Lepida et tristia/Pietro Panzeri

Pietro Panzeri

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L'Istituto dei Rachitici Chi sarà lo sposo?


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PIETRO PANZERI

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PIETRO PANZERI



L
’Istituto dei Rachitici, di cui sopra è data qualche notizia, sorse per forte iniziativa del Dottor Edoardo Pini, crebbe e prosperò per la beneficenza cittadina; ma chi diede all’Istituto l’odierna importanza scientifica, il moto, la fisonomia, fu Pietro Panzeri.

L’Istituto fu materiato dalle pietre: ma fu animato dall’anima di lui.

Nessun individuo è necessario al consorzio umano; l’uno sostituisce l’altro: questa è sentenza comune e giusta di popolo, e non solo risponde alla verità, ma guai se così non fosse. Perdite veramente irreparabili nella famiglia degli uomini — come si scrive comunemente negli elogi funebri — non esistono. [p. xxxii modifica]

Invece è vero, ed è fuori di ogni espressione convenzionale o retorica, che taluni individui non si possono sostituire così facilmente. Vi sono uomini — anche fuori del portento e del fenomeno del genio — i quali posseggono così felicemente combinate fra loro le disposizioni naturali e la libera volontà di operare verso un dato scopo, da fornire una grande eccellenza e quantità di lavoro benefico: lavoro i cui limiti non sono imponibili nè prescrivibili da alcun regolamento o capitolato; ma che sono nell’arbitrio dell’uomo. Ora questi, scomparendo per legge di morte, distrugge e d’un tratto infrange l’opera sua giornaliera. E gli uomini superstiti se ne dolgono per spontaneo consenso di affetto, e i buoni serbano nel cuore la riconoscenza nè lasciano illanguidire troppo presto il fiore gentile della memoria.

Per quanto la società odierna con manifesta ingratitudine (almeno a me così pare) intenda a deprimere l’opera dell’individuo a gloria delle opere anonime delle moltitudini; per quanto con ingiustizia palese chiami e confonda talvolta con un unico nome — a cui vuolsi sottintendere senso presso che vituperevole, cioè col nome di «individuale» — l’opera sì di Attila che quella di Galileo, pure è certo che le moltitudini seguiteranno a trarre profitto dal lavoro compiuto dall’individuo; e questi dovrà necessariamente far ricadere il beneficio del proprio lavoro sui propri simili.

I quali pagano, qualche volta, il beneficio [p. xxxiii modifica] con la — non mutabile nè valutabile presso nessun banco di cambio — moneta della memoria e, talvolta, della gloria.

Essa illumina il nome di Pietro Panzeri, scienziato e filantropo; e la ricordanza di lui e dell’opera sua al principio di questa annua Strenna di beneficenza, alla quale in questi giorni egli soleva dedicare tanta parte della sua attività, è parsa naturale e doverosa nel tempo stesso, in questo primo anno dalla morte di lui.

Come scienziato il nome di Pietro Panzeri segue in giusto ordine ai nomi storici e gloriosi, nei fasti della medicina italiana, di Antonio Scarpa, del Paletta, del Rizzoli: inoltre al Panzeri è meritamente dovuto lo sviluppo e lo studio che in questi ultimi tempi ha preso la scienza ortopedica in Italia: la qual cosa prima di lui non era.

Chiamare il Panzeri fondatore dell’ortopedia italiana, io non credo giusto termine, e tanto meno giusto in quanto che con esso si offenderebbe il nome di altri egregi cultori dello studio delle deformità; i quali lo precedettero o a lui si accompagnarono. Certo è però che il Panzeri nello specializzare la chirurgia ortopedica in Italia pose [p. xxxiv modifica] tutta la fede e tutta l’attività dell’apostolo, come sarà dimostrato più innanzi quando ricorderò le tappe, per così dire, della nobile esistenza di lui.

Caratteristica in fatto del temperamento geniale dell’uomo era la fede nell’impresa assunta; era l’imperioso bisogno del lavoro; la febbre — per così esprimermi — per la battaglia benefica impegnata contro mille difficoltà allo scopo di raggiungere e plasmare col fatto l’idea: impronta, codesta, che si riscontra in tutte le creature superiori, la quale costituisce un’aristocrazia che non si può diversamente acquistare se non per felicità di natura.

Caratteristica dell’opera sua di scienziato fu l’avere per primo intraveduto ben nettamente una via nuova, l’avere conosciuto la necessità di specializzare questo studio dell’ortopedia che prima era confuso con altri. E nel tradurre l’idea nel fatto, esplicò una tenacia ammirabile contro ogni sorta di impedimenti e difficoltà, e raggiunse l’intento. Raggiunse l’intento dando di sè la maggior prova dell’eccellenza a cui si poteva giungere sì nella diagnosi delle infermità, come nel metodo più acconcio alla cura, e nella conoscenza dei mezzi sociali onde prevenire il male.

E persuase gli uomini col fatto, col risultato, con l’esempio; e li costrinse ad associarsi al proprio lavoro.

Questa è cosa facile ad intendersi da chi legge; non è nemmeno cosa difficile a scriversi: ma è [p. xxxv modifica] invece cosa difficilissima a fare, e spesso l’intera vita di un uomo non basta. Far scintillare un’idea nuova e benefica in mezzo all’oppressione e alla ripetizione del quotidiano lavoro, farla penetrare nel cervello dei propri simili, frangere le difficoltà, far sorgere dal pensiero l’opera, indurre gli uomini a questo lavoro è cosa difficilissima fra le cose difficili che Iddio pose a compito degli uomini generosi: ed è opera altamente geniale e poetica, giacchè contrariamente all’opinione volgare e dei retori scolastici, la Poesia estende il volo della sua conquista al di là dei limiti dei brevi versi.

