Lydia/XIX
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XIX.
Quando Calmi, sapendo Lydia in città, venne a trovarla, ella gli disse subito cogli occhi che lampeggiavano:
— Mi marito.
— Da senno?
— Di passione. Sono innamorata del conte Keptsky, il quale pur essendo il più bel giovane dell’universo, mi fa l’onore di preferirmi.
— Keptsky! — faceva intanto l’avvocato, almanaccando. — Non mi è un nome nuovo.
— È impossibile che lo conosca. Si trova da un mese appena in Italia.
— E in un mese?...
— Le pare strano, nevvero, ma è così. In un mese ci siamo visti ed amati. Ecco una cosa che ho dovuto provare per credere.
— Keptsky, Keptsky.
— È inutile, non lo conosce.
— Eppure non mi è nuovo. Forse ne sentii parlare al Circolo, appunto da amici miei che tornavano da Vienna.
Alcuni giorni dopo, Calmi diceva a Lydia:
— Il suo Keptsky non si chiama Riccardo?
— Sì, Riccardo.
La fronte di Calmi si rannuvolò.
— Perchè me lo chiede?
— Perchè il Keptsky di cui ho udito parlare si chiama precisamente Riccardo.
— E così?
— Così non potrei fare i miei complimenti.
— Calmi, sono scherzi di cattivo genere.
— Dica che sarà un equivoco.
— Il conte Riccardo Keptsky, tenente negli usseri della Guardia, non può essere confuso con nessun altro.
— Negli usseri della Guardia? ma è lui!
Si guardarono in faccia, pallidi.
Lydia tremava come una foglia; l’avvocato sentiva tutta la responsabilità delle sue parole; ma senza uscire dalla abituale freddezza soggiunse:
— Non ritiro quello che ho detto a proposito del tenente Riccardo Keptsky, obbligato a dare le sue dimissioni di ussero della Guardia per malafede e debiti di giuoco. Resta a stabilire l’identità del suo fidanzato, ed è quello che io farò, se me lo permette in nome della vecchia amicizia.
Un tremito nervoso contraeva a Lydia gli angoli della bocca, mentre stracciava colle dita la seta del suo ventaglio.
— Calmi, se non fosse lei che mi parla, lei che conosco da quindici anni, lei che ha visto morire mia madre... le giuro, non l’avrei lasciata finire.
— Ed io lo giuro che, l’interesse che le porto, non basterebbe a farmi uscire da una stoica indifferenza, se in fondo al mio cervello di scettico non ci fosse ancora una coscienza di onest’uomo.
Si lasciarono male, irritati, diffidenti. Lydia pianse tutta la sera, e avrebbe voluto sfogarsi con don Leopoldo, ma don Leopoldo non capiva niente. Allora decise di andare l’indomani a trovare Théa, raccontarle tutto e chiederle consiglio.
Giunse alla Villa in uno stato da far pietà.
Ogni viale, ogni albero, ogni sentiero le rammentavano i bei giorni passati, quel recente incanto di un amore che l’aveva dominata tutta. Rivedeva Keptsky, la sua nobile fronte, i suoi occhi belli e luminosi, e il sorriso e la voce. — Impossibile! — mormorava tra sè — impossibile! Eppure aveva un affanno nel petto che la schiantava.
Fu ricevuta dalla contessa Colombo, la quale disse essere sua figlia leggermente indisposta, non poter vedere nessuno, ma che certamente avrebbe fatta un’eccezione per lei.
Dopo mezz’ora comparve Théa. Entrò nel salotto, e corse subito ad abbassare tutte le cortine, gridando che c’era una luce da acciecare; poi abbracciò Lydia con grande espansione, con un entusiasmo esagerato; e incominciò a parlare a parlare vorticosamente, con una eccitazione di tutti i nervi, con la voce che strideva. Lydia, prostrata, le chiese se sapeva nulla; al che la baronessa rispose che certi segreti non si possono tenere celati, ch’ella si era accorta fin dal principio dell’impressione fatta sul cuore di suo cugino, ch’ella stessa lo stava spronando a dichiararsi, e nulla la colmava di maggior gioia che un simile matrimonio. Tornò ad abbracciarla, baciandola sonoramente sulle guancie.
