Lettere d'una viaggiatrice/Nell'alma Roma
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NELL’ALMA ROMA
I.
Il voyagea. Il connut la mèlancolie des paquebots, les froids réveils sous la tente, l’étourdissement des paysages et des ruines, l’amertume des sympathies interrompues. Il revint. G. Flaubert — L’Education sentimentale. |
Roma, maggio .....
Non ripetete, amica carissima, il verso malinconico di una romanza, dove Francesco Paolo Tosti ha malinconicamente versato la sentimentalità della sua anima musicale: Partir... c’est mourir un peu! Pensate semplicemente e quietamente a questo verso, senza mettervi la tenerezza poetica, umile e sincera di cui ribocca il vostro cuore ignoto alle genti, non ignoto a me; e nella fredda analisi, voi troverete che, sì, è vero, partire significa morire un poco, ma che noi moriamo, ogni giorno, un poco di più, sempre più, anche stando fermi, coi piedi sempre sul medesimo mattone e gli occhi fissi sulla stessa linea di muro, ove vi sia un libro, una stampa, un quadro, o non altro che il disegno lineare di una carta da parati. È impossibile chiudere la coscienza, se si è veri cristiani, alla voce segreta che vi avverte del cammino costante e sicuro verso la morte, fatto in ogni ora; è impossibile, se si ha intelligenza, chiudere le orecchie mortali alle voci della scienza, che vi parlano delle continue trasformazioni umane, salienti dalla puerizia alla giovinezza e discendenti dalla maturità alla vecchiaia, alla morte. Morire un poco! Noi non facciamo altro, amica, nella nostra vita, spensieratamente o con intima pena, vivacemente o monotonamente; cercando, se abbiamo volontà ed energia, di riempire di azione questo continuo morire un poco; cercando, se abbiamo sentimento e coraggio, di riempire di bontà operosa, questo lento decadimento, acciò che il nostro passaggio non sia stato inutile per gli altri, per noi stessi. Morire un poco! È tanto vero, che noi ci leghiamo al passato con un ardor triste passionale, quello che si ha pei cimiteri, per le care tombe che non si possono visitare, per le bianche lapidi abbandonate e senza fiori: è tanto vero, che l’avvenire, al più forte, al più audace amator della Vita sembra una chimera che lusinga, che delude, che sparisce, neppure una chimera, ma un fantasma di chimera! E giacchè tutto questo è, giacchè i più rari come i più comuni atti dell’esistenza, i più alti come i più volgari atti, anche quelli che paiono vibranti di vitalità, anche quelli che sembra debbano sfidare il tempo, sono caduchi, giacchè nel compiere un’opera di vita, ancora, noi moriamo un poco, ed essa stessa morrà, perchè privarci di quell’acuto e penetrante piacere dello spirito, del corpo, dell’anima che è il viaggio, perchè privarci di questo diletto così mescolato con sapienza di tristezza, perchè privarci di questa ebbrezza, così mescolata di fatica e in cui le facoltà più opposte sono attratte, affascinate ed esaltate? Oh che un poco di noi muoia nelle stesse vie, nelle stesse case, nelle stesse camere, fra le stesse tinte, le stesse linee, i medesimi suoni, che un poco di noi muoia, un poco, ogni giorno, tra la stessa gente, amica mia, che oppressione profonda, che lugubre carcere, che morte quotidiana, più muta, più tetra, più sconsolata! Diamo, diamo questo che di noi si parte, in ogni giornata, alle città che mai vedemmo, che tanto anelammo di vedere, che finalmente vediamo, a strade sconosciute che ci apparvero nei sogni della immaginazione e che diventano una realtà, a camere che mai non abitammo e che abitiamo per una sola notte, a incontri di colori, di tinte, di linee che giammai lusingarono i nostri occhi di carne, a combinazioni di suoni che non udimmo mai e che udiamo con la delizia dei suoni nuovi! Oh quel poco che di noi fugge, via, ogni giorno, disfatto, distaccato, morto, disperso, quel poco che è parte di noi e che perisce o si trasforma, ma che ci lascia, ci lascia per sempre, sparisca fra persone di cui non sappiamo nè i nomi, nè la patria, nè la storia, fra le persone che parlano un’altra lingua, che hanno altri sentimenti, altri costumi. Potenza dell’ignoto, poesia sacra e fervida del viaggio! Potenza del mistero, fascino invincibile del viaggio!