Inoltre il Panzeri fu inventore di metodi efficaci ed ingegnosi nella cura dell’ortopedia: fu grande anatomico, diagnostico, operatore.

Il signor Dottor Pietro Bossi, redattore capo dell’Archivio di Ortopedia, in un breve cenno di necrologio, comparso su di un giornale cittadino, al tempo che il Panzeri morì, scrisse queste giuste ed efficaci parole:

«Pareva che il corpo umano non avesse più segreti per lui: aveva la diagnosi sicura, la cura pronta, la mano infallibile».

Ma nell’operosità scientifica, benchè il Panzeri sia stato il maggiore e il migliore in questo ramo del sapere, ebbe di certo chi lo precedette, e avrà chi lo seguirà ed avanzerà. L’edificio della scienza [p. xxxvi modifica]è costruito per tal modo che esso sorge dalla complessità dell’umano lavoro: l’opera dell’architetto è dagli uomini sommata con quella dell’umile operaio, e nulla se ne perde nel tempo. L’un uomo scomparendo, tramanda all’altro la lampada del sapere perchè questa risplenda di maggiore luce.

Ma dove l’opera umana splende di luce propria nè teme eclissi di luce maggiore è nel bene fare ai propri simili, fortemente, sapientemente, umilmente, cioè senza anelare alla lode e senza temere l’oblio, la maldicenza, le asperità della critica.

Far conoscere e divulgare questi sani e santi frutti del Bene è il mezzo più pratico e semplice per riconciliare gli scettici e gli inerti con l’umana imperfezione.

Ora di questa nuova fede, di questa religione del bene e umanamente operare il Panzeri fu apostolo di pari fervore che della scienza.

Pietro Panzeri nacque lombardo, e del lombardo aveva i caratteri, cioè l’attività grande, il buon senso pratico, la bonarietà e, non esclusa talvolta, una certa rudezza esteriore della parola e del fare, sotto la quale rudezza non era però difficile lo scoprire l’indole sua squisitamente gentile. «Un burbero benefico», questa fu l’espressione facile in cui quasi tutti coloro che io del Panzeri richiesi, [p. xxxvii modifica] ebbero ad esprimersi per significare una forma non facile a definire dell’anima di lui.

Di giuste membra, complesse e piene ma non perciò meno pronte e vigili, corretto nel vestire, senza affettazione o ricercatezza; dalla linea del volto decisa, dal crine biondastro, dalla testa perfettamente conformata, dall’occhio ampio sporgente cui velavano grandi palpebre, occhio penetrante, indagatore e sarei per dire imperioso; tale l’aspetto esterno di Pietro Panzeri.

Geniale, dunque, l’aspetto dell’uomo.

La necessità della pratica professionale aveva forse dato al suo contegno quel non so che di magistrale e di autorevole che fortemente impone altrui.

Gli uomini di assoluto valore sono talvolta costretti ad assumere nei tratti esteriori gli emblemi e i contrassegni di questo loro valore.

Ciò produce sorprendente effetto e, quel che è più, cagiona il beneficio inapprezzabile di una grande economia di parola e di ragionamenti per muovere e persuadere gli uomini ad una determinata azione.

Per quanto ci affatichiamo ad inneggiare al progresso, certi caratteri insiti nell’umana natura perseverano con la loro intima essenza; e nel modo stesso che nei tempi remoti della storia l’uomo più forte ne aggiungeva gli emblemi e ostentava, per disporre altrui all’ubbidienza, lo scettro, la corona e il manto, così anche oggi, benchè [p. xxxviii modifica] questi siano emblemi alquanto disusati, l’uomo destinato al comando ha bisogno di aggiungere qualche contrassegno esteriore del diritto che egli ha di comandare.

La cosa è tanto dolorosamente vera che molti uomini vuoti di valore ma largamente forniti di fine astuzia, soltanto con l’assumere l’impostatura esteriore del valore, attraversano vittoriosamente e trionfalmente il cammino della vita. Nè vi è controllore che osi farsi avanti e domandare la tessera del passaggio: e ciò avviene un po’ a simiglianza di quel che accade a chi viaggia nei convogli, chè gli umili passeggeri di terza classe sono con speciale cura onorati della visita del controllore.

Io non so se ho fatto opportunamente a scrivere questa chiosa: ma nessuno, io penso, nel cuor suo oserà dire che io sono fuori del vero.

Ma ritornando al Panzeri, aggiungerò come quest’abito esteriore di dignità, quando gli avveniva di trovarsi fra intimi, o accalorandosi il discorso, si scomponeva facilmente e spariva in breve, e l’indole dell’uomo leale, buono, alla mano, appariva schiettissima.

Conviene anche aggiungere come ad accrescere dignità naturale contribuisse il raro dono della parola che egli avea sortito da natura, facile, pronta, [p. xxxix modifica] elegante, persuasiva. Ed egli vi aggiungeva quella nobile cura dell’arte del dire per cui conversando o spiegando, non era agevole indovinare in lui il nativo dialetto lombardo.

Questa qualità del bene e italianamente parlare si incontra, del resto, assai facilmente in Lombardia in persone, uomini e signore, fornite di buoni studi e di chiaro ingegno.

