Lydia/XX
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XX.
Prima di affiggere le pubblicazioni, don Leopoldo volle riunire ad una serata gli amici intimi, per annunciare in forma ufficiale il matrimonio.
Vennero Calmi, Lante, i Castel Gabbiano, uno degli Strutti, la contessa Colombo, Théa pavoneggiando la sua importanza di madrina. Lydia aveva scritto un bigliettino affettuosissimo alla signora Avella, invitandola, ma Eva era in puerperio; le rispose augurandole ogni possibile felicità.
Quella pubblica presentazione di Keptsky fu per Lydia un vero trionfo. Tutti la conplimentavano lasciandosi dietro occhiate di ammirazione e d’invidia all’indirizzo di Keptsky, che erano per lei la più squisita soddisfazione, quasi una rivincita sul maritarsi così tardi.
Si avvicinò a Calmi, sorridendo dall’alto della sua felicità, agitando un ventaglio di velo nero su cui erano dipinti degli amorini.
— Le ho perdonato, sa; siamo generosi. Non le voglio nemmeno chiedere, per non vederla confusa, il suo giudizio personale sul mio fidanzato.
Calmi non rispose subito, ma la guardò con una serietà così piena di commiserazione che ella sentì vacillare la propria fermezza.
— Vediamo, cattivo scettico, perchè mi vuol turbare queste ore di gioia?
Sedette accanto a lui, dolce, carezzevole, coll’intenzione di persuaderlo. Era il suo più vecchio amico, dopo tutto, e quella freddezza, quel disprezzo, non potevano lasciarla indifferente.
— Calmi, sia ragionevole; le pare ch’io possa dare molto peso a quistioni di titoli, di debiti, di follie giovanili, quando il colpevole, ravveduto, mi dedica tutta la sua vita, tutto il suo amore?
— Senta — disse Calmi, facendo uno sforzo per dominarsi — non è il momento per discorrere di queste cose; del resto, non mi ascolterebbe, non è vero? Quand’anche le dicessi che egli è...
Si frenò a tempo. Un pallore livido invadeva le guance di Lydia.
— Vede bene, cara amica, che non è ancora abbastanza forte per sostenere la verità.
Non l’aveva mai chiamata, cara amica; una compassione profonda lo commoveva suo malgrado.
— Sarò forte, ma... non ora. Ha ragione lei, non ora.
Si alzò di scatto, correndo correndo come una macchina montata, finchè cadde quasi nelle braccia di Théa.
— Bellina mia, come sei pallida! — esclamò la baronessa, accomodandole maternamente i capelli sulla fronte.
— Dimmi che mi vuoi bene, Théa, ho bisogno di sentirmelo ripetere.
— Ecco uno che te lo ripeterà meglio.
Con un gesto grazioso la baronessa indicò Keptsky, che si avanzò sorridendo verso la sua fidanzata; ed egli pure disse, cambiando subito il sorriso in un affanno ansioso:
— Siete pallida, mia Lydia.
Non ebbe bisogno di aggiungere altro. Guardandolo, Lydia dimenticò le parole di Calmi.
Ma passò la notte, venne l’indomani, le parole gravi di Calmi le tornavano alla memoria. Avesse avuto una madre, un fratello a cui affidarsi...
Ad ogni modo, volle togliersi la spina. Lo mandò a chiamare, pregandolo, per quanto stimava di più al mondo, di dirle tutto quello che sapeva a proposito di Keptsky.
L’avvocato vide che non era più il caso di indietreggiare nè di mascherarsi dietro mezze parole. Si trovava davanti a un dovere di galantuomo; egli era in obbligo di chiarire la verità a quella fanciulla che gliela domandava, sul punto di firmare il suo avvenire.
— Quello che mi chiede è serio, molto serio. Non so se altri nel mio caso accetterebbe la responsabilità di distruggere una fede così viva. Io l’accetto. Se avessi una sorella, se questa sorella stesse per isposare Riccardo Keptsky, io le direi, come dico a lei, Lydia Valdora: Keptsky è un ipocrita.