⁂
Voi dite: l’assenza è un male così crudele! Nella suprema volontà che dispose le cose umane e divine, tutti i mali, anche i più atroci, sono necessarii, ricordatevelo. Ognuno di essi, anche il più fulmineo, anche il più tremendo, porta in sè una ragione ineluttabile che, spesso, non conosciamo, che, spesso, non conosciamo che troppo tardi; e che talvolta, noi moriamo senz’apprendere giammai. E insieme a questa forza segreta e invincibile che sarebbe brutale e schiacciante, esiste, in ogni male più aspro, più angosciante, una lontana o vicina ragione di bene che finisce per manifestarsi, in tante forme morali e sociali, da quella virtù collettiva e attiva che è la carità umana, a quella virtù personale e solitaria e infeconda, che è la rassegnazione. L’assenza è un male crudele. Coloro che hanno le fibre sensibili e il cuore molle, ne soffrono moltissimo, spesso senza protestare, spesso senza mormorare: coloro che hanno il cuore vivido e le fibre energiche, vi si ribellano. Tutti quelli che amano, per le ragioni consuete del sangue o per quelle improvvise ma violente dell’amore, sognano, desiderano vogliono vivere tutti i loro anni, tutti i loro giorni, accanto alle persone che amano, in una consuetudine fedele e infrangibile. Eppure, sovra tutto, per i sentimentali, per gli appassionati, l’assenza è un male necessario! L’uomo non è, forse una creatura libera? La persona umana non è, forse, inalienabile? E quando mai la più fiorita delle schiavitù non è parsa pesante, odiosa a chi si accorge, ogni tanto, di esser lo schiavo della propria o dell’altrui passione? Quando mai negli amori più larghi e più completi, in quegli amori che farebbero ricredere il pessimista più ostinato dell’amore, quando mai in questi amori così alti e così forti, non è venuto il momento della noia più esasperante? Ah che tutti, nell’amore, nell’amicizia, nella filialità e persino, persino nella maternità, in questo sentimento che è il solo a esser rinforzato da un istinto securo e duraturo, tutti, uomini, donne, amanti, mogli, madri, innamorati, tutti abbiamo sentito quella cosa orrenda, che è l’odio della persona amata! Quante volte, ditelo tutti, osate tutti di confessare la verità, quante volte la bocca che continua a sorridere alla persona amata, rattiene a stento il fiume d’ingiurie che ne sgorgherebbe, ingiurie ingiuste, inique, infami, ma che salgono alle labbra dalle profondità più inesplorate e paurose dell’anima! Quante volte dietro una bianca fronte tranquilla, sovra cui non una ruga appare, fluttua, nei giri di un pensiero nato non si sa come, fluttua, bizzarra, perversa, malvagia, una intenzione cruenta! È la schiava che, a un tratto, si accorge che essa è coronata di rose, ma che ha un anello di oro, al piede; è l’anima che si è saputa sempre libera, e che si sente presa. È lo schiavo che suona delicatamente la cetra per rallegrare il festino, ma che impallidisce al pensiero della frusta che lo minaccia: è il cuore che ha salutato la libertà e che sente di averla perduta per sempre. Dio ci fece liberi. Volontariamente, in nome di tutte le più consolanti o le più sconsolanti illusioni della vita, in olocausto a un dovere, a un amore, a un piacere, a una virtù, a un vizio, a un eroismo, noi gittiamo questo bene prezioso e la esistenza ci incatena in una unione, in una famiglia, in una missione, in un’opera, in un sacrifizio: per anni, per anni, il sublime tranello ci appare con tutte le sue antiche seduzioni: ma a traverso gli anni, ogni tanto, la coscienza della schiavitù si ridesta, una ribellione taciturna, feroce, solleva l’anima contro l’idea, contro il sentimento, contro la persona a cui ci avvincemmo noi stessi: e odiamo acerrimamente quello che amammo: e vorremmo veder perire quello che ci lega: e pur di fare un atto di libertà, noi rovesceremmo tutti i sacri altari che le nostre mani, i nostri cuori eressero e innanzi ai quali bruciò il più puro nostro incenso. Comprendete voi, adesso, anima dolce, perchè l’assenza è un male necessario? Comprendete voi, ora, creatura timida, che il viaggio è un atto di libertà? Per sei settimane o per sei mesi, la creatura umana rompe, o le pare di rompere le sue catene: con impetuosa gioia, ove trionfa la ferocia della ribellione, essa abbandona quello che amava, un essere vivente o un dovere, una passione o una consuetudine: con voluttà spirituale trapassa, di paese in paese, nei treni rapidissimi, nei piroscafi, di albergo in albergo, di ritrovo in ritrovo, libera, sola, sola e libera: e, per poco, ricorda: e dopo poco, dimentica: ed è un altra creatura; e le sue ferite si rimarginano: e il suo cuore si guarisce e la sua anima gode della libertà e della solitudine, come dei due beni più preziosi concessigli dalla volontà divina. Lontano, qualcuno soffre, è triste, è pensoso: lontano, qualche cosa si sgretola, cade, va in frantumi. Che importa! L’anima umana s’inebria di sè stessa, in latitudini lontane, in contemplazioni solinghe, in vaste e mute partecipazioni a spettacoli impensati e magnifici.