Come medico e scienziato mi piace dire come il Panzeri continuasse la bella e gloriosa tradizione italiana, della quale Francesco Redi, il Morgagni, il Mascheroni sono fra i più noti esempi, gente non chiusa cioè nella rocca forte delle proprie nozioni speciali di scienza, ma — mi si conceda la parola — latinamente, italicamente disposta a più vasta comprensione.

Aveva il Panzeri coltura varia, conoscenza molta e geniale fuori del campo speciale della medicina, disposizione vivace ad occuparsi delle più alte e nobili manifestazioni del pensiero, come l’arte, la filosofia, la politica. E ne trattava come ne sogliono trattare generalmente i medici colti e di ingegno, cioè con molta equanimità, serena larghezza di vedute ed ampio senso umano.

Ma altre piccole cose io ho raccolto dalla viva voce delle signorine assistenti dell’Istituto, le quali per anni condivisero con lui l’opera benefica in [p. xl modifica] pro’ dei poveri deformi: piccole cose dette semplicemente, ma sinceramente: piccole cose e di niuna importanza magnifica ed eroica, per così esprimermi. Però chi legge queste pagine, voglia, nella sincerità della sua ragione, considerare se esse si incontrano di frequente negli uomini che pur occupano un grado sociale elevato: dovrà rispondere che no; come dovrà riconoscere che se si incontrassero più frequentemente, questo fragoroso carro della famiglia umana camminerebbe meglio, con meno sbalzi, con meno urti o soste dolorose.

Ecco: mi dissero che il Panzeri «faceva soggezione senza darsi nessuna importanza»; per l’appunto il contrario di coloro che si danno molta importanza, ma non esercitano alcuna soggezione.

Direttore ed amministratore del suo Istituto, voleva saper tutto. «Io voglio saper tutto», ripeteva a guisa di motto, e spesso non avea bisogno di interrogare, però che «squadrava, e dalla fisonomia sapeva quello che voleva sapere e spesso indovinava quello che noi volevamo dire. Non gli si poteva tener nascosto niente».

Nell’impartire i suoi ordini non doveva essere nelle forme eccessivamente mellifluo, se è vero che «comandava come un generale».

Ma sta il fatto che quelle sue dipendenti, ricordando lui e la immatura sua perdita, si commovevano di commozione sincera e si vantavano di essere da lui state trattate «come figlie». [p. xli modifica]

«A fargli una gentilezza ne ricambiava cento» e come amministratore dell’Istituto, avea qualità eccezionali. «Correva dietro al centesimo per il suo Istituto»; e sorvegliava per tal modo il generale andamento dell’azienda, «che alla sera sapeva dove era andato a finire un ago».

Lavoratore instancabile, dalla attività e dalle movenze giovanili (talvolta lo coglieva non so quale spossamento, indice forse del male che lavorava di dentro e che precocemente lo tolse di vita) pretendeva pari attività e solerzia negli altri. E in verità è singolare il disprezzo invincibile che l’uomo laborioso per naturale bisogno di operare, sente per gli inerti e per gli accidiosi!

Dante li pone sotto la belletta nera di Stige perchè tristi furono

               nell’aer dolce che del sol si allegra.

E se Dante fa grazia, sorride e salva nel Purgatorio Belaqua — che in terra fu fabbricator di leuti e visse pigrissimo uomo nelle faccende del mondo — ciò forse avvenne perchè in Belaqua era alcuna significazione filosofica e faceta per quella sua pigrizia.

Ma ciò avviene di rado in coloro che hanno la pigrizia per loro «sirocchia» come scrive Dante, e l’eccezione conferma la regola. [p. xlii modifica]

Il Panzeri «conosceva ad occhio chi lavorava e chi non lavorava».

Questo intendimento, così semplice, è il più difficile a riscontrarsi in coloro i quali per merito di carriera e di anzianità sono giunti a capo di qualche publica amministrazione. Molte riforme di leggi e di regolamenti potrebbero essere dichiarate inutili se nei capi esistesse questo intendimento di conoscere chi lavora e chi non lavora; e anche molto risparmio potrebbe derivare nell’azienda della cosa publica.

Almeno questo a me risulta per mia esperienza.

Un giorno di Pasqua, due signorine sorveglianti doveano lavorare un apparecchio gessato.

Obbiettarono al Panzeri che in quel giorno nessuno lavora perchè è giorno santificato dalla festa.

Rispose il Panzeri dicendo che «il lavoro è il miglior mezzo di santificare la festa».

Ma poco dopo fece trovare alla porta dell’Istituto la sua carrozza e pregò le signorine che andassero fuori a pigliare aria.

E mentre il lavoro dell’Istituto costringeva quelle sorveglianti a starsene quivi tutto il dì, egli [p. xliii modifica] si doleva perchè non andassero quasi mai fuori. Contraddizioni che fanno onore!

Il Panzeri non ebbe famiglia propria, ma è certo che amava i piccoli ricoverati come figli suoi e aveva quel senso di pietà e di bene per l’infanzia che è carattere degli animi squisitamente gentili. Naturale questo affetto nella donna, esso è piuttosto raro nell’uomo, specie poi nell’uomo che è rimasto scapolo oltre al limite del tempo ragionevole per crearsi una famiglia. Gli scapoli di matura età hanno di solito una specie di sacro terrore per l’infanzia, e se accarezzano il mento di un bambinello, se per convenienza ne blandiscono le chiome ricciute, se dicono: «Carino!», nel cuor loro aggiungono: «Carino, ma lontano; se li tenga chi li ha fatti!»