Era preparato a vedere Lydia in deliquio, ma non ne fu nulla. Stette ritta nella sua poltroncina, le dita aggrappate a’ bracciuoli, le labbra contratte, gli occhi dilatati — relativamente tranquilla. Con un filo di voce gli chiese:
— Le prove?
— Senza beni di fortuna, avvezzo ad una vita brillante, dopo essersi retto per molto tempo sulla fortuna del giuoco...
Lydia interruppe con asprezza:
— Queste non sono prove.
— Obbligato infine a dare le dimissioni di ufficiale, disperato, senza un soldo, rovinato nella riputazione, venne in Italia dalla sua amante, baronessa Won Stern...
— Le prove, le prove — mormorava Lydia soffocata.
— Le prove verranno. Intanto consideri la situazione: da una parte Keptsky disperato alla vigilia del suicidio; dall’altra l’amante che non può salvarlo, che non ha mezzi disponibili, avendo già speso per lui somme enormi e fra loro, ingannata e tradita da entrambi...
Ella fece un gesto supplichevole. Troppe volte aveva subita l’umiliazione di sapersi amata per i suoi denari; questa volta non poteva sopportarla. Le sembrava di fare un cattivo sogno dal quale tentava invano destarsi; le venivano dinanzi agli occhi scene passate, dettagli che prima le erano parsi insignificanti, occhiate, parole a voce bassa, segni di convenzione; l’agitazione di Théa per l’arrivo di Keptsky, i loro colloqui intimi, e quella sera in cui li aveva sorpresi accanto al pianoforte...
Vedendola così assorta, Calmi pensò che ella combatteva l’estrema battaglia, e volle venire in suo aiuto con un argomento decisivo.
— Infine — le disse — una prova chiara, inconfutabile di tutto ciò...
Ma Lydia non lo lasciò finire. In preda ad una esaltazione dolorosa tese le braccia verso Calmi, col viso stravolto, tutta palpitante e contratta a guisa di naufrago che tenta afferrare l’ultima tavola di salvezza.
— Non importa, non mi dica più nulla. Che abbia mancato alla parola, che abbia truffato, che sia fuggito come un ladro, che sia stato l’amante di Théa, tutto tutto gli perdono. Ora è mio, capisce, Calmi? è mio, lo amo, lo voglio. Che importa a me quello che è stato? Che importano a me i giudizi del mondo? Io lo amo.
Parlava convulsamente, a voce rotta e supplichevole, con gli occhi velati di lagrime.
Calmi si sentiva a disagio, in quella parte di carnefice; era anch’egli un po’ turbato. Le prese le mani lentamente, con molta dolcezza, scegliendo le parole che potessero ferirla meno; la venne persuadendo che non giovava illudersi, Keptsky essendo legato più che mai alla baronessa sua complice.
— E allora — si pose a gridare Lydia, sotto il parossismo di una improvvisa reazione, investendo l’avvocato, perchè non ha parlato prima? Perchè ha lasciato che il matrimonio si facesse pubblico? perchè non si è presentato lealmente, apertamente, in faccia a tutti, sostenendo la sua accusa? È dunque lei l’ipocrita che non ha il coraggio delle proprie opinioni, è lei che ferisce a tergo come i vili!
Due macchiette vermiglie colorirono momentaneamente le guancie di Calmi; sollevò i freddissimi occhi, e guardandola bene in faccia, rispose:
— Si ricordi come ha ricambiato i miei primi avvertimenti; io non avevo nessun diritto per insistere. Allora poi conoscevo solamente la metà di queste accuse. Sulla fede di amici che hanno vissuto a Vienna nella medesima società di Keptsky, le dissi che egli era un cavaliere d’industria, o giù di lì. Da pochi giorni una circostanza, che a lei premerà poco di sapere, mi pose tra le mani tutto il nodo dell’intrigo.
Lydia, che aveva ripreso un apparente dominio di sè stessa, lo pregò a spiegarsi interamente.
— La baronessa, che lei crede stabilita alla Villa, è infatti alla Villa, per forma; ma viene in città tutti i giorni e si trova con Keptsky dalle due alle sei.
