Le colpe altrui/Parte II/Capitolo IX
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IX.
Negli ultimi mesi di gravidanza Vittoria si sentì bene. Solo, qualche volta, aveva paura; le sembrava che al misterioso avvento della nascita del figlio dovesse seguire la sua morte; poi, rassicurata dalle donne e da zia Andriana, la quale funzionava anche da levatrice, si rallegrava tutta, e la sua pesantezza, le sue inquietudini, la sua stessa paura le riuscivano grate.
Era come la terra in quel tempo quando sta per scoppiare la primavera; ancora il vento gelato di Monte Nieddu devastava i campi umidi e fangosi; ma d’improvviso il sole caldo rompeva le nuvole e l’erba brillava dorata sui poggi e colore di smeraldo lungo il torrente.
Un giorno, mentre Marianna Zanche tagliuzzava le bucce di arancio per preparare i dolci per il battesimo, arrivò Pancraziu vestito a festa, allegro come un passero. Aveva sposato Ignazia fin dall’autunno passato, e aspettando che Mikali tenesse la promessa di concedergli a mezzadria il predio, dormiva con lei in una stanzetta presa in affitto da zia Andriana, nella casa attigua alla bettola e alla stamberga dell’ex-fattore.
— E dov’è zia Sirena? E la padrona giovane? Sono andate in maschera? È carnevale.
— Non ci manca altro! Sirena è a letto con la febbre di raffreddore. A dire il vero l’ho costretta io, a coricarsi, perchè lei è come il pestello che non si stanca mai di pestare. E Vittoria è in camera sua.
— Quando nascerà dunque, questo valentuomo?
— A giorni, Dio volendo.
— E allora datemi da bere per augurare che sia un maschio. Poi vi racconterò tante cose. Il vostro vino è buono, zia Marià, buono, quasi come quello di Ciara la mia vicina bettoliera...
La donna non capì subito l’allusione maliziosa, tanto che domandò notizie del marito di Ciara.
— Quello sta bene in America; là, dicono, ci sono bei pascoli per i cervi.
— Mala lingua, va in ora buona, sei sempre tu!
— Perchè dovrei cambiare? Non cambia il mondo, non cambio io. Dunque, vi racconterò. Venendo qui sono entrato dai Zoncheddu. Battista muore. Vuole confessarsi col frate e hanno mandato a chiamarlo, su, nella sua tana fresca... Una volta ci sono stato anch’io.
Un’ombra sorse in mezzo a loro: e la donna impallidì, pensando che anche Battista moriva come il povero Andrea, d’amore e di dolore.
— Sia fatta la volontà di Dio, — mormorò. — Morire è finire di soffrire.
— Mala fata! Io preferisco vivere: soffrire, combattere anche coi diavoli, ma vivere. Vi dirò, dunque, che ho veduto il padrone poco fa, là da Ciara. Sta bene, Mikali; è grasso e forte come un lupo: non gli manca niente, sfido! «Dunque, gli dissi, quando si accomoda questa casa nel predio, che ci conduco la mia Ignazia?» Egli rise. Disse: «La vuoi dunque nascondere la tua capra nera? Bene, perdio, ti contenterò; appena le giornate si allungano mando il muratore, malanno lo colga, che si vuol pagato come un prete, adesso che l’America ha stregato tutti». Come rideva guardando Ciara! Ma ridevo anch’io, m’ammazzino col bastone; sono allegro, adesso, per le parole di Mikali, allegro come un folletto.
— Che faceva Mikali? — domandò la donna, pensierosa.
— Beveva, perdio! Che volete che facesse? È l’ultimo giorno di carnevale.
Ella guardò verso l’uscio e riprese sottovoce:
— Dimmi la verità; che c’è fra lui e quella malandata?
— Io non so nulla, m’uccidano! Io sto sempre fuori, nel predio; lavoro come un lupo. Adesso, ricostruisco i muraglioni della vigna e combatto con le pietre come un leone. Oh, e la padrona, dunque, si può salutare?
Marianna Zanche chiamò Vittoria e questa entrò lentamente.
