oh, no; ritornar qui mi sarebbe impossibile! Devo far studiare i bambini. Andrò a Nuoro, dove si vive con poco.
— Ma perchè parla così? Ha paura che le domandino denari in prestito? Lo sappiamo che lei è ricca....
— E lei che cosa intende per ricchezza? Lei un tempo leggeva Orazio....
Egli balzò in piedi offeso.
— Siamo miserabili, in questo paese, ma non stupidi. Lei può dirmi quel che vuole, e beffarsi di me; ma che non si possa vivere a Roma con tremila lire di rendita, questo non può dirlo....
— Tremila? Certo, a chi le ha bastano.
— E lei non le ha? E il povero suo zio Luigi Asquer non le aveva?
— Luigi Asquer non possedeva nulla! — disse Lia ridiventando seria, e cambiò discorso, domandando al Maestro notizie della sua vita.
— Io son povero, sì, — egli disse, riprendendo a fissare il mattone, — sono come i mastini legati alle porte dei ricchi. Vedo la gente passare e divertirsi, e ringhio e non posso rompere la catena. Non importa, — aggiunse, recitando enfaticamente alcuni versetti del Corano, — ciascuno sarà elevato secondo il proprio merito; ciascuno avrà la ricompensa delle sue opere, e nessuno sarà ingannato....
— Lo crede, lei? — domandò Lia, sollevando gli occhi pieni di tristezza e di ironia.
Ma il viso del Maestro, gonfio e rossastro nella cornice dei capelli grigi, esprimeva tale un turbamento puerile che ella ne fu scossa.
— Fino ad ieri, signora Lia, io credevo il contrario. Ma oggi mi son convinto che l’uomo non deve mai disperare: io credevo che lei mi avesse dimenticato, signora Lia, e che io fossi nel numero dei morti. Invece lei ha pensato a me, e mi ha chiamato, e mi permette di sentire la sua voce e di avvicinare suo figlio.... Questa gioia.... questa gioia....
Egli non sapeva proseguire. Lia si mise a ridere.
— Si contenta di poco! — disse, versandogli ancora da bere. Ed egli bevette, e se ne andò ubbriaco di vino e di gioia.
Allora entrò la zia Gaina. Al solito teneva le mani sotto il grembiale, ed era pallida e accigliata: ma Lia osservò che un lieve tremito le scuoteva il mento.
— Lia, rosa mia, che hai detto a quella botte, a quel miscredente? Stasera tutto il paese saprà che hai parlato come una donna senza ragione.
— Che ho detto, zia?
— Poco, ti pare? Che sei povera, che vuoi cambiar residenza come un vagabondo....
— Zia, ho detto la verità. Io non posso più vivere a Roma. Tutto vi è caro: la vita è difficile quasi come in una città assediata. Io lavoro per vivere, sì, bisogna che finalmente lo sappiate, lavoro per vivere, ma neppure così tiro avanti. Eppoi non contate le tentazioni? — aggiunse con un riso amaro. — La donna povera è sempre perseguitata dalle tentazioni, e gli scongiuri non valgono. Io non volevo lasciar Roma perchè questo era il desiderio del mio povero Justo, ma adesso... adesso.... bisogna che mi decida. Se egli è lassù e legge nella mia anima mi approverà....
Abbassò la testa, e si mise il dorso della mano sugli occhi, come un bambino che vuol nascondere il suo pianto. La zia Gaina la guardava, tragica e pietosa.
— Tuo zio aveva ragione di non acconsentire al tuo matrimonio con un uomo senza posto fisso....
Allora Lia sollevò fieramente la testa e ridiventò cupa e ironica.
— Egli dev’essere un santo se opera il miracolo di farvi parlar bene di lui!
— Rispetta i morti, consolazione mia: essi possono anche essere all’inferno, ma sono superiori a noi perchè sono nel mondo della verità e non mentiscono più, neppure volendolo. Noi invece viviamo di bugie. Tu, per esempio, tu non mi hai detto mai che lavoravi, che eri povera. Io ti credevo ricca e tu lavoravi. Quanto hai di rendita certa al mese?