⁂
Non è necessario di vivere, amica, è necessario di esser liberi. E il viaggio contiene la illusione sublime della libertà.
II.
Roma, maggio,....
Quale anima sensibile si sottrarrà, mai al fascino di Roma? Tutti gli italiani che vi convengono, per una breve gita, per una lunga dimora, rimpiangono subito le caratteristiche seduzioni dei paesi ove nacquero, donde vennero: il partenopeo espansivo e ciarliero, sotto l’ombra e l’austero silenzio di Roma, soffrirà di nostalgia per il brio e la gaiezza di Napoli; il vivido toscano innanzi alle linee auguste e solenni degli antichissimi monumenti dell’Urbe e fra i meno antichi, ma che dicono egualmente il fasto della fede e dell’arte, invocherà la leggiadria e la grazia italica, schiettamente italica, della sua Firenze; e poichè tutto è possibile, innanzi a quella possente poesia della grandezza, della solitudine e della sterilità, che è la campagna romana, il nordico oserà rimpiangere i mille fumaiuoli di opificii, di fabbriche e di case, donde nuvole nere salgono al cielo, dai piatti sobborghi di Milano e di Torino. Ah che la bellezza dei paesi italiani è svariata e multanime! Un tramonto contemplato dalla più alta terrazza del Gianicolo, in una taciturna e pensosa visione, ove Roma s’infiamma di roseo, di rosso e sovra Essa cadono i veli violacei del crepuscolo e si distendono i veli nerastri della notte, non può cancellare il ricordo di un voluttuoso cader del giorno napoletano, nella indescrivibile beltà delle cose, quando gli occhi sono ebbri di colore e il cuore è ebbro di vita: una notte umida, opprimente, triste, di una tristezza larga e desolante, una notte romana, errando nelle lontane piazze bagnate e deserte, con la suggestione indefinita di tutta quella tristezza, non varrà a farvi obliare una notte di primavera, sotto la luna, passata in sogni, sugli scalini della Loggia di Orcagna, aspirando le fragranze che vengono dalla florida campagna ed evocando i fantasmi di Monna Vanna e di Monna Bice; nè una piccola via romita, appartata, quasi per sempre, dalla vita cittadina, in un vecchio angolo di Roma, sotto un nome bizzarro, fra piccole case basse, può togliervi dalla fantasia uno dei lontani piccoli canali di Venezia, pallidi, smorti, muti, piccoli canali, dove, come in nessun posto, si può apprezzare il piacere spirituale delle cose che non sono più, delle cose finite e sentirsi come finito, come morto, in una morbida soavità di morte. Così! Ma se, invece di un giorno, voi restate a Roma, cara amica indolente, una settimana; se invece di una settimana, vi rimanete un mese; se la vostr’anima, liberata per poco, dalle catene della consuetudine e della tenerezza, si lascia andare, senza difesa, senza sospetto, senza diffidenza, all’ambiente di Roma: se il vostro spirito misero e infermo, si è risanato, di botto, mentre il treno partiva, da quei nostri vili morbi che sono i preconcetti, i pregiudizii, le idee fatte, i luoghi comuni, le ottusità che si ammantano di scetticismo per celare la lentezza e l’ignoranza e se voi, quindi, vi abbandonate, con ingenuità, con candore, con fede, alle impressioni che, lievi in principio, si fanno più penetranti; se voi portate, in Roma, un’anima ringiovanita dalla libertà, capace di tutto intendere, di tutto apprezzare, voi beverete, a sorsi sempre più lunghi, il filtro che Roma appresta e oblierete, nei suoi magici incantamenti, quanto vi piacque, un tempo, quanto vi piacque, e fu ieri.