Aveva i piedi gonfi, la pelle del viso macchiata; i suoi occhi però rifulgevano d’una luce intensa, più chiari del solito, languidi e come liquidi.
— Come va, padroncina? Come una lupa, vero?
Ella sorrise; ma quando sentì che Battista doveva confessarsi diventò triste.
— Senti, Pancraziu; se vedi il frate nella strada digli che venga pure qui, dopo.
E quando Pancraziu ripetè di aver veduto Mikali nella bettola, ella si guardò le mani coperte di anelli mormorando come fra sè:
— È sempre là, sempre! Beve troppo, e gli farà male.
— Far male a lui? A un gigante? Egli può bere una botte senza risentirsene.
— Sì, è forte; rassomiglia a suo padre — disse Vittoria, che amava si lodasse il suo Mikali; e sollevò il viso sorridendo a zia Andriana che arrivava con qualche cosa sotto il grembiale.
— Ho veduto il frate entrare nello stazzo Zoncheddu. Ho paura che da un momento all’altro si debba attaccare la giovenca1 sotto la finestra di Battista — disse la donna; — il vento di marzo spazza le foglie marcie.
Pancraziu, che non amava le idee melanconiche, s’alzò dicendo che andava incontro al frate per spogliarlo e con la tonaca mascherarsi e condurre sua moglie al ballo.
— Farai meglio a tornare a casa, — disse Andriana. — C’era Mikali che ti cercava.
Allora Vittoria corrugò le sopracciglia e i suoi occhi luminosi parvero spegnersi. Se Mikali aveva veduto pochi momenti prima il servo nella bettola perchè andava a cercarlo sapendolo assente?
Ma non parlò, sebbene la donna le offrisse dei dolci e le dicesse come per confortarla:
— Sta allegra, che tutto passa come il vento di marzo.
*
Poi la donna andò da zia Sirena nella cameretta che guardava ad oriente sull’orto verdolino e sui poggi lontani che il tramonto arrossava, ed era piena di oggetti casalinghi, di proprietà della vecchia serva, tutti disposti in fila, puliti, lucenti. Una pace profonda era là dentro; pareva che i dolori e le passioni che da anni e anni travolgevano gli abitanti dello stazzo non conoscessero quel ripostiglio ove oramai la serva fedele giaceva, inutile come le sue casse, come il suo arcolaio che non girava più.
— Così sola vi lasciano, zia mia? — disse Andriana, curvandosi sul lettuccio.
La vecchia aveva il viso rosso e ansava; ritrasse di sotto il guanciale il rosario e il libro con le immagini ch’erano appartenute a Bakis Zanche, e cominciò a dire cose strane.
— Ecco la mia compagnia. Sto bene, così, e ogni giorno che passa è come per la fidanzata che deve sposarsi. Sognavo che il padrone comprava un cavallo... Cavallo... partenza. Andremo alla festa. Verrà anche Maria Battista Zoncheddu... e laggiù v’è il piccolo Andrea... Meno male, le chiavi le ho già consegnate. Mah!...
Delirava? Dicendo «mah!» corrugò anche lei le sopracciglia minacciose e Andriana pensò a Mikali e ad Ignazia soli laggiù nella sua casupola e rivide il viso di Vittoria coperto da una maschera d’ombra. E ricordò che il frate usava dire: «Dio paga ad usura».
Tornò in cucina e preparò un po’ d’acqua di tiglio per la vecchia, versandola in un boccale di creta, mentre dall’altro lato del focolare Marianna Zanche continuava ad occuparsi delle sue bucce d’arancio galleggianti come piccole barche d’oro sull’acqua di una concula verde. Il tramonto di marzo dorava col suo chiarore melanconico la cucina nerastra; e le due donne, che chiacchieravano sottovoce e si facevano di tanto in tanto il segno della croce, parevano intente a preparare essenze magiche: una per la morte, l’altra per la vita.
Vittoria intanto era andata dalla vecchia, che al vederla nascose il libro sotto il guanciale e le accennò di non avanzare.
