Lydia/XVIII
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XVIII.
Don Leopoldo non aveva proprio niente di serio; ma povero vecchio, al pari dei bambini, amava le carezze, e Lydia sapeva accarezzare tanto bene, quando voleva.
Si trovava appunto in un periodo di tenerezza; il suo nascente amore la rendeva buona. Sentendosi ricca, faceva elemosina d’affetto.
Passò due giornate intere presso la poltrona dello zio, a leggergli la Revue, a cullarlo, a baciucchiarlo. Spesso il suo pensiero era assente, ma la parola le veniva sempre dolce sulle labbra, e se qualche volta le gentilezze prodigate a don Leopoldo avevano nella sua mente un’altra destinazione, c’era anche lo slancio spontaneo che le faceva esclamare: caro il mio vecchietto! — e questo era tutto per lui.
Non andò guari che gli parlò di Keptsky. Esso divenne anzi l’unico tema di conversazione; accadeva bensì che don Leopoldo si addormentasse, udendo la ventesima descrizione degli occhi azzurri di Keptsky; ma ciò non impediva a Lydia di continuare, poichè l’attenzione di don Leopoldo era un coefficiente di poca importanza, in confronto alla necessità che ella aveva di parlarne.
Provò, in quei giorni, una grande intuizione di vita intima. Scoperse nella casa un orizzonte di felicità non mai avvertito prima. Le cortine distese, le poltroncine avvicinate, un cuscino gettato per terra, le facevano nascere pensieri teneri e dolci.
Le stesse per rifare l’esistenza? Le sembrava di avere sbagliato tutto, di aver visto ogni cosa alla rovescia. Una riflessione la rese triste; si ricordò una sera nella quale Calmi era alle prese con un sigaro nuovo, che non si poteva fumare; ella gli disse: provi dall’altra parte; egli rispose: per i sigari, come per gli uomini, non vi sono nè due strade nè due destini; quando non vanno, bisogna far così. E aveva gettato il sigaro dalla finestra.
Ma questa vampata pessimista durò poco. Ella stringeva la felicità, e non voleva lasciarla per delle teorie.
Aspettava notizie dalla Villa; sperava che Théa insistesse per farvela tornare. Tutta una settimana passò nondimeno, e le notizie non vennero. Allora incominciò ad essere nervosa.
Si era in agosto, la città spopolata, il caldo insopportabile, e tutte queste noie ella incolpava alla mancanza di Keptsky. Pensava a lui di giorno, di notte, sempre. Chiudeva gli occhi e lo vedeva. Un suo groom aveva la stessa voce di Keptsky; quale profanazione!... ma era nello stesso tempo una gioia.
Non avendo amiche nè ritrovi, usciva il mattino per tempo, sola, come già faceva altre volte, prendendo sempre la stessa strada fuori della porta che conduce alla Villa: le sembrava così di avvicinarsi a lui, di respirare un po’ dell’aria sua, e, senza saperlo, una speranza le folleggiava nel cuore.
Fu mediocremente sorpresa — forse la sorpresa era sorpassata dal piacere — un mattino, incontrando Keptsky a cento passi da casa.
— Ve lo avevo detto che ci saremmo riveduti.
— Sì, sì, è una bella sorpresa questa; vi ringrazio.
Era commossa: le tremava la voce. Le sue manine, nelle mani di lui, stavano aggrappate e salde, quasi temesse di vederselo sfumare davanti.
— Ebbene — fece Keptsky sorridendo — vi posso dunque accompagnare?
— Certo.
— Che dirà il mondo?
— Non me ne parlate! — esclamò Lydia con disgusto.
— La France c’est vous — soggiunse Keptsky, e tornò a sorridere per la seconda volta.
Senza aggiungere altro, ella continuò a camminare nella via solitaria, a passi lesti, portando la leggerezza aerea della sua felicità.
— Vi presenterò a mio zio.
— Ci conto.
— Ma prima camminiamo, camminiamo... vorrei volare.
Dopo una cinquantina di passi dovette fermarsi: levò dal petto un fazzolettino di batista celeste, e si fece vento alle guancie.
— E Théa?
Questo nome cadde così improvvisamente fra loro due, che il giovane, ad onta del suo grande dominio su sè stesso, ebbe un istante di esitazione.
— Mia cugina mi ha incaricato di salutarvi.
Non aggiunse altro. Una rimembranza molesta era passata qual lampo nella mente di Lydia, ma la cacciò via subito. La realtà era lì, bella, affascinante.
Parlarono delle loro gite a cavallo. Lydia gli chiese se avesse cavalcato ancora negli scorsi giorni.
— No, mi avrebbe fatto troppa malinconia.
Come a lei. Ah! che tentazione di gettargli le braccia al collo! Per non tradirsi si pose a ridere, facendo risuonare i braccialetti, tirando i guanti che le scivolavano giù dalle braccia, e dopo un po’ di tempo, disse:
— Che caldo, nevvero?
Guardarono il cielo tutti e due con grande attenzione, sentendo che i loro sguardi si incontravano in quel punto lontano.
E poi parlarono di libri, di giornali, di musica.