Il Panzeri, ripeto, sentiva il naturale affetto per la sua numerosa famiglia di piccoli infermi. Abitando nell’Istituto (quattro stanzette al primo piano nel padiglione centrale, dove unico lusso era la pulizia più scrupolosa) se udiva qualche piccino piangere nella notte, si alzava egli medesimo.

Sovente faceva i suoi pasti insieme ai pensionanti e al personale superiore di servizio nella sala da pranzo che è a terreno del padiglione centrale. Quivi la sua indole austera si scioglieva in lietezza alla vista e alla compagnia dei piccoli pensionanti, suoi commensali, che gli davano familiarmente il: «Buon giorno, signor Direttore!»

Li baciava e li teneva spesso sulle ginocchia. [p. xliv modifica]

Quando scelse quel suo appartamento nell’Istituto, la stanza migliore e più ampia le cui finestre danno su di un gran terrazzo, era destinata per la madre sua, la quale morì nel 1896 e avea pel figlio un’adorazione.

Da quella terrazza, a lieve altezza dal suolo, gli occhi si riposano sulle sottostanti aiuole ben culte e fiorite e, più lontano, sull’attiguo parco di casa Melzi, dalle antiche piante.

Rimasto dunque per lui solo quell’appartamento, spesso vi accoglieva un piccino, un suo nipote, col quale si compiaceva di conversare, e volle a compagno ne’ suoi viaggi a Parigi ed a Vienna.

Era quel bimbo intelligente tutto il suo amore.

Ora anche quelle stanze sono addette all’uso di infermeria.

Ma anche quando egli era vivo, servivano a questo scopo, talvolta. Giacchè se vi era qualche piccolo infermo, che bisognava isolare, voleva che lo segregassero nel suo appartamento.

«Lo metta nel mio appartamento!» diceva; e alle naturali obbiezioni rispondeva con un: «Lo voglio» che non ammetteva replica.

Quando morì — e fu la sera del 13 aprile dello scorso anno — avea nelle stanze attigue parecchi ammalati che si erano dovuti isolare perchè coi loro lamenti disturbavano gli altri infermi.

Il Panzeri sostenne anche onorevoli uffici cittadini: fu presidente dell’Associazione Sanitaria Milanese, consigliere dell’Istituto Sieroterapico, [p. xlv modifica] dirigente la Poliambulanza. Fu non solo filosoficamente di opinioni democratiche, la qual cosa sovente si incontra in persone che, pur aliene dalla politica, sono per necessità della vita al contatto giornaliero delle miserie e delle sofferenze dei meno favoriti dalla fortuna e dei così detti umili; ma militò nelle file del partito democratico, e come tale fu consigliere ed assessore del Comune di Milano e candidato politico del Collegio di Cantù. Negli ultimi tempi, mi osservava taluno, il suo pensiero tendeva verso espressioni di stanchezza riguardo alla vita publica, della qual cosa — se vera — maggior valore di significato avrà questa frase che l’Istituto «era tutto il suo regno».

Tale l’uomo, il quale se, in questa età nostra in cui l’estetica ufficiale domina e fa di sè vana pompa in ogni manifestazione della vita, era per avventura manchevole di facoltà poetiche ed estetiche, vi suppliva con questa estetica e poesia dell’azione, e con queste qualità umane che nei signori i quali sono per proposito deliberato individualisti esteti, così spesso si desiderano.

Se era in lui una debolezza, proveniente forse dal sentimento di quanto avrebbe potuto e voluto operare, questa debolezza consisteva in una certa repugnanza a sentir parlare di anni fuggenti, oimè più veloci de’ cervi in corsa e dell’Euro impetuoso.

«Se ho un dispiacere è che divento vecchio» — dicea di sovente.

Ma in verità la vecchiezza — irrimediabile [p. xlvi modifica]deformità — non lo sorprese, nè egli vide pieni i suoi giorni nè certo compiuta l’opera sua di scienziato, quale egli dovea vagheggiare. Lo sorprese invece la morte, nel pieno vigore della virilità, una di quelle morti fulminee e pietose che gli antichi con voce sapiente chiamarono «per visitationem Dei».

E fu così:

Aveva lavorato tutto il giorno, assistito, consigliato, operato gli infermi, aveva trascorso la sera in mezzo alla sua famiglia d’elezione, nell’Istituto dei Rachitici. Erasi mostrato, come di consueto, genialmente cordiale con tutti i commensali: mangiò poco e poi fece una passeggiata in giardino verso le otto. Era incerto se uscire o no; sentì un po’ di freddo, e disse: «Vado a mettermi a letto».

Si coricò: e pregò una delle assistenti dell’Istituto di leggergli il giornale come era solito fare qualche volta.

La lettrice era abituata, quando si accorgeva che stava per addormentarsi, ad abbassare la lampada ed andarsene inavvertita. Ma quella sera, come ella mi disse, «avea qualche cosa di fisso in mente ed era incapace ad alzarsi dalla sedia».

E così stando, cessata ogni lettura, vide che si svegliava.

Si svegliò e domandò che ora fosse.

Ella rispose: — Le otto e mezzo; desidera di dormire, signor direttore? [p. xlvii modifica]

— No, seguiti a leggere, signorina — fu la risposta.

Non molto dopo accusò male al cuore.

Cinque minuti dopo non era più.