— Lasciate che vi faccia un po’ di compagnia, zia Sirena.
— No, no, figliuolina mia; la compagnia ce l’hai. Una donna nel tuo stato non deve stare coi malati. E così pure ricòrdati di non dare in mano a tuo figlio un fiore prima che non abbia compiuto l’anno, perchè è malaugurio.
— Zia Sirena, ci baderete voi, al mio bambino. Ve lo consegnerò appena nato e non lo prenderò se non per dargli il latte. Sarò gelosa di voi, tanto egli vi vorrà bene.
— Non importa, figliolina mia: importa che egli voglia bene alla madre, non alla serva. Va, va.
Ma Vittoria s’era seduta accanto al letto, con le mani coperte d’anelli posate sul ventre maestoso.
— Vattene — ripeteva la vecchia. — Tu non credi al malaugurio, ma fai male. Anche loro non credevano, nè il vecchio nè il ragazzo, e la sorte ha dimostrato che bisogna credere. Al vecchio, la sera prima di ammalarsi, caddero tutte le sacre Immagini dal libro; e svolazzavano come anime erranti. E il ragazzo andò su dal frate, al convento, il giorno prima di morire. Ma io, povera me, faccio male a parlarti di queste cose. Abbi pazienza, palma; l’albero è attaccato alle radici...
— No, — mormorò Vittoria, china la testa, come parlando ai suoi anelli, — ho piacere a sentire parlare di loro.
— Lo so che non sei un’ingrata... Tu sei buona, Vittoria; tu meritavi tutto, più di quello che hai...
— Io ho tutto, zia Sirè: cosa mi manca?
— Tuo marito è troppo giovane, Vittoria; lascialo invecchiare prima di rinfacciargli la sua condotta.
— Che cosa fa, zia Sirè? — ella disse con fierezza. — Nulla di male.
— Tu sei buona, Vittoria, palma mia: tu parli come una santa. Lascialo invecchiare. Non essere come Bakis Zanche. A te lo posso dire, palma mia; egli urlava di giorno e alla notte piangeva come un bambino malato...
— Che dite voi, zia Sirè; se Bakis Zanche campava, avrebbe richiamato la moglie?...
— Questo no... Egli... — cominciò la vecchia, stupita per la domanda di Vittoria; ma non proseguì perchè la gobbina s’era affacciata all’uscio col piccolo viso stravolto e gli occhi lucenti di rabbia. Vittoria la guardò e impallidì.
— È accaduta qualche cosa a Mikali?
— No, anima mia, cosa può succedergli? A un uomo come lui nessuno può far niente... Però vieni, ti prego, ho da dirti qualche cosa.
La sua voce ironica rassicurò Vittoria; ma mentre ella usciva entrò zia Andriana col boccale fumante in mano e disse:
— Mala fata ti guidi, Zizza Paddeu; hai una faccia di malaugurio. Cosa sei venuta a fare?
— Quello che mi pare! E tu in casa tua cosa fai? — rispose la gobbina con voce provocante, volgendosi come in atto di graffiarla: e Andriana giudicò prudente tirare innanzi senz’altro.
Vittoria entrò nella camera della suocera e s’avvicinò alla finestra: il sole era tramontato lasciando sopra il muro del cortile una striscia di cielo verde dorata come acqua; le cornacchie e il falco sonnecchiavano già aggrappati ai rami della legnaia: e a lei parve di sentire, nel gran silenzio che precedeva il crepuscolo, voci e grida lontane; laggiù, nel mondo, la gente si divertiva, anche i più miseri gridavano di gioia; lei sola, in quell’esilio, viveva tra immagini di morte, abbandonata come una colpevole.
— Che c’è di nuovo? — domandò senza voltarsi. — Non venite a contarmi pettegolezzi, adesso!
— Pettegolezzi fossero, — disse la gobbina, abbandonandosi stanca e ansante sulla cassa accanto alla finestra, — ma se vuoi non ti dico nulla, no, tanto tu ami di essere cieca...