— Vedrete il mio piano; è un capolavoro di eleganza e di sonorità. Io vi accompagnerò, e voi mi canterete la serenata di Gounod: Quand tu dors...
Si pose a gorgheggiare sottovoce, mollemente.
— Più distacco nei toni, così: Quand tu dors, ton visage me semble plus beau.
Egli aveva una voce calda, giovane, che dava brividi di piacere, che sembrava solleticare il midollo delle ossa. Non c’era nessuno intorno a loro. Davanti la campagna, a tergo le mura della città; ed era come se fra essi e l’universo ci fosse di mezzo un abisso.
Il discorso cambiò ancora. Egli disse che aspettava lettere da Vienna, che intendeva di prolungare il suo soggiorno in Italia più che fosse possibile, che l’Italia era stata per lui una rivelazione.
— Se mi promettete di non ridere, vi confesserò che io torno a vedere qui il dolce fantasma della mia infanzia, le pallide sultane dai capelli lunghi, dagli occhi di gazzella. Non avete mai sentito voi il desiderio di un mondo immateriale, di un amore fatto di sogni?
— No, non lo aveva mai sentito, ma non importa; capiva lo stesso, capiva tutto.
Egli continuò:
— Il desiderio dell’impossibile che ci strugge, che ci tormenta, che ci avvelena ogni gioia passata, e ci spinge febbrilmente avanti, sempre avanti...
Una frescura era scesa su di loro, mite, leggera come un velo di piccole perle; vaporava nell’aria un odore sano di terra bagnata.
— Piove — disse Lydia; e aperse l’ombrellino di merletti.
— Vi riparerà poco.
— Meglio che nulla.
— Siete di coloro che si accontentano del poco? — domandò Keptsky, togliendole l’ombrellino di mano, per reggerglielo.
Lydia non rispose. Con un movimento grazioso, pose la sua manina libera sul braccio di lui.
— Avete ragione — fece egli sorridendo, stringendola a sè — meglio che nulla...
— Vi ricordate di aver visto una incisione francese? il viale di un parco in una giornata grigia di inverno, un uomo col costume del secolo passato, col tricorno e i calzoni corti? una donna al suo braccio, delicata, coperta di pelliccie? L’uomo, con una mazzettina, tenta l’erba del sentiero; la donna a mezzo voltata verso un amorino di pietra, esclama: Pauvre amour! Ricordate?
— Mi pare. È una cosina sentimentale e triste, di quella tristezza vaporosa che piace alle donne, non alle donne come voi però.
— Mi conoscete così bene?
Egli la guardò senza rispondere.
Andavano di buon passo, ma la pioggia cresceva, l’ombrellino sembrava un cencio lavato. L’abito di Lydia, di finissima tela, le si incollava sulle braccia, sulle anche, attorcigliandosi intorno alle gambe come un cavatappi.
— Non posso più correre — disse Lydia a un tratto.
— Perchè?
— M’è entrata l’acqua nelle scarpe, sono fradicie.
Tentava di ridere, stringendosi al braccio del suo cavaliere, colla spalla appoggiata al petto di lui.
— Se potessi prendervi in braccio!
Ella fremette tutta, e per un momento chiuse gli occhi, lasciandosi trascinare. Erano alle porte della città.
— Ora troveremo una carrozza.
Infilarono il sobborgo, lungo, spopolato, dove appena qualche fanciullo diguazzava nei rigagnoli della strada.
— Che cosa dirà mio zio!
Keptsky la incoraggiava, portandola quasi di peso, cercando per lei i posti più asciutti, essendo lui pure intriso d’acqua, ma badando solamente a lei. A uno svolto, vedendo che si stendeva un’altra via lunga, deserta, allagata tanto da sembrare un fiume, Lydia fu presa da scoraggiamento.
— Non ne posso più!
— Fermiamoci — diss’egli.
Ripararono sotto la porta di una casa in costruzione.
Ella si appoggiò al muro, tremante, intirizzita, colla faccia pallida, dove sfolgorava tuttavia la gioia di trovarsi vicina a lui.
— Siete così delicata che ho paura abbiate a prendere qualche male...
Lydia si strinse nelle spalle; rassegnata e sorridente.
— Lasciatemi asciugare i vostri piedi.
Ella ne sollevò uno, fiduciosa e grata, con uno sguardo di bambino che si abbandona alla madre.
— Povero piedino!
Aveva un paio di calze sottili come una ragnatela e delle scarpe scollate, con fibbie di lustrini neri. Keptsky lo asciugò bene, colla sua pezzuola, e poi lo tenne ancora fra le mani un pochino per riscaldarlo.
— L’altro, ora.
Nel cambiamento perdette l’equilibrio, e si appoggiò un istante sulla spalla di lui. Risero entrambi; Lydia rideva tuttavia col piede nelle mani di Keptsky, intanto che lui lo asciugava. Rideva, ma avrebbe anche pianto, perchè si sentiva serrare alla gola da una emozione grandissima, da una gioia così strabocchevole, così acuta, che le metteva un velo davanti agli occhi.
Egli la guardò con tenerezza.