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Io amo, nell’inverno, fra il gennaio e il febbraio discendere a Roma, nel magnifico Grand Hôtel, fra una folla di snobs cosmopoliti: le medesime donne cariche di merletti e di pelliccie, ricoperte di gemme che s’incontrano nei quattro o cinque ritrovi cosmopoliti, a Nizza, al Cairo, a Parigi, a Aix, a Lucerna, a saint Moritz: gli stessi uomini dal monocle fissato nell’orbita, dalla marsina fiorita, dalla fisonomia scialba e corretta: gli stessi bimbi floridi ed elegantissimi: le stesse bimbe dai capelli a lunghi ricci, sulle vesti candide. Tutti snobs, è vero: ma già così affinati, così squisiti, così vibranti nel senso estetico, da intendere profondamente la beltà moderna di Roma, nelle sue strane mescolanze col passato. Solo queste donne straniere, dalla grazia esotica e, spesso, artifiziale, pare che sappiano quanto vi sia di delizioso, in una mattina d’inverno, andarsene, a piedi, lentamente, con passo ritmico, verso quella mirabile piazza di Spagna, che niuna penna di poeta ancora bene descrisse, e fermarsi a scegliere, con le dita erranti, fra i più bei fiori, i mazzolini più freschi, i fiori di cui tutta piazza di Spagna odora, e fermarsi alle belle vetrine ove l’arte antica e la moderna mettono le loro lusinghe, mentre è tutta bianca, sotto il sole, la scala della Trinità, la scala ove ascendono tutti i desiderii spirituali, la scala donde discendono tutti i sogni, la scala della Trinità, che ha le sue ore di tenerezza, di amore, di passione, sotto l’ampio cielo, sotto l’azzurro, mentre canta l’acqua della fontana arrovesciata, e la Madonna si libra sulla colonna e in fondo, in fondo, sovra l’estremo palazzo, si leggono le parole fatidiche che vi aprono i confini del mondo: Propaganda fide. Bisogna stare fra questi snobs e seguirne la vita, poichè essi, ahimè, più di noi, conoscono e gustano la poesia di Roma, nei suoi aspetti più reconditi e più inafferrabili, nelle sue manifestazioni più aristocratiche, sempre un po’ solinghe, sempre maestose anche nella gentilezza, anche nella grazia; in una passeggiata mattinale, in un giorno nuvoloso, ma senza pioggia e senza vento, verso Cecilia Metella, ove è l’appuntamento di caccia alla volpe; in una visita d’arte, in quei misteriosi giardini di Villa Medici, fra quei viali di busso, nelle piccole case ove giovani artisti sognano e lavorano; in un ritrovo esotico, un tea room, in una di quelle vie malinconicamente eleganti, come è quella di san Sebastianello; in un magazzino d’antiquario, verso Tordinona, scegliendo fra i vecchiumi, una copertura di libro in cuoio impresso, cercando una fibbia dì cintura, dalle grandi pietre preziose che non si usano più; sotto i grandi alberi, lassù di villa Pamphily, ove l’occhio si spazia sui larghi prati fioriti e non vi è voce, non vi è passo umano che rompa il silenzio; innanzi a quel picciolo e torbido e tumultuoso Aniene gonfio e minaccioso, sebbene piccolo, sotto i rami nerastri dei brevi salici nudi, in un tempestoso giorno di febbraio, oltre il ponte Nomentano. Snobs! Probabilmente queste miliardarie di America, questi conti ungheresi, queste suggestive bellezze inglesi, questi, uomini di tutti i paesi, compiono questi pellegrinaggi così delicatamente attraenti, come farebbero qualunque altra azione della loro vita, anche comune, anche volgare, come giuocherebbero una lunga partita di trente et quarante a Montecarlo, come applaudirebbero il cake walk, alle Folies-Bérgeres: probabilmente, il loro gusto d’arte, il loro gusto di poesia, è tutto esteriore e non giunge ad elevare, ad esaltare il loro spirito: probabilmente quello che essi vedono, che essi assaggiano, che essi assaporano, con manifesto piacere dei sensi e dell’anima, in Roma, non giunge a dar un palpito di più al loro cuore stanco, un fremito più profondo alla loro anima stanca: probabilmente! E che importa! Giova, in certi periodi, indossare le vesti degli snobs e mescolarsi alla loro vita e viverla, con un’anima differente: giova crearsi altre usanze, altri costumi, altri gusti, anche per venti giorni, anche per pochissimi giorni, e fingere a sè stessi, fingerlo fino all’inganno, di esser venuto da Minneapolis, nel Minnesota e di viaggiare da dieci anni, il mondo, nelle sue parti più singolarmente attraenti, e di cercare, in Roma, non solo le vaste concezioni sovrane, le enormi imprese di arte compiute miracolosamente, le traccie di cento pensieri imperiosi e potenti, le traccie di cento volontà tiranniche e magnifiche, ma l’anima di Roma, che è in tutto questo e fuori di questo, che è nelle ombre di un parco, nel colore di un orizzonte, in una rosa colta fuori le catacombe, in un ramo di alloro del Bosco Sacro, in una chiesetta scordata di un quartiere ignoto, in un ritorno di gita, a sera, fra i lumi vividi di una gran piazza, gremita di gente! L’anima di Roma! È ben strano che gli snobs del Grand Hôtel la ritrovino più facilmente, questi snobs così aridi, forse, o, forse, così crudeli, questi snobs dai cuori così diversi e così impenetrabili! Ah essi non sono che i precursori, essi non fanno che additare la via e passare oltre, additarla ad altre anime più sensibili, più trepide di emozione, più frementi di vita interiore, più capaci di vibrare profondamente! Domani, i precursori avranno fatto tanto viaggio, più avanti, sempre più avanti, altrove, fuori di qui, lontano, fuori di qui, come è la loro divisa: ma gli apostoli avranno trovata la strada che mena alle comprensioni arcane, alle commozioni inebbrianti! Quanti precursori, in una mattina fredda d’inverno, prima di noi, a Roma, cercando l’anima di Roma: e noi, falsi snobs, ma anime anelanti di bellezza e di poesia, noi, tu ed io, Eleonora Duse, tu, Eleonora, in quel gelido mattino, nel giardino pieno di rose disfatte e di mortelle ghiacciate delle Terme Diocleziane, noi sedute sovra una pietra bianca, sole, a un sole che non ci riscaldava, tu che leggevi le parole di Federico Nietzsche e io ti ascoltava!