Lydia rinasceva, le si allargava il cuore. Ah! come aveva potuto dubitare di lui? E su che appoggio? Per delle ciarle di club, per un pettegolezzo volgare. Arrossiva adesso.
Per nulla al mondo avrebbe osato ripetere a Théa quelle calunnie. Le disse appena, vergognandosi dell’insinuazione:
— Tu lo conosci bene?
— Riccardo?... come un fratello; l’onore e la lealtà personificati. Non è ricco...
— Oh! — interruppe Lydia con un gesto vivace.
Si intrattennero ancora, diffusamente, sul matrimonio. La baronessa aveva annunziato il suo ritorno definitivo a Vienna, ma dietro insistenza di Lydia promise di fermarsi per farle da madrina.
— Sacrifico l’amor materno all’amicizia — soggiunse con enfasi; — sono due mesi che mio figlio mi aspetta, ma aspetterà ancora. Voglio condurti io all’altare.
Lydia lasciò la Villa in un’estasi beata. Era come se avesse subita una operazione da cui dipendeva la sua vita.
Il giorno dopo venne Keptsky tenero, amoroso, con un velo di malinconia che lo rendeva irresistibile. Lydia, che si sentiva in arretrato d’amore e quasi colpevole di lesa fiducia, lo accolse con tutte le sue grazie.
— Mi sembrate triste?
— Un po’.
— Tristezza e amore possono dunque andare d’accordo?
— Più spesso di quanto si creda. Ho ricevuto una brutta notizia.
Ella principiò a tremare, ma si chetò subito, quando seppe che si trattava di una perdita di denaro.
— Se non è che questo!
— Mi amereste anche se fossi povero, Lydia?
Che raggio celeste ne’ suoi occhi! Un’ombra soavissima ne smorzava l’ardore, mentre stringeva le mani della sua fidanzata, continuando a voce bassa e fervente, la voce di un fanciullo che si confessa per la prima volta.
— Temo di non essere degno di voi.
— Oh! Riccardo...
— Ho avuto una gioventù dissipata; sono stato imprudente, avventato, mi sono creato molti nemici.
Lydia era indignata per la malignità del mondo. Ecco dunque tutte le colpe di Keptsky: imprudente, avventato; e se ne confessava come di falli gravi, spontaneamente.
Avrebbe voluto esser regina per innalzarlo fino a lei. Quelle confidenze accrescevano il suo amore, mettendogli accanto una compassione, un desiderio di riabilitarlo, di compensarlo. Lydia era ben fatta per sfidare la società, e meglio di chiunque poteva comprenderne l’odio.
Egli le parlò a lungo dei suoi dissesti finanziari, dell’avere abbandonato il reggimento per un puntiglio d’onore; e de’ suoi progetti per l’avvenire e del desiderio di vivere il loro primo anno di matrimonio in Podolia, nell’antica casa de’ suoi avi.
Lydia acconsentiva a tutto, in silenzio, rispondendo appena alle sue strette di mano, col cuore così gonfio di tenerezza che non poteva esprimersi in altro modo.
La storia di Keptsky non era la sua? Incompreso, viziato, solitario in mezzo alla gente, troppo nobile per piegarsi alle bassezze dei più, indipendente, temerario, fiero, sdegnoso. Piccole lagrime le colavano dagli occhi lungo le guance. I vili! I vili! Mesceva la sua vita a quella di Keptsky; rinnovava i suoi dolori, i suoi disinganni per dividere meglio quello di lui, e in tale cruccio profondo, una profonda contentezza le veniva, pensando che il destino li aveva riuniti, che tutto si poteva ancora dimenticare, cancellare, che sarebbero così felici da non avere nemmeno più odio per il mondo, ma solo un grande, un infinito oblio....