— State un po’ meglio?
Accennò di sì, col capo.
Appoggiatevi a me; sarete più comoda che a ridosso del muro.
Lydia accondiscese, essendosi prima levati i guanti che erano tutti inzuppati; ma presa da una improvvisa e stranissima vergogna per le sue braccia che restavano mezzo nude, tentò di nasconderle tutte e due sotto il braccio di lui. Gli era così vicinissima.
— Che cosa pensate? — disse Keptsky, dopo un po’ di silenzio.
— Non lo posso dire.
Ella pensava che sarebbe morta volontieri in quel momento, se il suo corpo, dissolvendosi, doveva abbracciare quello di Keptsky.
Comprese egli ciò che passava nell’animo di Lydia? Si chinò verso di lei, mormorando:
— Cara, cara...
Ella si scosse; fece per ritirare le sue braccia, ma egli le tenne avvinghiate.
Un uomo usciva dalla casa; si fermò un istante accanto a loro, li guardò con indifferenza, aperse l’ombrello e si allontanò.
— Non abbiate paura — disse Keptsky accorgendosi ch’ella tremava; e presa una delle sue mani la strinse con tanta dolcezza appassionata ch’ella si sentì svenire.
— Keptsky — mormorò, sollevando gli occhi, dove era un infinito desiderio d’amore.
Non dissero altro, cogli sguardi perduti negli sguardi, ascoltandosi palpitare.
La pioggia stava per finire; qualche goccia appena colava ancora dai tetti, dagli sporti delle finestre. Senza parlare uscirono dalla casa che li aveva riparati. A metà via incontrarono una carrozza vuota.
— La fermo? chiese Keptsky.
— Sì.
Le loro voci erano cambiate, frementi come le corde di un’arpa dopo la tormentosa voluttà dei suoni.
Egli la prese in braccio e la pose nella vettura, accomodandole intorno le vesti molli.
— Grazie — disse lei, porgendogli la mano.
Keptsky la baciò, delicatamente, prima di chiudere lo sportello; ma Lydia tornò ad aprirlo.
— A rivederci. Presto.
La carrozza si era già mossa, Keptsky le sorrise, da lungi.
Il ritorno fu tutto un sogno. Lydia si trovò a casa, cambiata, asciugata, rivestita, coi piedi entro due pianelline di raso éliotrope e seduta accanto allo zio, senza poter dire a sè stessa come tutto ciò fosse avvenuto.
Don Leopoldo teneva la Revue des deux mondes aperta sui ginocchi, avendo tra i ginocchi e la Revue, uno sciallo di flanella a scacchi bianchi e neri. La sua povera mente affievolita era divisa fra due pensieri: il temporale che aveva côlto sua nipote e il nuovo romanzo incominciato; al punto che quando Lydia entrò, egli le disse per prima cosa:
— È incominciato il nuovo romanzo.
Poi si pose a rimproverarla dolcemente per le sue scappate, accumulando la pioggia, i suoi reumi, il riserbo di una fanciulla e i parafulmini che non fanno sempre l’ufficio loro.
Lydia lo lasciava dire; aveva appoggiata la testina sullo scialle di flanella, e i borbottamenti del vecchio le facevano l’effetto blando di una ninna nanna. Solamente per acquietarlo, gli raccontò che non era rimasta sola sotto la pioggia, che il più bello, il più nobile, il più elegante dei cavalieri l’aveva protetta e scortata, ma abbandonandosi alla gioia di nominare Keptsky, si dilungò nei particolari, nella dolcezza di trovarsi tutta molle d’acqua sotto l’arco di una porta...
— È un piacere da lavandaia — interruppe don Leopoldo, a cui un barlume dello spirito antico fece schiudere le labbra sorridenti sulla dentiera.
Quante principesse vorrebbero essere lavandaie! pensò Lydia.
— Il romanzo nuovo è di Feuillet — continuò don Leopoldo, tornando alla seconda idea — si chiama La Morte.
Lydia non ascoltava. Aveva davanti agli occhi il collo di Keptsky, un pezzettino di collo tra l’orecchio e il mento, bianco, muscoloso, che si perdeva in alto sotto i capelli castagni tagliati corti, che aveva un profumo forte di giovinezza, il profumo di un prato falciato di fresco.
— La Morte — tornò a dire don Leopoldo, segnando coll’indice scarno il frontespizio del romanzo.
— Che hai, zio?
— Vuoi leggere?
— Ora no, se non ti dispiace, più tardi; sono un po’ stanca.
— La flanella, Lydia, la flanella.
Il vecchio volle togliersi lo scialle d’in su i ginocchi per metterlo addosso alla ragazza.
— No, zio, sto bene.
— Allora...
Si fermò, colla bocca aperta, l’occhio imbambolato, non ricordandosi più quello che voleva dire. A poco a poco chiuse le palpebre, preso da un torpore senile; la testa gli ciondolò sul petto, le mani gli si allentarono, lasciando sfuggire la Revue, che cadde per terra.
— Ah! — fece Lydia, trasalendo — ella vedeva ancora il collo di Keptsky.