⁂
Se Pasqua è alta, nulla di più curioso, andando a Roma, alla metà d’aprile, che abitare l’Hôtel Minerva. È un albergo molto antico e tradizionalmente, da cento anni, forse, alloggia grandi prelati, cardinali, vescovi e romei di molta importanza: e non manca di un lusso sobrio e pure intenso, un lusso speciale, come di un convento molto ricco in cui si fossero messi molti tappeti, come di un arcivescovado dai vasti saloni, con oscuri quadri di religione dalle cornici larghe e dorate. Curiosissimo! In quel tempo, massime se è Settimana Santa, non s’incontrano, nel vestibolo, per le sale, per i corridoi, che sottane nere, su cui si allarga la fascia violetta e talvolta, si vede lo strascicar di una porpora: e passando, innanzi a certe porte socchiuse, si scorgono dei vasti saloni di ricevimento, quasi vuoti, adorni solo, intorno intorno, di alti seggioloni scolpiti e dorati, tappezzati di broccato rosso e giallo: alle volte, in mezzo, vi è un immenso tavolo, coverto da un sontuoso tappeto di velluto rosso. Nell’albergo, al venerdì, andando alla tavola rotonda, vi sono due minute: una di grasso, una di magro. Intorno, nella piazza, delle grandi botteghe di oggetti sacri, dalla minuta chincaglieria, dal rosarietto di pochi soldi alla ricca patena lucente di oro e di argento: e nelle stanze, nel cortile, nella piazza, è sempre più forte questo carattere non mistico solamente, non mistico e chiesiastico, solamente, ma clericale. La gente si aggira con passi discreti; parla a voce bassa; sogguarda di sfuggita e non guarda il suo vicino; e non osa, chi non sia nè prete, nè prelato, nè cardinale e pure ami vivere al Minerva, come io amo di vivervi, non osa darsi a tutti gli strepiti del viaggiatore indipendente e impertinente. E per chi abbia lo spirito attento come sono attenti gli occhi, anche la prima volta che sia giunto colà, o se vi ritorni, attirato da quel singolare ambiente, un’altra forma, più complessa, più complicata, più intensa e più ignota dell’anima di Roma, gli appare. Costoro, questi sacerdoti, questi signori, questi principi della Chiesa, vengono, vengono, da tutte le parti, per uno stretto dovere, che è diventato una passione per moltissimi: vengono, spinti da un umile desiderio, da una vivida speranza, da una energia ostinata, da un’ambizione: vengono in nome di Dio, o in nome della Chiesa, vengono per gli interessi della fede o per la forza della religione. E nulla sanno altro, che quanto hanno nello spirito: e null’altro vedono, salvo il loro sogno: e li aspettano i maestosi e taciturni palazzi dei cardinali di Roma: e li aspetta quel Vaticano che è una città, ove un gracile vecchio, vestito di bianco, col cenno della mano esile, con l’esile voce fa chinare le loro fronti superbe e ardenti, muta il corso dei loro pensieri, muta l’impeto delle loro volontà. Singolare, immenso mondo di persone e di anime, di cui nessuno o quasi nessuno si accorge, o vuole accorgersi e che basta all’osservatore intravvedere, in un viso raso e pallido, in una tonaca rossa, in una mano cerea adorna di una grossa pietra ieratica, intravvedere, in un vestibolo di albergo! Mondo sconosciuto e potente, fuori Roma e in Roma, di cui Roma è il centro, Roma è il segnacolo, Roma è la vita e Roma è la fiamma: e che ogni tanto, per una manifestazione preclara di grandezza spirituale, di trionfo spirituale, si rivela a tutti gli ignoranti, i distratti, i noncuranti! Singolar mondo che una donna, ahimè, può solo conoscere, di fuga, molto di fuga in uno strano albergo come è il Minerva, in una basilica magna, in un giorno di pompa ecclesiastica, in un’anticamera cardinalizia, sotto il grande stendardo di amoerro, ove è lo stemma, talvolta papale, che ricorda il grande antenato e ove è il Crocifisso, immenso mondo che gli uomini non vogliono vedere e misurare e che le donne non possono vedere e misurare e ammirare!