— Di rendita certa? Volete proprio saperlo? Cinquanta lire: e per vivere a Roma, con ragazzi che crescono tutti i giorni ed han bisogno d’aria, di luce, di nutrimento, occorrono almeno duecento lire.... e forse più....
La vecchia si fece il segno della croce, poi domandò:
— Che farai a Nuoro?
— Prenderò in affitto una casetta: farò pensione ai ragazzi che dai paesi vanno a Nuoro per studiare....
— E quando i tuoi bimbi saran grandi?
— Spenderò il capitale per loro, finchè avranno una posizione. Allora toccherà loro ad aiutarmi....
La vecchia non replicò, ma sotto il grembiale nero le sue mani si agitavano nervosamente. Lia si alzò e si mise a camminare attraverso la cameretta, parlando come fra sè, spinta da un bisogno di sfogo.
— Spero, sì, spero ch’essi diventeranno uomini di volontà. Non mancherà loro l’esempio. Ed essi almeno non conosceranno la miseria e la solitudine. Se così non fosse, guai. Non crederei più alla giustizia divina....
— Ci crede il Maestro, quella botte, alla giustizia divina, e non ci credi tu! C’è, sì! — affermò energicamente la vecchia.
— Chissà! Chissà! — disse Lia, ricadendo nelle sue inquietudini.
Allora la zia Gaina le si avvicinò e le tirò il lembo della manica, accennandole di seguirla. La condusse nella sua camera o trasse di sotto a un mattone una chiave nera che pareva ritrovata in uno scavo preistorico.
— Apri la cassa, rosa mia.
Lia rise, turbata suo malgrado.
— Volete già consegnarmi l’eredità?
— Apri, ti dico, e non ridere! Tu sei come una giornata di marzo: un momento nera e un momento col sole....
Lia si curvò: rivide sul coperchio nero gli asfodeli e i fenicotteri incisi da un artista primitivo, e nell’aprire la cassa sentì salire, come da un angolo buio di giardino, un forte profumo di spigo e di pere mature.
— Ecco aperto: dov’è il tesoro?
— Guarda bene; leva tutto....
— Tutto? Ecco la tunica,4 ecco il giubbone, ecco la burra,5 ecco il corsetto, ecco le calze rosse.... qui c’è un vaso: è qui il tesoro?
— Lascia quello, guarda sotto quelle tovaglie....
Lia si sollevò, pallida, con gli occhi scintillanti.
— È molto, zia? Un milione?
Ma la vecchia non rispose neppure: non erano momenti da scherzare, quelli! E Lia tornò a curvarsi e sentì il suo cuore battere con violenza.
— Ecco, prendi quell’involto, quel tovagliuolo legato....
Lia si sollevò, con l’involto in mano, e stette a guardarlo finchè la vecchia non le impose:
— Apri, slegalo!
Lia lo slegò e trasalì, vinta da una specie di allucinazione: le pareva di rivedere la camera dello zio Asquer, un cestino di rose sul tavolo, il vecchio chino su un cassetto aperto e dentro il cassetto una busta gialla con cinque sigilli rossi. La stessa busta stava adesso, ancora sigillata, entro il tovagliuolo grigiastro tolto dalla cassa: Lia la guardò sorpresa, ma prima di aprirla, lesse una lettera ingiallita, sciupata e sucida che la zia Gaina aveva tolto di sotto al plico e che le porgeva con aria di mistero. «Alla signora Gaina Asquer». I caratteri, tremolanti e quasi illeggibili, erano quelli dello zio Asquer: Lia li riconosceva bene, e di nuovo le sembrava di vedere il vecchio davanti al suo tavolo, e Costantina che aspettava, complice fedele, per andar ad impostar le lettere ad insaputa di signoricca.