Non ricordava nè Calmi, nè le sue accuse, quando ricevette un laconico bigliettino dell’avvocato: “Vi è un solo Riccardo Keptsky, il quale non è conte, non è tenente degli usseri poichè ne venne cacciato, e non è nemmeno un uomo onesto avendo truffato al giuoco.„ Lydia rispose: “Non riconosco a nessuno, nemmeno ad un antico amico, il diritto di calunniare l’uomo che io stimo più di tutti al mondo.„
Calmi non replicò, nè per lettera nè a voce. Evidentemente la sua intenzione non era quella di ingolfarsi in un delicato affare di famiglia.
Intanto Lydia pensava: Come si fa presto ad esagerare! Una leggerezza, un’infrazione di disciplina, un momento esaltato, un colpo di avversa fortuna, ed eccoti un uomo a terra; gli si contesta perfino il titolo di nobiltà. Senza fatica, le tornavano alla mente le numerose circostanze che l’avevano gettata anch’essa in balia dell’opinione pubblica, e rideva di un riso mordace, fatto di sprezzo.
Non era conte. E quand’anche? la nobiltà l’aveva scritta in viso, più di chiunque era degno di portarne i distintivi. A voler rivedere le buccie a tutti quelli che inalberano una corona sulle loro carte da visita, ci sarebbe da distruggere mezza nobiltà. Faceva spalluccie, tra nauseata e indifferente.
E poi pensava ancora: Ha commesso degli sbagli? Non ha pagato forse un debito di giuoco? Oh! i grandi delitti del codice mondano. Ha... (cercava nella sua mente qualche cosa di più grave ancora, ma crollando la testa concludeva): Ebbene, fosse pure colpevole, io lo amo. Non è una bella parte dell’amore il perdono? Non ha detto Gesù: Chi è senza colpa getti la prima pietra?
Cacciato dal reggimento: Queste parole tornavano a vibrare nei nervi di Lydia, ad assolutoria terminata, e un sudor freddo le bagnava le tempie. Si figurava Keptsky avvilito, fatto segno ai sarcasmi, obbligato ad abbassare quella bellissima testa, e fuggire, andare in esilio solo, abbandonato... Tutti i suoi nervi si stendevano, battuti; dal cuore le saliva un’onda impetuosa che le faceva groppo in gola, e si scioglieva poi, scompariva alle estremità, dandole l’impressione di essere dissanguata. Le braccia le cadevano lente, moveva le labbra sulle quali sembravano volare in silenzio delle preghiere e dei baci. Non poteva, non poteva condannarlo!
E dopo avere accolto Keptsky colpevole, sentiva di amarlo ancora di più. Una specie di furore appassionato la attaccava a quest’uomo che ella difendeva in faccia al mondo e in faccia a sè stessa. Keptsky senza macchia apparteneva ancora alla società; così era tutto suo. Ella fremeva, gettando questo guanto di sfida all’ipocrita società, poichè l’odio che fermentava in fondo del suo amore le prestava forze da Titano.
Il disgusto della vita le faceva apparire divino l’amore che ella non aveva mai conosciuto, e che la dominava con tutta la violenza delle passioni in ritardo. Il tempo perduto la incalzava; la minaccia dei capelli bianchi le diceva: affrettati a godere. E Keptsky era ai suoi piedi, ardente, innamorato, bello come un bel sogno.