III.
Roma, maggio ....
Per conoscere profondamente, intensamente le persone, i paesi, le cose, bisogna, amica carissima, avere il bizzarro gusto e il singolare coraggio di vedere uomini, città e cose, di viverci in mezzo, quando il loro miglior tempo è passato. Un uomo politico che ha toccato il bene supremo per esso, cioè il potere, se lo frequentate, vi apparirà con una puerile mescolanza di vanagloria e di bonarietà, con un insieme curioso di orgoglio soddisfatto, di ostinato ottimismo, di vasta e vaga speranza, di larga securezza, di cieca fiducia in sè stesso e negli altri, diviso dalla verità, dalla realtà, non già da un velo, ma da una muraglia; e finirà per parervi monotono, artificiale, banale. Ma cercatelo, invece, quando egli sia stato rovesciato dal potere, cioè nel suo peggior momento; quando tutti i fermenti dell’ira, della tristezza, della delusione, avranno inacidito il suo sangue; quando tutta la brutalità della vita avrà inasprito il suo spirito, liberandolo dalle puerilità, dalle sentimentalità, dalle ipersensibilità; quando egli abbia visto la verità di sè stesso e degli altri, e si sia convinto della miseria e della bassezza della politica: e allora voi conoscerete l’uomo nuovo, l’uomo vero, l’uomo sincero, che vi griderà il suo sdegno e il suo dolore, e vi dirà quanto egli disprezzi la passione che lo ha sedotto e corrotto e quanto disprezzi sè stesso, per essersi lasciato sedurre e corrompere. Visitate un’alta valle alpina, sotto i ghiacciai eterni, in estate: e voi sarete affascinato dalla bellezza fresca e calma del paesaggio, dalla solitudine serena, dal silenzio solenne, mentre il sole che rende di fuoco, al crepuscolo, i ghiacciai, smaglia di fiori freddi e leggiadri tutte le praterie alpine: e l’aria che respirate, vivida, vi sembrerà un balsamo squisito: e voi vivrete in contatto con i grandi orizzonti, pacificato dai grandi silenzii. Ma tentate di salire verso la valle, nel cuore dell’inverno: e tutta la crudeltà, tutto l’orrore del paesaggio vi colpiranno, nella loro verità, nella loro sincerità, la vita sepolta sotto cumuli di neve, la bufera che fischia attraverso le gole deserte, la valanga che precipita dall’alpe omicida, donde sono spariti uomini, case, animali, fiori, nulla più, nulla più, se non fra i lividi bagliori, nel tetro ambiente, la paura della morte, di una morte muta e terribile, sotto l’urto della natura nemica e malvagia. Vi descriverò io, Nizza, Cannes, Montecarlo, nella loro grande stagione d’inverno e primavera, con le loro bellezze naturali moltiplicate cento volte dalla mano dell’uomo, coi loro parchi, coi loro giardini floridi che ricordano quelli della regina di Babilu, con la possente visione di lusso, di ricchezza, di magnificenza che essi rappresentano? Ma per uno strano desiderio, per sapere tutto, recatevi sulla Cornice, nel mese di luglio: e troverete degli scogli brulli che bruciano al fiero e implacabile sole, degli scogli su cui si è disseccata la flora che l’uomo vi piantò, troverete una nube di polvere secca che si avvolge, sotto il soffio dello scirocco, per le vie deserte; nelle strade, ogni tanto, qualche ombra affaticata, apparente e sparente da una porta: e delle ombre pallide e sudanti di giuocatori nel Casino, intorno a una fiacca pallina di roulette, gittata fiaccamente dall’ombra di un croupier, sbuffante di caldo e di fastidio: e avrete visto, allora, questi paesi così attraenti, così invincibili, poichè niun altro paese, finora, li ha vinti, nel loro aspetto più nudo, più arido, più povero di fascino, nella verità loro, infine!.