— Le ore che egli non passa con me! — gemette Lydia; ma presa da una speranza ostinata, soggiunse: — Tuttavia, ciò non vorrebbe dire gran che; sono cugini, sono amici, hanno degli interessi comuni...
— Per questo sì, ma è persuasa che se fossero interessi leciti non andrebbero a dibatterli in una camera d’affitto? Perdoni se non metto veli; non mi sembrano del caso.
— Voglio vedere! — esclamò Lydia a un tratto.
— Vedere che cosa?
— Essi.
— Sarebbe la prova più convincente — disse Calmi prontamente; — ma per vedere...
Lydia, comprendendo la reticenza, ebbe un sogghigno pieno di sarcasmo:
— Oh! non ho falsi pudori. Dovrebbe conoscermi e sapere che non indietreggio davanti a nulla. Mi conduca con sé.
— Dove? — balbettò Calmi con imbarazzo.
— In quella casa. È appunto l’ora.
— Ma lei non sa...
— So, so, non si preoccupi di questo.
— Ma io vado per solito...
— M’immagino anderà con un’altra compagnia. Oggi faccia penitenza. Non sono ancora tanto brutta da farla vergognare!
L’ironia pungente, disperata di quest’ultima frase colpì l’avvocato più che tutto il resto. Egli tentò ancora di smuoverla da quel progetto arrischiato; ma Lydia gli si buttò ai ginocchi scongiurando, e quando egli l’ebbe rialzata, gli gridò coi denti stretti, risoluta:
— Se non vuole darmi la prova che le domando, crederò che ella ha mentito.
— Andiamo — disse Calmi.
Sulla soglia di quella casa, Calmi fece arrestare la vettura da nolo che aveva presa per condurre seco Lydia.
Ella, nervosa, voleva scendere subito, ma l’avvocato si lusingava ancora di poterla trattenere:
— Aspetti. Li vedrà uscire. Qui è sicura.
Per un momento Lydia si chetò, poi l’eccitazione la riprese, violentissima. Aveva visto dal fondo della via venire Théa, a passi lenti e molli, facendo ciondolare l’ombrellino sull’indice. La sua maglia di lustri neri scintillava al sole.
— È lei! — gridò, con una specie di urlo senza suono, che le si perdette nell’ugola.
Théa passò davanti alla carrozza, voltando la testa dall’altra parte; si fermò un secondo, gettando una lunga occhiata in giro, indi scomparve rapidamente nella porta.
— Egli non è venuto — disse Lydia.
Un triste sorriso increspò le labbra dell’avvocato, vedendo come la povera creatura si attaccava alla speranza.
— Egli è già di sopra.
— Scendiamo allora.
— Aspetti un po’.
— No, no, scendiamo.
Aperse violentemente lo sportello, trascinando l’avvocato.
Lydia non vide nulla, nè la scala, nè l’uscio. Si trovò, più morta che viva, in uno stanzino sconosciuto, quasi buio, una specie di ripostiglio. Calmi l’aveva fatta sedere, e le stava accanto, tenendole le mani, come un operatore che conta le pulsazioni del paziente.
Dal tramezzo sottilissimo, s’udiva nella camera attigua il bisbiglio di due voci. Lydia tratteneva il respiro. Erano parole staccate, che non si capivano bene; ma una voce chiara, a lei nota, disse a un tratto con accento spiccato: Patience ma cherie.
— Basta, nevvero? — mormorò Calmi, sentendo le unghie di Lydia che gli penetravano nelle carni.
Ella non rispose. Si era lanciata verso la parete, incollando l’orecchio. La voce di Théa, strana, velata, mormorava parole inintelligibili. Lydia avrebbe voluto sfondare la parete contro la quale si aggrappava colle manine, graffiandosi e ferendo la pelle delicata; avrebbe voluto vedere, ma non ebbe bisogno di questo. Per il suo orecchio avido, ogni rumore era una parola distintissima. In quel buio, i gemiti avevano sillabe, i sospiri stessi vestivano una forma. Nessuna realtà impudicamente ostentata poteva essere più terribile di quella realtà che si credeva al sicuro e che aveva gettato ogni velo.