Egli aveva lasciato la Villa di sua cugina per stare in città, accanto alla fidanzata, dalla quale andava due volte al giorno. In meno di una settimana fece la conquista di don Leopoldo, per modo che il povero vecchio aspettava Keptsky con una impazienza quasi eguale a quella di Lydia. Siete un charmeur, diceva Lydia a Keptsky. Sui miei libri di bambina mi ricordo di aver visto un incantatore di serpenti; voi gli somigliate un poco. Egli sapeva accarezzare le piccole debolezze di don Leopoldo; aveva l’arte di interessarlo lasciandolo parlare e fingendo una attenzione scrupolosa. Sembrava che egli, Keptsky, l’elegante giovane della fine del secolo, fosse contemporaneo al vecchio gentiluomo, tanto sapeva vestire lo spirito di quei tempi lontani, fondersi, immedesimarsi colle rimembranze e coi rimpianti di lui.
Una impressionabilità fina, geniale, una delicatezza da mimosa, una intelligenza sottile, pronta ad afferrare tutte le sfumature del pensiero, erano queste le doti speciali di Keptsky, le doti esterne che si univano alla sua grande bellezza slava.
Quando Keptsky non era presente, don Leopoldo e sua nipote ne parlavano, esaltandosi a vicenda, scoprendogli ogni giorno nuove attrattive. Dalla Villa poi giungevano, un dì sì e l’altro no, dolci bigliettini di Théa, pieni di lieti pronostici, con lamenti rassegnati e discreti, perchè Keptsky non si lasciava più vedere.
Si era già scritto per le carte di regola; il matrimonio fissato ai primi di ottobre; tutto scorreva liscio, blando, senza intoppi, in un cielo sereno.
Lydia si occupava del corredo colla sua lunga esperienza di civettuola; avrebbe voluto poter riunire in un fascio tutte le armi de’ suoi trionfi passati, se non che l’enumerazione non era facile, e certe bizzarrie che a vent’anni erano state coronate dal successo, come le avrebbe arrischiate e trentatrè?
Il rimpianto di una giovinezza perduta, perduta così inutilmente, si mesceva alla gioia di questi preparativi. Come era stata fresca, viva! Come erano stati folti i suoi capelli! e bianchi i suoi denti! e il suo collo rotondo!
Oh! se ella potesse dare a Keptsky, oltre il cuore, l’avvenenza intatta, l’avvenenza di una volta; essere sua per l’affetto e per il piacere, essere l’amore, ma anche la passione, ma anche il tripudio di due giovinezze!
Non era innocente; sapeva la larga parte che tengono i sensi nell’amore dell’uomo, e, cresciuta al culto della forma, adorava troppo il bello per non crederlo indispensabile. Baciava le sue mani, ringraziandole quasi per essersi conservate in tutta la purezza delle linee. Si consultava davanti allo specchio, provava e riprovava acconciature. Certi giorni, certe ore, la sua bellezza aveva degli improvisi fulgori; meriggi autunnali dal colorito intenso di porpora e d’oro, dove la natura sembra raccogliere tutte le sue forze nel vigore disperato della tavolozza, profondendo il vermiglio ai frutti, il biondo alle messi, la voluttà negli occhi della donna.
Dopo essersi lavata con acqua odorosa, sparse le guancie di polvere di riso, messa una leggera tinta di carminio sulle labbra, una sfumatura sotto gli occhi, un abito che le stava bene, lasciava lo specchio soddisfatta, e nell’espansione del contento, i suoi occhi brillavano, il sorriso si schiudeva fresco come una volta. Ma lei sola conosceva gli scoramenti della sera, quando nella sua camera la luce spietata delle candele segnava bruscamente le ombre, mettendo in rilievo le angolosità. Era un affanno pauroso ad ogni velo che cadeva, una contemplazione insistente, minuta, e nello stesso tempo sbigottita e indignata, come di avaro che trova lo scrigno vuoto.
Chi aveva appassito la sua bellezza? Non i baci, non le carezze ardenti che bruciano le carni nell’ora del delirio e sembrano lasciare il solco; non i desiderî che maturano le estasi degli amplessi, e dissolvono in un istante la vita di molti anni. Ella, vergine e pura, non si era data all’amore; il tempo l’aveva presa.
Oh! tornare indietro, tornare indietro!
Questo l’anelito supremo, il grido straziante di Lydia.