⁂
Io ho vissuto, a Roma, nel tempo lontano, nel colmo dell’estate: e ho avuto la rude apparizione quotidiana di una città che nè viaggiatori, nè touristi, nè uomini di affari, nè uomini politici sanno che sia. Io ho visto la vera Città Morta, non già Bruges che vive e palpita, almeno nel suono armonioso delle sue campane, nel passo cauto delle sue beghine, nei riflessi argentei dei suoi canali, non già le vecchie piccole belle città italiche di Toscana e di Umbria ove ride, sempre, la tenue vita popolare intorno alle pure bellezze dell’arte, ma una immensa Città Morta, Roma, Roma, che fu, che dovrebbe essere, il centro di una vita larga e tumultuosa di bene e di male, sempre, in ogni stagione, in ogni momento. Così! A Roma, per consuetudine trentennale il sovrano arriva, con la sua famiglia, dalle villeggiature e dai viaggi estivi, oltre la metà di novembre, assai tardi, infine: e s’installa in quel non bello palazzo del Quirinale che fu dei Papi, poichè per laudabili ragioni di modestia, ma non laudabili dal punto di vista di affermazione regale, niun palazzo reale, nuovo, italiano, del Re d’Italia, a memoria imperitura della desiata conquista, è sorto, come avrebbe dovuto sorgere: e arrivano gli uomini politici italiani, sempre a fine novembre e s’installano, ufficialmente, in un palazzo del Parlamento, anche esso appartenente ai Papi, e neppur essi sono riesciti, a costruirvi un palazzo loro, ricchissimo, maestoso, ma si perdono in misere querele di architetti, d’ingegneri, di appalti, solamente per avere una nuova aula e ognuno di essi, deputati, senatori, va a occupare delle modeste stanze mobiliate, per la città di Roma, e lesina sul prezzo e cerca le trattorie più economiche, per spendere il meno possibile, anche l’agiato, anche il ricco, tanto il senso del provvisorio, del fugace, li tiene, i deputati, i senatori!
E il Sovrano, naturalmente, lascia in inverno, sempre che può, la capitale, per onorare di sua presenza, le altre città grandi e piccole italiane: e i deputati, i senatori si danno quante maggiori vacanze sia possibile, di Natale, di Pasqua, per ogni occasione. A maggio spariscono da Roma i forestieri: gli alberghi si chiudono, almeno i maggiori, alla metà di maggio: altri, ai primi di giugno: restano aperti quelli dalle stanze a tre lire, ma chiudono degli interi piani. Ai primi di giugno, si chiudono i grandi restaurants, i grandi caffè: e a fine di giugno si chiudono, anche i magazzini più importanti, più eleganti, più ricchi. Lentamente, ma sicuramente, Roma muore. Ai primi di luglio, già il mondo politico si agita rumorosamente, per andarsene: e tanto fa, che il Parlamento si chiude, nella Camera Alta e in quella dei Comuni. Tutti costoro fuggono. Dopo due giorni e sempre prima del dieci luglio parte il Sovrano con la famiglia e la Corte; partono dame e gentiluomini; parte tutto il mondo diplomatico: è una piegatura di tende rapidissima, quasi fulminea, ognuno se ne va, con una furia gioconda: e ai quindici di luglio, Roma è la Città Morta. Ah che spettacolo singolare e pesante e triste, questa città cui l’Italia non ha saputo, non ha voluto, non ha potuto togliere il suo carattere di maestoso albergo d’inverno e di primavera, in cui, per una dimora inquieta e frettolosa, l’Italia resta sette mesi dell’anno, con un senso di disagio, di noia, di incertezza che si riflette, in ogni atto, albergo bello e solenne in cui l’Italia mette tutto un mondo provvisorio e temporaneo, di tutte le burocrazie, dalla diplomatica alla militare, una enorme burocrazia che ondeggia, da Torino a Palermo, fermandosi, ogni tanto, a Roma, una burocrazia immensa che sta, in Roma, suo malgrado, insoddisfatta, malcontenta, seccata, dai più alti gradi delle funzioni sociali agli infimi gradi! Spettacolo di tristezza greve, questa Città Morta, in agosto, in settembre, senza re, senza corte, senza ministri, senza parlamento, senza ambasciatori, senza società, e governata da otto o dieci capi-divisione: spettacolo di tristezza soffocante, con le sue vie bruciate dal sole, ove rari passanti appaiono, accasciati dal caldo e dal fastidio morale, con le sue case dalle finestre sbarrate, con le sue poche carrozze da nolo ove un cocchiere sonnecchia sulla serpa, con i suoi trams senza passeggieri, gli ultimi suoi caffè vuoti, e le ultime sue trattorie infettate dalle mosche e abitate solo da camerieri taciturni e scettici! Spettacolo di una tristezza quasi tragica nelle piazze larghissime, ove niuno si aggira, innanzi ai monumenti che niuno guarda, nelle chiese che nessuno frequenta, innanzi ai palazzi patrizii dai portoni chiusi, innanzi alle botteghe dalle tende di ferro abbassate: tutto interrotto, tutto sospeso, tutto come finito, tutto come morto!