S’avvicinò alla finestruola e lesse:
- «Cara Gaina,
«Saprai forse che nostra nipote Lia vuol sposarsi con un uomo assai più vecchio di lei, uno straniero che non ha una posizione sicura, nè, credo, un carattere che possa andar d’accordo con quello di lei. Io finora ho fatto il possibile per convincer Lia a non commettere un simile errore; ma non sono riuscito a nulla. Niente di buono io prevedo da questo matrimonio troppo disuguale.... Un giorno forse — Dio non lo voglia — Lia cadrà in miseria. Prevedendo questo caso, io le lascio una rendita che la aiuterà a vivere. Ma desidero, e lo impongo a te che hai fatto da madre a Lia, di non far conoscere la mia volontà a nostra nipote finchè essa avrà da vivere altrimenti, e cioè finchè non ti consti, in tua coscienza, che essa avrà bisogno di aiuto. Però, se durante la tua vita ciò non avvenisse, fa in modo di consegnare a Lia, prima della tua morte, l’unito plico che contiene le mie disposizioni testamentarie.
«Sicuro che tu adempirai con coscienza questa mia estrema volontà, ti saluto e mi dico il tuo cugino
«Luigi Asquer.»
Lia era diventata pallida e il foglio le tremava fra le mani. Le pareva di sognare, sebbene in fondo non si meravigliasse dell’atto stravagante con cui lo zio Asquer aveva coronato la sua vita d’uomo dispettoso. Ah, s’egli non avesse fatto questo, quanti dolori risparmiati! Eppure....
Eppure le parve di non serbargli rancore. Ricordò le sue teorie. Siamo noi padroni delle nostre azioni? No. Un filo misterioso ci guida....
E aveva quasi paura di aprire la busta gialla, con quei cinque sigilli che sembravan grumi di sangue; e la guardava fisso, volgendola e rivolgendola, esaminandola contro luce. Frattanto la zia Gaina, rimessa la roba nella cassa, s’era avvicinata e puntava il suo dito nero sulla busta gialla.
— Aprila, dunque! Lì dentro ci sono i denari....
— Oh no, è solo il testamento!
— Come, il testamento solo? E i denari dove sono allora?
— Adesso vedremo.... Apritela voi, zia. Io non posso.... non posso....
— Che coraggio hai, rosa mia!
La vecchia, che aveva sempre creduto il plico pieno di biglietti di banca, lacerò piano piano la busta, raccogliendo nel pugno i pezzetti della carta e della ceralacca....
— Ecco, questa è carta bollata.... benedetta sia.... E questa è una lettera? E questo?
A misura che li estraeva dalla busta porgeva a Lia i fogli di carta bollata, una lettera azzurrognola, un involtino di carta velina.
Lia svolse delicatamente quest’ultimo: e vide una rosa secca i cui petali eran ridotti ad una specie di cenere rossiccia e lo stelo e il calice sembravan di legno corroso: le spine soltanto erano ancora intatte. Senza dar tempo alla zia Gaina di esaminare lo strano oggetto, ripiegò la carta velina e svolse il foglietto azzurrognolo ingiallito dal tempo e che conservava ancora le traccie delle ostie color di rosa con cui era stato chiuso in forma di busta.
«Caro Luigi, è inutile e doloroso insistere. La fatalità ci ha fatto conoscere troppo tardi i nostri sentimenti. Io mi considero già come legata all’uomo che ha la mia promessa di fedeltà, e morrei prima di tradirlo. Addio, addio, perdonami: tutto dev’esser finito fra noi, in questa vita. Forse c’incontreremo in una vita migliore: questa è l’unica speranza che m’incoraggia a vivere. Addio per sempre
«Simona.»
La zia Gaina guardava, coi grandi occhi spalancati pieni di curiosità ed anche di malizia: vedeva Lia impallidire e arrossire come colta da vertigine, e, pur indovinando la causa di tanto turbamento, non riusciva a capire perchè la nipote non s’affrettasse a legger la carta bollata.
Quella, importava, non le antiche storie di gente oramai tranquilla nel «mondo della verità». Finchè siamo sotto, nel mondo della menzogna, attacchiamoci ai rovi e agli sterpi che ci aiutano nella salita. Che cosa c’era scritto nella carta bollata? E i denari, dove erano i denari?