Tacque e Vittoria cominciò a tremare; avrebbe voluto non sentire nulla, mandare via l’uccello di malaugurio; ma come la gobba continuava a tacere ella proruppe con dolore:
— Parlate una buona volta! Sì, non m’importa più di nulla, ma parlate!
— Vittoria, senti: perchè non fai nulla per tenere tuo marito a casa? Pare che lo abbiano incantato, e tu non sei buona a sciogliere la malìa. Fagli dunque dire gli Evangeli e gli scongiuri, se non sei buona tu...
— Che ha fatto Mikali? Deve stare sempre fra la cenere del focolare come il gatto?
— Ah, così parli? Ebbene, senti, nipote mia, Mikali oggi è ubbriaco. Cosa nuova, dirai tu! Sì, egli si ubbriaca come un pezzente: perchè fa questo, Vittoria, dimmelo tu, nipote mia? Io non arrivo a capirlo.
E poichè ella, curva su sè stessa, aggomitolata, si batteva la fronte con le dita riunite, Vittoria andò a sedersele accanto e sorrise, tanto quel dispiacere le sembrava esagerato.
— Ma che cosa vi piglia, zia? Volete cambiare il mondo? Mikali è uomo come tutti gli altri.
— Quando era povero non si ubbriacava, non aveva vizi; era buono come l’oro. Perchè adesso che è l’uomo più fortunato degli stazzi è diventato così?
— Perchè non lo domandate a lui?
— Poterlo, nipote mia! Ma egli non si lascia avvicinare e con me è diventato più superbo di un vescovo. Passa davanti a casa nostra e non entra, e se qualche volta viene ed io tento di dirgli due parole egli si alza di scatto e se ne va. Anche tua madre, anima mia, tua madre che non butta le parole al vento, oggi quando il vecchio fattore venne a dirmi, beffandosene: Zizza Paddeu, va e dividi le due femmine che litigano per Mikali bello: ebbene, tua madre osservò: Vittoria ha peccati da piangere, con quello lì...
Vittoria si volse e con la mano diventata dura come un artiglio si aggrappò all’omero della zia:
— Zia, maledetto il peccato mortale, che dite?
I suoi occhi spalancati brillarono feroci, verdognoli, come quelli d’una tigre.
— La verità, nipote mia.
— Contatemi tutto... E non dite una parola falsa, in nome di Dio: a una donna nel mio stato non si deve mentire.
— Sentimi, Vittoria, ti dirò tutto; non credere che lo faccia per gelosia o per malanimo. Sono io che ti ho messo in braccio a Mikali, e senza di me non vi sareste più veduti. Io voglio che egli torni a te; ti dico tutto per scuoterti, anima mia: tu sola puoi fargli sentire la ragione, tu che lo hai raccolto come un mendicante. Egli va da Ciara, la rana dipinta, e questo lo sapevi e lo sopportavi... Ma quello che non sopporterai è che egli va anche da Ignazia, la tentazione nera. Taci, anima mia, non strillare... le grida non fanno nulla...
Vittoria, col viso sulla spalla della donnina, dava dei gridi rauchi, torcendosi come stesse per partorire.
— Oggi, poco fa, egli uscì da casa di Ciara e andò da Ignazia; e questo accade spesso. Ebbene, oggi è avvenuto uno scandalo. Ciara, appena Mikali fu da Ignazia, lo rincorse e le due rivali litigarono per lui, in sua presenza, disputandoselo come un pezzo di pane... Il vecchio fattore ha sentito tutto, ed è venuto da noi a sbeffeggiare. Adesso tu, anima mia, non fare scandalo, taci e quando Mikali ritorna parlagli come una donna pari tua deve parlargli. Egli non è idiota; egli ti darà retta, Vittoria, nipote mia.
Vittoria, sempre abbandonata sulla spalla di lei, pareva si convincesse e si calmasse; e rimaneva immobile e taceva.
— Vittoria, anima mia...
La donnina la scosse e nonostante le sue raccomandazioni di prudenza si mise a sua volta a gridare: Vittoria era svenuta e scivolava pesantemente dalla cassa, cadendo al suolo come morta.