La morte fu così repentina che il volto conservava l’inalterabile espressione della calma nel sonno.

Non ebbe tempo di soffrire.

Morì di sincope cardiaca. Avea quarantanove anni.

Di questo male che lo fulminò nella pienezza della vita, è dubbio se egli avesse conoscenza piena: certo, se l’ebbe, non ne lasciò agli altri, nè meno ai conoscenti più intimi, trapelare il sospetto.

Della sua vita e della sua attività di scienziato non sarà al lettore discaro che io aggiunga a necessario complemento di quanto è detto sopra, qualche cenno, quale io ho raccolto dalle notizie a stampa che furono edite nell’occasione della sua morte.

Pietro Panzeri nacque a Sormano di Brianza, nel mandamento di Erba in quel glorioso anno 1849 che segna la terza epica ripresa per la resurrezione della patria. Il padre era medico condotto, dunque figlio d’arte, per così dire; e fece i primi studi a Como. Nel 1866 a diciasette anni come quasi tutti i giovani ben nati di quell’età, specie fra studenti, [p. xlviii modifica] il suo spirito entusiasta d’ogni alto ideale lo spinse ad arruolarsi soldato volontario, e questo tempo della sua vita rimase tanto impresso nella sua mente e nel suo cuore, che lo ricordava e se ne compiaceva spesso.

E la cosa, che può meravigliare la nostra indifferenza odierna in materia di eroismi, di patria, di guerra — guerre sante o guerre infami — la cosa, dico, si spiega perfettamente.

A diciasette anni, nella primavera della vita, nel principiar dell’estate del 1866, in quella meravigliosa primavera della patria, l’avere affrontato l’ignoto, la lotta, la morte per un’idea che accendeva tutti i cuori, deve essere stata una cosa sublime per purità. E comunque andarono poi le cose, è naturale che l’animo si rifugiasse con compiacimento nella memoria di quei giorni di fede e di azione, come in un’oasi.

Fu il 1866 forse l’epoca più bella del nostro risorgimento. Mai tanta speranza aveva cantato nei giovani cuori! Mai sul mortificato e aduggiato, da servitù molte e gravi, giardino d’Italia era sorta così bella fiorita di giovanezza, spirante ardore di sante battaglie! Mai tante bandiere dai bei nostri colori, quasi riflesso del mare, del verde e delle fiamme del sole, avevano ondeggiato al mite favonio del Maggio! Dopo il cinquantanove e dopo la gran gesta Garibaldina del sessanta, non c’era solo il martirio glorioso davanti agli occhi, ma era lecito sperare la vittoria sicura e grande. [p. xlix modifica]

E invece ci fu la sconfitta grande e non davvero gloriosa. Giuseppe Mazzini in sull’aprirsi della campagna del ’66, dettò alcune pagine raggianti di lume profetico che gli italiani fanno benissimo a non ricordare. È tutto mal di testa risparmiato. Però — obbietterà alcuno — se le armi mancarono, la diplomazia fece meraviglie. Troppo giusto. Il Veneto, che ancora era sotto la soggezione austriaca, fu per Napoleone ricongiunto alla patria italiana. Però quel passaggio improvviso dalla ridente primavera al triste autunno, tutto quel grande e concorde vino dell’entusiasmo commutato in breve tempo in aceto e in veleno, non rimase senza effetto nel tempo di poi. Filtrò nelle vene della nazione che già altri germi malsani possedeva: il male apparve ad intervalli con espulsioni di carattere maligno, più tardi, e a varie riprese. Nè anche oggi si può dire compiuta la cura depurativa del sangue malsano.

Chiedo venia della disgressione.

Pietro Panzeri, giovanetto, si arruolò sotto le bandiere garibaldine; e, più precisamente, prese parte alle operazioni di guerra compiute dalla legione di guardia nazionale mobile, la quale fu ideata e organata dopo molte difficoltà, titubanze e [p. l modifica] incertezze da parte del governo, per opera del deputato valtellinese, intendente della provincia di Sondrio, Enrico Guicciardi.

Il decreto ministeriale che stabiliva la mobilizzazione di questa legione di volontari, guardie doganali e forestali, data dal giorno 15 giugno, e stabiliva come limite dell’azione la difesa contro gli Austriaci delle due alte valli dell’Adda e dell’Olio, cioè delle due strade militari per i valichi dello Stelvio e del Tonale — possibile e pericoloso accesso all’invasione nemica, come i ricordi delle guerre del ’49 e del ’59 dimostrano.

Questa legione, posta a difesa dell’Alpe come scolta perduta, fece così bene il dover suo che si meritò l’elogio di Garibaldi e l’ammirazione degli stessi nemici1. [p. li modifica]

Nè mancarono i fatti d’arme, gli stenti, le fatiche per reggere la vita in su quelle nevose altissime cime dei monti, fra le intemperie, gli impeti dei venti, lo scatenarsi degli uragani, le vie impervie e perigliose: e non soltanto i volontari difettavano di vesti e di buone armi, ma tutto l’approvigionamento militare era manchevole o impari all’impresa.

Tra le varie fazioni della campagna, il Panzeri prese parte a quel fatto d’arme del dieci di luglio, che il colonello Guicciardi aveva accuratamente predisposto ed ordinato al fine di sloggiare un forte nucleo di Austriaci che si erano muniti nella località chiamata dei Bagni Vecchi, presso Bormio: impresa compiuta con molto ardire e fortuna e che ebbe il suo coronamento in quell’audacissima mossa del dì seguente, eseguita dal Pedranzini, così audace che ne rimase la memoria e il nome al luogo.