Ella dovette ripeter parecchie volte la domanda, e batter col dito sulla carta bollata, e finalmente scuoter Lia per il braccio prima che questa si decidesse a ripiegare il foglietto azzurrognolo.
— È di tua madre, beata? — domandò la vecchia sottovoce, e senza aspettar la risposta, mentre Lia svolgeva il foglio duro del testamento, aggiunse: — leggi a voce alta, rosa mia!
E Lia lesse a voce alta; voce rauca e monotona che pareva d’uno appena svegliatosi da sonno profondo:
«Io Luigi Asquer del fu Filippo, capo divisione nel Ministero delle Finanze, attualmente a riposo, ecc., ecc., nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, ecc., ecc., dichiaro d’instituire mia erede universale la mia nipote Lia Asquer del fu Ignazio, ecc., ecc.
«Detta eredità consiste in ottocento azioni di lire cento ciascuna della Rendita italiana, intestate alla detta mia nipote Lia Asquer, e depositate presso il notaio cav. uff. Raffaele Vigna, domiciliato in Roma, ecc., ecc. La detta mia nipote Lia Asquer entrerà in possesso delle azioni non appena presenterà al sullodato notaio cav. uff. Raffaele Vigna l’atto di deposito debitamente registrato e annesso al presente atto testamentario. Nel caso di decesso della detta Lia Asquer il presente atto sarà valido per i suoi legittimi eredi, ecc., ecc.».
— Leggi ancora, spiegami bene, — supplicò la zia Gaina a bassa voce, come vinta da un timore religioso. — Così ricco era? Quanto viene ad essere? E gl’interessi, rosa mia, non se li avrà mangiati il notaio!...
A poco a poco, mentre Lia rileggeva, un’ombra tragica oscurava il viso della vecchia.
— Io non mi sarei fidata così, no! Chi sa adesso se il notaio è vivo, se ti darà i denari subito! Come saperlo?
— Si fa presto: si manda un telegramma!
Ma la vecchia ricominciò a parlar male del povero zio Asquer.
— Egli non ne ha fatto mai una bene, nè in vita, nè in morte. Come è vissuto, matto, così è morto, credi pure, è così! Vedrai che ti costerà fatica riavere i denari, se pure li riavrai. Il notaio sarà morto o sarà fallito; se ne sentono sempre di queste storie. E tu con sedicimila scudi potevi sposare un alto impiegato, uno con un posto fisso! Ed io che ho sempre vissuto nell’idea che i denari fossero dentro la cassa!
Questi brontolii valsero a richiamare Lia alla realtà, come gli spruzzi d’acqua fanno rinvenire uno che è caduto in deliquio. Rispose vivacemente alla vecchia, difendendo il povero zio Asquer, e arrivando a dire che, qualunque cosa accadesse, ella apprezzava egualmente la generosità e la bontà del defunto.
— Del resto, ripeto, è facile assicurarci subito. Farò un telegramma al notaio.
— E fallo subito, allora! Che aspetti? Presto, presto!... — gridò l’altra, correndo affannata a cercare penna e carta. Quando rientrò nella camera, vide che Lia, invece di rileggere il testamento, decifrava ancora la lettera chiusa con le ostie.
*
Dubbio, timore, speranza, agitarono per ore ed ore le due donne. Anche Lia si lasciava suggestionare dalle diffidenze della vecchia, e pensava che davvero non era possibile tanta fortuna in una sola volta: no, era un sogno, un’avventura fantastica. I minimi ricordi del tempo passato le tornavano in mente, e adesso si spiegava tante cose che le erano parse strane. Il contegno dello zio Asquer, il suo carattere, il suo pessimismo, il suo odio al paese natìo, l’affetto bizzarro che nutriva per lei, misto di amore e di rancore. E la figura di Costantina, della serva fedele che doveva essere a parte del segreto, adesso le appariva nella sua vera luce.