*
Accorsero le donne e la misero sul letto; ma nonostante i suffumigi e i massaggi ella non rinveniva.
— Che le ha raccontato quella disgraziata storta? — si domandava Andriana, cercando con gli occhi la gobbina; ma la gobbina, spinta dalla paura di aver ucciso Vittoria e dall'odio contro Mikali, correva in cerca di lui.
— Vedi cosa hai fatto di noi? Libertino, mantenuto, vedi dove ci conduci con le tue male azioni? — diceva a voce alta, correndo come un folletto nel crepuscolo. Davanti allo stazzo Zoncheddu si fermò di botto. Vedeva frate Zironi, sceso dal monte per andare a confessare Battista, avanzarsi zoppicando, appoggiandosi al bastone: scarno, col viso scavato coperto di peli, aveva però gli occhi brillanti come le prime stelle di quella sera limpida e fredda.
— Corri come un gomitolo, figlia: dove vai? — domandò senza fermarsi.
— Il Signore vi manda incontro, frate mio! Correte allo stazzo; Vittoria sta male. È caduta ed è svenuta. Io corro in cerca di quella croce di Mikali... quel libertino... che non ha cura di sua moglie.
— È caduta? S’è fatta male?
— Pare di no, ma non rinviene.
— Niente, niente, — egli disse con calma. — E addosso a me non è caduto un pezzo della vôlta del refettorio? Sono morto? No. Un po’ di zoppicamento, ma adesso col bel tempo passerà. Va con Dio; appena avrò finito da Battista andrò da Vittoria.
Ella riprese la corsa, ansando, come inseguita; sentiva i suoi palpiti, nel silenzio del crepuscolo, e aveva caldo come sotto il sole d’estate. Lo troverebbe? Dove? Da Ciara o da Ignazia? Era decisa a precipitarsi nelle case delle due miserabili donne come la fiamma di un fulmine, distruggendo ogni cosa. Avrebbe urlato, se trovava là dentro Mikali; avrebbe svergognato l’ostessa davanti a tutti i suoi avventori, avrebbe costretto quel burlone turpe di Pancraziu a frustare sua moglie.
Si fermò a riprendere fiato davanti al paesetto. Tutto intorno il cielo brillava come un cristallo dietro cui si spegnesse un incendio; la luna sorgeva fra due poggi neri, in uno spazio verde come un lago, e le casette sotto il campanile, laggiù in fondo alla strada, parevano sospese nel vuoto; e a lei sembrava di fare un brutto sogno; tutto il mondo era bello, ma un mostro, Mikali, vi gettava sopra la sua ombra. Quando fu nella piazzetta della bettola udì gli uomini là dentro giocare alla morra: in lontananza una fisarmonica riempiva la sera coi suoi gemiti disperati e l’urlo di una maschera ubbriaca accompagnava ad intervalli quel lamento che non cessava mai; ed ella ebbe l’impressione che laggiù, dietro il paesetto, qualcuno morisse.
La tristezza e la paura vinsero la sua rabbia; nella cornice della porta della bettola vedeva come in un quadro fumoso i visi degli ubbriachi, rossi e neri sullo sfondo delle ombre che danzavano sulle pareti; le mani dei giocatori di morra si agitavano scure nel chiarore giallognolo come foglie alla luna, e alcune maschere camuffate con pelli lanose, con musi di animali, davano al luogo un aspetto di caverna.
Sotto la lampada, Ciara s’appoggiava al banco fra i bicchieri scintillanti, con la guancia sul pugno, gli occhi bassi, come addormentata; quando vide la donnina sulla porta trasalì e le corse incontro.
— Mikali non c’è?
— Non è qui, gioiello mio. Perchè lo cerchi? Vittoria...
— Non nominarla, chè bestemmi, femmina mala! — disse la gobbina, guardandola coi suoi occhi che pungevano come spine. — Andrò a cercare Mikali da Ignazia.