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Ed è in queste giornate di estate, che nella Città Morta, più forti appaiono i danni fattili per la grettezza e l’avidità dei suoi governanti. Anche le altre metropoli europee hanno le loro contro-stagioni, i periodi di languore, di profonda fiacchezza: ma i governanti, in questi altri Stati, tutto fecero perchè i mali ne fossero temperati con ogni opera di civiltà. Se una parte di vita ne fugge ed è fatale che ne fugga, da queste città possenti, tutto si è tentato e si tenta, perchè altre sorgenti di vita vi accorrano perchè chi è obbligato a restarvi, non muoia di tormenti fisici e morali. Ma in Roma! Tutta la poetica, ombrosa, florida corona di ville che l’abbracciava, in frescura di eterna bellezza, è stata distrutta per tre quarti: e ogni anima di pensatore, di sognatore, vi rimpiangerà sempre, o inobliabile villa Ludovisia, e non mai io dimenticherò la vostra figura, o principessa di Venosa, figura ideale di donna e di dama, sotto i grandi alberi ludovisii, in una gelida mattinata d’inverno, e i vostri passi lievi, e le violette seminascoste nelle pelliccia di lontra, e la lieve voce che mi parlava di nobili cose dello spirito! E poichè gli alberi sono caduti, con essi è caduta l’ombra amica che attenuava i calori estivi, è caduta la freschezza verde e salubre, e, invece, case di pietra sono venute a sostituire la magica cintura di poesia, in questa terza Roma! E le orribili nuove case, a dadi rettangolari, esecrazion degli occhi, esecrazion dell’anima, che sono sorte, ove erano i rosai e i cipressi e i bussi e le quercie, queste abbominazioni di case, dentro, hanno la esiguità vanitosa, la insalubrità pomposa, la ristrettezza ammantata di finta eleganza delle moderne costruzioni, e i vecchi cittadini di Roma non vi son voluti andare ad abitare fedeli alle antiche case del centro, e i nuovi cittadini, cioè la torma burocratica vi mette la sua decente miseria, la sua apparente floridezza che covre male lo stento della vita. Non un giardinetto, lassù, non un giardino: dei dadi, ancora dei dadi, ove la gente si ammassa, ove non respira, ove muore di caldo e ove maledice il suo destino, felice se può lasciare questa terza Roma, ove è venuta superbamente, per un paesello di Romagna o di Sicilia! Giammai, come in estate, nella Città Morta, si veggono le traccie di una crisi edilizia che ha mangiato milioni, che ha gittato a terra le fortune di tante grandi famiglie, e che ai profondi, incalcolabili danni economici, ha unito i danni estetici e igienici che non si possono misurare. Qaanto vi era di bello, di buono, di piacevole è stato distrutto, in Roma e quello che vi si è sostituito, fa ribrezzo agli occhi più barbari: e se i templi e le basiliche sono ancora in piedi, lo debbono alla misteriosa forza di resistenza, che hanno le pietre consacrate dai secoli. Per rendere meno odiosa la vita estiva a coloro che non possono lasciar Roma, non si è fatto nulla, non si vuol far nulla, non si farà mai nulla: per renderla meno povera, in estate, per toglierle, anche superficialmente, il suo indelebile carattere di albergo chiuso, non si è creata una piccola industria, o cento piccole industrie, o una grande industria. Abbandonata, isolata, traversata, fuggendo, da chi viene da giù, per andare in Alta Italia, denigrata nel suo clima da chi non ha denaro o libertà per scapparne via, decapitata, morta, questa terza Roma sembra, purtroppo un luogo di pena, un domicilio di coatti, un purgatorio. Un tempo, i governanti facevano qualche cosa per attirarvi gente, il venti settembre: poi, hanno pensato che qualche telegramma di sindaci, di prefetti, bastasse. Anche la commemorazione della truce morte di Re Umberto, il migliore fra gli uomini, il più buono fra i re, perchè, al ventinove luglio, dava fastidio a ministri e a deputati, nel cuore dell’estate, è stata fissata al quattordici marzo. La Città Morta? Oh divina Roma, tre volte divina, perdonerete voi, mai, a coloro che vi hanno assunto, come loro segnacolo in vessillo e che, intanto, non eran degni, misere anime afflitte da una miserabile tigna politica, non eran degni di pronunciare il vostro sacro nome, o Alma Roma? Perdonerete voi a coloro che vi hanno deturpata nella bellezza e diminuita nelle loro meschine lotte? Ma, no, voi non sapete perdonar loro: e voi li respingete dal vostro seno, ed essi tutto potranno essere, ma non figli vostri, mai, tutti i titoli potranno vantare, giammai quello di cittadino di Roma!