A un tratto Lydia si staccò dalla parete girando su sè stessa, e cadde nelle braccia di Calmi, il quale la portò di peso in carrozza.
Era già sera, ed egli non l’aveva ancora abbandonata un istante.
— Grazie, Calmi: ella è buono, più buono di quanto avrei immaginato; ma è inutile...
Dicendo “è inutile„ Lydia si toccava il cuore, se lo sosteneva come un povero membro disfatto; stesa vestita sul suo ampio letto in mezzo alle tede della coperta e ai lacci di amore, il cui vivo azzurro risaltava nell’ombra viola dei cortinaggi, facendo cornice al viso che sembrava di cera.
Egli stesso non sapeva in qual modo consolarla, sentendo la impotenza delle parole davanti a quella disperazione terribilmente muta. A intervalli, dopo un silenzio penoso, tentava le parole: rassegnazione, coraggio... Ma Lydia lo interrompeva, con un gesto; finalmente, quasi rispondendo a tutto ciò che egli non aveva potuto dire, mormorò piano, interrompendosi sovente per respirare:
— Vede il vantaggio di coloro che sono abituati a soffrire?... io non posso, non posso! E il vantaggio di quelli che credono? e di quelli che amano? Io non posso, non posso; non amavo che lui!
— La vita è lunga, amica mia; verrà la consolazione, verrà l’oblio.
— Ho finito di vivere.
— Vi sono pure tante ragioni per riprincipiare...
— Non io... Ho provato ogni cosa. Perchè dovrei rassegnarmi?... Perchè dovrei lottare? Non ho nessun ideale che mi sostenga; non ho nemmeno più la possibilità di godere, perchè, guardi, i capelli bianchi incominciano...
Parve a lui un rimprovero l’amarezza di quella frase? o vide in essa la condanna di quello scetticismo che atterra, e non riedifica?
Egli abbassò la fronte, scorato.
Un’ora trascorse ancora. Lydia chiese:
— Quante sono le ore?
— Dieci. Vuole coricarsi?
— Sì.
— Domani discorreremo.
Lydia non rispose. Scese dal letto, barcollando un po’. Un lume era acceso dietro il paravento, e nel cerchio della luce qualche cosa scintillava sul tavolino, qualche cosa che Lydia guardò con insistenza; ma avendole chiesto l’avvocato che cosa cercasse, rispose:
— Nulla.
Lo accompagnò sull’uscio, pallidissima, eppure ferma.
— Le mando la cameriera?
— No. Dica pure in anticamera che non ho bisogno di nessuno. Grazie.
Calmi stava per uscire. Lydia lo richiamò, gli pose le mani sulle spalle e, così, a un palmo dal suo viso, gli disse, tenendogli gli occhi negli occhi:
— Per un gran pezzo ella ebbe cattiva opinione di me, vero?...
— Verissimo — rispose Calmi, quasi contento ch’ella potesse pensare ad altro. — Ma ora no, ora...
— Sì, ora mi vuole un po’ di bene... Troppo tardi! tutto troppo tardi!
Sorrise amarissimamente.
La mattina seguente, accorrendo coll’animo pieno d’agitazione e di tristezza, Calmi trovò l’appartamento aperto, i servi piangenti, la camera di Lydia trasformata in cappella funebre, con due ceri accanto al letto, e ai piedi di questo don Leopoldo, senza lagrime, cogli occhi imbambolati.
Ella giaceva composta sui guanciali: le sue manine abbandonate sulla sponda, gli occhi chiusi, i capelli sciolti lungo il petto, tutto il volto di una pallidezza marmorea che ne accentuava il tipo delicato. Da un nastrino nero che le cingeva il collo un diamante scintillava; era ancora vestita.
La cameriera sollevò un lembo della coperta, mostrando a Calmi una chiazza di sangue al posto del cuore e, sul tavolino, il piccolo revolver, che sembrava un gioiello uscito dall’astuccio di velluto.
fine.