Il Pedranzini, con cinquanta dei più risoluti tra i suoi valtellinesi, si lasciò scivolare a corpo perduto dall’alto della Reit, già guadagnata al mattino, giù per il ghiacciaio che sovrasta il passo chiamato del Diroccamento. E fu tanto grande l’effetto di quella insospettata e fulminea discesa, che una compagnia nemica di retroguardia ne fu sorpresa, scompigliata ed ebbe intercettata la fuga. Rifugiatasi e munitasi a furia entro la prima cantoniera, il Pedranzini alla prima audacia ne aggiunse una seconda e maggiore: si gettò solo sulla via in [p. lii modifica] mezzo alla fucilata e intimò da solo agli Austriaci la resa, e l’ottenne.2

Terminata la guerra del ’66, il Panzeri riprese gli studi interrotti. Vinse un posto nel famoso collegio Ghisleri di Pavia, percorse quivi gli studi universitari, distinguendosi per l’attività e la chiara intelligenza.

Laureatosi nel 1872, si stabilì a Milano e in questa città spiegò tutte le doti della volontà, del sapere, dell’intelligenza, del cuore.

«Io era — diceva egli stesso — nella necessità di dover procurare i mezzi per la mia esistenza e quella della mia famiglia; il mio animo inclinava alla chirurgia, anzi era già sorta in me l’idea di fondare un Istituto ortopedico italiano dall’aver, ancora studente, trovato fra i libri di mio padre e letto un opuscolo di Cresci Carbonai seniore sull’Istituto ortopedico di Firenze».

Benchè, come appare da questo passo, egli avesse il senso intuitivo della vocazione a cui era chiamato, in quei primi anni dopo la laurea, la sua opera fu spesa in lavori di natura varia e molteplice, spiegando nondimeno tutta quella sua [p. liii modifica] singolare attività che era propria dell’indole sua; finchè potè, per benigna fortuna e concorso di eventi, infilare la via diretta, nella quale dovea giungere a così alta meta.

La volontà del riuscire era in lui pari alla tenacia ed alle forze. Spenditore parsimonioso e avveduto del tempo, seppe trarre mirabile profitto del vigore prezioso che in sè gli anni giovani contengono.

Ed è così che — entrato come funzionario nell’Ospedale Maggiore di Milano, percorrendo poi tutte le fasi del tirocinio pratico, potè occuparsi ora di medicina, con un «Ragguaglio Clinico» ispirato dal Prof. Rovida (1873), e dal quale appare subito la lucidezza dei concetti, la chiarezza del suo dire e le ottime cognizioni scientifiche sopra svariati argomenti della medicina; ora di oculistica ed ora di chirurgia; sia con riviste, sia con note di patologia e di medicina operatoria, come risulta da alcuni saggi nella «Patologia ed operazioni sulla cornea» e nella «Patologia ed operazioni sulla mammella».

Collaborò efiicacemente nell’Enciclopedia Medica Italiana (1875-76) come pure negli Annali di medicina e chirurgia, lasciando ovunque traccia dell’originale suo ingegno.

Nel 1877 potè visitare e frequentare le principali Cliniche e gli Ospedali esteri, specialmente di Londra: nella quale occasione seppe afferrare, con criterio perspicace e pratico, l’importanza di [p. liv modifica] un argomento che appariva, presso di noi, quasi nuovo nell’esercizio della medicina e della chirurgia corrente di quel tempo, cioè l’argomento che trattava delle deformità del corpo, siano esse congenite od acquisite, o siano residuanti e secondarie di altre malattie; in una parola l’ortopedia.

Data da quel tempo la tendenza deliberata allo studio della chirurgia, e coordinando le cose vedute e facendo tesoro delle conquiste già raggiunte dai precedenti cultori di quella sua prediletta scienza, propose a sè stesso di iniziare in Milano e dotare la patria di questo studio speciale al quale poi si dedicò con tutto l’entusiasmo e con tutta l’attività sino all’ultima ora della sua vita.

Nel 1874 il Dottor Gaetano Pini, apostolo fervente della beneficenza, sull’esempio del conte Ricciardi a Torino, apriva a Milano, coll’aiuto della carità cittadina, la «Scuola dei rachitici».

Questa Scuola, già vagheggiata dal Pini sino dall’anno precedente (V. «Appendici igieniche» nella Gazzetta di Milano di detto anno) avea per iscopo: «di raccogliere per alcune ore del giorno i figli del popolo e della miseria, maggiormente colpiti da rachitide, ove alle cure intelligenti di un medico, alla ginnastica bene ordinata, alla idroterapia, alla somministrazione del ferro e dell’olio di [p. lv modifica] fegato di merluzzo, si aggiungesse una scuola per l’insegnamento di quelle discipline e di quelle arti alle quali più tardi, secondo le loro forze e le naturali inclinazioni, potrebbero dedicarsi questi derelitti cui un giorno le severe leggi di Licurgo avrebbero barbaramente condannato a morte».

Non sarà però discaro che ad onorevole ricordo storico per la città di Milano io riporti come già sino dal 1850, un patrizio milanese, il marchese Alessandro Visconti d’Aragona, destinasse, nel suo testamento, una somma cospicua a pro’ di un «Ospedale ortopedico per la cura di tanti poveri bambini affetti da rachitide».

