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Fra tanti piedini scalzi, piedini di creta e di bronzo, se ne vedevano quattro calzati con sandali già molto logori e color della polvere: le vicine osservavano, e in breve tutto il paesetto si convinse che Lia Asquer non era ricca come la zia Gaina affermava: una persona benestante non manda i figli così mal calzati.

La zia Gaina fremeva, e ciò che le destava sopratutto rabbia era l’indifferenza di sua nipote alle chiacchiere maligne. Lia viveva in un mondo lontano, pieno di visioni incerte e fosche, di fantasmi paurosi, simile al mondo ove passa, spinta e risospinta da un soffio di morte, l’anima dei febbricitanti. Aveva però la coscienza di trovarsi in uno stato anormale, e aspettava che il turbine e il delirio passassero. Dovevano passare, ella lo sapeva. Altre tempeste le avevano desolata l’esistenza: le sembrava, anzi, che quest’ultimo turbine fosse così rabbioso e insistente perchè non trovava più nulla da devastare.

Una mattina, nello sciogliersi i capelli s’accorse che ne aveva molti bianchi: la scoperta non la addolorò ma la sorprese; si aprì, dividendola sul viso, la folta capigliatura e si guardò nello specchio. Vide che il suo viso era grigiastro e affilato, e che i suoi occhi s’erano rimpiccioliti; si sentì vecchia, e si vergognò d’essersi abbandonata all’amore come una fanciulla di venti anni; e non pensò che era stata appunto la sua passione a consumarla e ad invecchiarla.