Con le braccia incrociate sul petto, seduta sotto il palmizio mezzo inaridito, ella guardava, verso sera, i vapori rossi e azzurri che coprivano il mare, dietro la linea rugginosa della landa, e seguiva da lontano i giochi dei bimbi, quando la zia Gaina apparve sulla porta della casupola e si avanzò lentamente con un foglio giallo in mano. A Lia parve di rivivere in una sera lontana; il lamento d’una fisarmonica vibrava tra i mirteti della brughiera, e la zia portava in mano la lettera dello zio Asquer.... Ed era ancora tale e quale, la vecchia: lo stesso viso ieratico circondato dalla benda nera, lo stesso sguardo fisso, misterioso, lo stesso passo di piedi scalzi che non fan rumore. Dava l’idea d’una di quelle fate messaggere della buona o della mala sorte.
— È la risposta del notaio, — disse Lia, dopo aver letto il telegramma, — è vivo, non è scappato, è pronto a consegnare i danari, — aggiunse, sollevando gli occhi e sorridendo con lieve ironia. Le labbra però le tremavano.
Come in quella sera lontana, la vecchia si lasciò cadere sul sedile di pietra e domandò:
— E adesso che cosa farai?
— Adesso? Adesso non ho più bisogno di far nulla!...
— Ritornerai a Roma?
— No.
— Come, non ti basta neanche tutta quella ricchezza?
— Non basta, zia!
— Ma che cosa si mangia, a Roma? Oro?
— Molti, sì, mangiano oro.
La vecchia ricominciò a brontolare; poi diventò pensierosa:
— Riprenderai marito, Lia?
— No, no! Io non penso che ai miei ragazzi, zia! Vivrò per loro: per il resto del mondo sarò come morta.... Ho vissuto una volta e basta!...
— Così parlava tua madre, sì, ricordo, proprio così!
Lia chinò la testa, e riprese la posizione di prima: ma il suo atteggiamento desolato non impediva alla zia Gaina di fare per conto suo e della nipote mille progetti uno più puerile dell’altro.
Cadeva la sera. I ragazzi del vicinato s’aggiravano attorno alla casupola e fischiavano per richiamare Nino e Salvador; a un tratto s’udì nel cortiletto uno schiamazzo, un urlìo, e come una voce rauca che domandava aiuto.
— Ah, le mie galline! Adesso vi diverto io, ragazzi del diavolo! — gridò la vecchia, correndo verso il cortile.
Lia rimase sola, con le braccia incrociate sul petto, gli occhi smarriti nella lontananza. I vapori dell’orizzonte diventavano rossi, d’un rosso luminoso il cui riflesso incendiava il mare e la brughiera: ed ella provava ancora una volta l’impressione di trovarsi in un luogo desolato e deserto. L’idea che il suo avvenire era assicurato, che ella non avrebbe più avuto modo di pensare alle piccole cose della vita, invece di rallegrarla le dava come un senso di noia: e la domanda della zia Gaina le tornava in mente: — Sì, che cosa farò adesso?
Anche quel senso d’attesa che l’aveva sostenuta nei giorni più tristi era svanito. Ella non avrebbe amato più: la sua gioventù era finita.
Le voci dei bimbi che riempivano di vibrazioni il silenzio del luogo, aumentavano il senso di solitudine che la avvolgeva. Salvador cantava a voce spiegata:
Vogliamo una figlia, madama Dunrè,
e Lia pensava al tempo in cui anche i suoi bambini l’avrebbero abbandonata per appoggiare la loro testa sul cuore di altre donne. Gli occhi le si riempirono di lagrime: ma come attraverso un velo luminoso vide a un tratto sorgere attorno a lei una corona di fantasmi cari: sua madre, il povero zio Asquer, il povero Justo.... Essi, no, non l’avrebbero più lasciata sola, come non l’avevano abbandonata mai, neppure quando ella s’era dimenticata di loro.
fine.
- ↑ Un tesoro.
- ↑ Se nel ritrovare un tesoro si pensa al diavolo, le monete si tramutano in carbone.
- ↑ La falce serve specialmente per il vampiro, che si indugia a contarne i denti; e siccome non gli riesce, poichè non sa contare che fino a sette, ricomincia sempre da capo, e così viene sorpreso dall’alba e costretto a ritirarsi.
- ↑ Sottana.
- ↑ Coperta.