Le parole dell’atto testamentario sono così degne che mi piace di qui riferirle:

«Obbligo il mio erede a tenere a disposizione di un futuro «Ospedale ortopedico» per la cura di tanti poveri bambini affetti da rachitide, la somma di L. 6000 (seimila), sperando che le misere e dolorose vite a cui vengono ad essere condannate tante innocenti vittime, che «giungono in questa città a un numero desolante», possa eccitare qualche filantropo a proporre alla tanto sperimentata carità dei miei concittadini l’erezione di un simile stabilimento, di cui questa città, per circostanze sue particolari, ha un estremo bisogno a fronte di tante altre pur provviste di simile beneficenza. Il mio ardente voto e i tenuissimi mezzi, di cui mi permetto disporre, avranno ottenuto il loro scopo se, come dissi, determineranno almeno [p. lvi modifica] un desiderio nei buoni e pietosi che sapranno condurlo ad effetto».

Questo desiderio del nobile signore doveva essere convertito in fatto e così largamente da superare ogni speranza di allora.

Il primo gennaio 1875 Milano vide sorgere la prima scuola dei Rachitici. Essa era in una vecchia casa situata nella via Sant’Andrea, oggi caduta sotto il martello demolitore. Quivi vennero raccolti i primi dieci bambini rachitici strappati agli artigli della morte, alle turture della miseria. Gli ostacoli che si dovettero superare per raggiungere meta sì splendida furono grandi e numerosi. I pregiudizi del volgo, le diffidenze degli increduli, il sorriso degli scettici, l’indifferenza dei più, non valsero a distruggere l’azione benefica dei pochi, che, animati da un sentimento eminentemente umanitario, si dedicarono con entusiasmo a questa nuova conquista della scienza e della carità.

La prova tentata era così bene riuscita che le poche stanze nelle quali la scuola aveva avuto la prima sede, non tardarono in breve a mostrarsi insufficienti ai bisogni, per cui il Consiglio d’amministrazione pensò provvedersi di un luogo meglio rispondente allo scopo dell’istituzione, trasportando questa scuola in una casa situata nel vicolo Rasini.

Quivi la scuola, pur così modestamente iniziata, assunse presto forma ed importanza di Istituto, in modo che nel 1876, il R. Governo accordava all’Opera benefica personalità giuridica con decreto reale [p. lvii modifica] in data 13 agosto; e alla Esposizione internazionale di igiene e salvataggio, tenuta in quello stesso anno a Bruxelles, conseguiva la medaglia d’argento per le relazioni e gli oggetti esposti.

Ora il Panzeri, accanto a questa scuola, aprì un «Ambulatorio ortopedico»; il primo che sorgesse in Italia, ed il primo germe della scuola ortopedica italiana.

Da questo semplice ambulatorio, una povera stanza dalle più modeste apparenze, in detto vicolo Rasini, con pochi mobili ed un registro, uscì una ricca esposizione di risultati ortopedici, scientifici e pratici che fecero la loro splendida mostra alla prima esposizione nazionale tenutasi con tanta fortuna di successo in Milano nel 1881.

Ma i nuovi processi operatori, la impossibilità che il giorno stesso dell’operazione i fanciulli fossero consegnati alle madri, quasi sempre sprovviste di mezzi e dimoranti in abitazioni malsane, fecero sentire il bisogno di un luogo anche più idoneo. Per la qual cosa apparve tosto necessario che all’Istituto, oltre all’asilo e all’ambulanza, si asiungesse una terza sezione, destinata ad infermeria, nella quale potessero essere accolti quei fanciulli che, colpiti da più gravi deformità, avevano bisogno di atti operativi di non lieve natura. Fu per tal cagione che il Consiglio d’amministrazione, con ardita iniziativa, pensò costruire dalle fondamenta un vero e proprio Istituto che potesse servire di modello agli altri congeneri. [p. lviii modifica]

Infatti, dato incarico all’Ing. Giovanni Giachi e al Dr. Gaetano Pini, direttore dell’Istituto, di predisporre un progetto completo, acquistata dapprima una vasta area in posizione salubre, il Consiglio deliberava, nel 1880, che si imprendessero i lavori di costruzione, i quali, in meno di un anno, furono condotti a termine col coronamento di un edifizio eretto per opera di publiche e private sottoscrizioni. Esso venne solennemente inaugurato il 30 ottobre 1881, e fu il Padiglione descritto nella prima parte di questa presente memoria.

Ma appunto allora che il sogno vagheggiato dal Panzeri si era mutato in realtà, sorse dissenso tra il Pini ed il Panzeri, manifestamente per diversità di vedute e di intendimenti, giacchè il Panzeri intendeva all’Istituto dare uno sviluppo maggiore che quello di semplice asilo e di scuola, bensì intendeva che fosse anche un ambulatorio esteso alla cura di tutte le molteplici deformazioni del sistema osseo e articolare.

Il progetto parve allora troppo vasto e di troppa complessa attuazione perchè fosse eseguito. Il fatto è che il Panzeri da allora cessò dall’aver parte nella direzione della Scuola. Ma in lui era troppo ardente la fede e troppo tenace la convinzione scientifica perchè, chiusagli quella via, non [p. lix modifica] se ne aprisse un’altra e, in fatti, associatosi co’ suoi amici e assistenti, istituì in via Unione quella Poliambulanza la quale doveva in processo di tempo avere così grande sviluppo e favore del publico; trasferita poi in via Fieno, attualmente in via Arena.

In questo periodo di tempo di quasi sei anni, che decorrono agitati e veloci, il Panzeri produce i suoi migliori lavori d’ortopedia, e molti altri ne inspira ai suoi colleghi. Lavori originali, compendi, riviste e bibliografie, sempre interessanti, riguardanti la specialità, compaiono successivamente nell’Archivio d’Ortopedia da lui fondato, a cui ormai faceva capo ogni cosa che riguardasse la scienza ortopedica e che in breve aveva percorso l’intera penisola, accolto festosamente dagli studiosi della specialità.

La via era ripresa, la popolarità riacquistata; ed il coraggio andava crescendo in ragione dei risultati ottenuti. Ma il Panzeri non si arresta a questi risultati. Sorretto dall’esperienza e dalla conoscenza ormai profonda dei vari argomenti dell’ortopedia, si crede in obbligo, non solo di esercitarla, a vantaggio dei poveri e dei ricchi, ma di divulgarne sempre più la conoscenza. E quantunque il giornale da lui fondato la rendesse nota e familiare già sufficientemente, tuttavia egli pensò di riuscire ancora più efficace al suo scopo, coll’aprire un «corso d’insegnamento dell’ortopedia» in quell’istessa Università, a cui lo legavano vincoli di riconoscenza [p. lx modifica] e d’affetto. Per tale modo, negli anni 1884-85, si apriva in Pavia la prima cattedra di ortopedia nel Regno con effetti legali. In quella occasione il Panzeri, in poderosa sintesi compendiava l’istoria dell’ortopedia moderna dimostrando quanto progresso questa disciplina medica poteva trarre dalla meccanica applicata secondo ragione, emancipata dai medicamenti empirici, aiutata e sorretta dall’applicazione del massaggio, della ginnastica svedese, e dalle cure ottenute mercè un’azione scientificamente diretta.

La morte del benemerito filantropo Edoardo Pini (1886), egli pure scomparso nel vigore dell’età, ebbe per effetto che il Consiglio d’amministrazione dell’Istituto ne chiamasse alla direzione il Panzeri, riconoscendo in Lui giustamente i meriti dello scienziato, del lavoratore e del filantropo, che aveva fin allora, parallelamente all’Istituto, collaborato alla beneficenza cittadina con nobile emulazione. Da allora data più specialmente il grande incremento economico e sopratutto scientifico e morale dell’Istituto.

Da tutta Italia e anche dall’estero, venivano gli infermi a domandare al Panzeri la giusta forma delle membra che la natura aveva sbagliato. Le sue operazioni parevano miracoli: ed i gessi dei corpi sciancati e quelli degli stessi corpi aggiustati che si conservano nell’Istituto, costituiscono il museo della gloria dell’illustre scienziato. [p. lxi modifica]

Nel 1894 il Panzer! venne chiamato a dirigere quell’Istituto ortopedico che per la memorabile munificenza dell’insigne clinico Rizzoli, sorge in sul bel poggio di San Michele in Bosco, fuor delle mura di Bologna.

Il Panzeri, non solo come clinico operatore, ma, quel che è notevole, come organatore e amministratore abilissimo, si presentava naturalmente come il medico più adatto per dare assetto all’Istituto bolognese.

Il Panzeri, benchè già molto occupato nel proprio Istituto di Milano, non seppe, forse non volle rifiutare l’onorevole incarico. Ed è per tal modo che si sobbarcò al doppio ufficio viaggiando da Bologna a Milano, facendo i suoi pasti nel treno istesso, giacchè il naturale affetto, l’amore alla terra natia, le molte cure quivi impiegate gli toglievano di abbandonare interamente la direzione dell’Istituto milanese.

Ordinato ed avviato l’Istituto Rizzoli, il quale riuscì davvero il primo d’Europa e formava una delle legittime glorie di lui, egli si ritrasse nell’Istituto di Milano, che era quasi il suo regno, come dianzi fu detto, e dove la morte lo spense anzi tempo. [p. lxii modifica]

Un suo collaboratore ed amico, il Dr. Pietro Bossi, già ricordato, in un cenno necrologico, al tempo della morte di lui, scrisse queste parole, le quali confermano quelle da me dette innanzi:

«Chi non lo ha conosciuto nell’intimità, chi non sa di quanto amore circondasse la mamma e le sorelle, chi non lo ha veduto al letto degli ammalati, chi non provò i suoi conforti d’amico, chi non conobbe la profonda onestà dell’animo illibato e le dolci espansioni del suo cuore, non può giudicare appieno la grandezza della perdita che abbiam fatto».

In codesto edificio che tanta miseria umana racchiude si è materiata per così dire la volontà di lui e vive la sua anima, ed ai buoni s’affida per la continuazione dell’opera sua.

Alfredo Panzini.




[p. i modifica]PIETRO PANZERI


Note

  1. Nota. — Vedi Giornale delle operazioni di Guerra eseguite dalla legione di guardia Nazionale mobile a difesa dello Stelvio e Tonale nelle campagne del 1866, redatto da Aristide Calmi, già capitano aiutante maggiore in primo della legione. Torino, Tip. G. Cassone. Via S. Francesco di Paola, 6, 1868.
  2. Nota. — Il passo della Reit in memoria di questo notevole esempio di ardimento, ebbe nome anche di Passo Pedranzini. Vedi «Guida alla Valtellina ecc. Seconda edizione pubblicata in Sondrio Tip. Quadrio nel 1884», pag. 307.