E via come il folletto svoltò, fu davanti alla casupola illuminata da un triangolo di luce lunare; anche là si sentiva quel lamento lontano, quell’urlo di agonia, e a lei parve che in quel momento Vittoria morisse. Un passo pesante e incerto risuonò alle sue spalle e Pancraziu, che tornava a casa ubbriaco, la prese per di dietro sotto le ascelle, la sollevò e la fece volteggiare in aria.
— Che cerchi, qui? Andiamo al ballo, tu ed io, poichè mia moglie non vuol venire. Ah, tu credi ch’io sia ubbriaco? Traballava più di me il mio padrone, così Dio mi assista, poco fa, mentre andava allo stazzo Zoncheddu.
Ella si svincolò e corse di nuovo nello stradone. Ma di nuovo arrivata al punto ove una notte Andrea s’era fermato guardando la stella della sera, rallentò il passo per riprendere respiro. Nello stazzo brillava un lume, forse alla finestra di Battista moribonda; un lume rossastro che attirava lo sguardo come un occhio vigile nella notte. Un uomo sdraiato sul paracarri dello stradone, col gomito sulla pietra e la testa sulla mano, fissava gli occhi alla finestra, e non si mosse finchè la gobbina avvicinandosi non gli soffiò sul viso il suo alito ansante.
— Mikali!
Egli balzò a sedere, s’accomodò la berretta che gli cadeva dal capo e guardò la donna senza parlare, vinto a poco a poco da un furore ardente. Lo spiavano dunque? Gli mettevano alle calcagne quel cagnolino ringhioso per sorvegliarlo e tormentarlo anche fuori di casa?
— Mikali, che fai qui?
— Quello che mi pare e piace...
— Mikali, è un’ora che corro affannata per cercarti... Vittoria sta male... Corri, va, testa matta...
Di tutti gli insulti che aveva preparato, non seppe dirgliene altro; ma bastò perchè egli prorompesse: si gettò su lei, la prese per gli omeri e la scosse, cercando di buttarla a terra.
— Pipistrello nero, ti schiaccio! Neanche nella strada mi lasciate in pace? Vittoria sta male? Va e chiama il dottore allora, non chiamare me! Va, mi avete messo sotto i piedi come uno straccio, e adesso mi spiate, gli avoltoi ti ronzino intorno, storta! Va...
— Sei pazzo, Mikà, sei pazzo furioso; sei ubbriaco fracido, non ti vergogni? Buttami pure per terra, ma va da tua moglie... Essa muore per colpa tua... come quella lì davanti! Non ti bastava una... no... due ne volevi far morire...
Mikali sentì come una puntura alle viscere; lasciò la donnina, che gli si risollevò davanti deforme e inesorabile come il rimorso, e s’avviò allo stazzo di sua moglie. Cercava di camminare dritto e rapido, ma ogni tanto barcollava: s’accorgeva di essere ubbriaco e non voleva parerlo; e la gobbina lo seguiva, paurosa ch’egli si pentisse e tornasse indietro, ma pronta a tutto per ricondurlo a casa.
Quando arrivarono, lo stazzo era tranquillo; Vittoria sedeva accanto al fuoco con le mani sul grembo; zia Marianna preparava la cena, il servo dava il grasso a una soga. Mikali sedette davanti a sua moglie esclamando:
— Dicono che ti sentivi male! — e pure rischiarandosi in viso nel vederla tranquilla, sentì il suo rancore aumentare.
Ella evitava di guardarlo; si rivolse però alla gobbina e le rimproverò d’essere andata a cercarlo per una cosa da niente.
— Chi va male è Sirena; bisognerebbe chiamare il dottore. Ha la febbre alta — disse Marianna Zanche, per sviare il discorso.
— E voi la lasciate sola?
— È rimasta Andriana per darle attenzione.
— E in casa mia occorre che vengano gli estranei, per badare alla mia serva? — gridò Mikali inviperito, ma subito provò una strana impressione; gli parve di essere lui l’estraneo, in quella casa che del resto non apparteneva a nessuno dei presenti; e si pentì d’aver detto «la mia» casa, «la mia» serva.
Gli parve che il servo sollevasse gli occhi dalla sua faccenda e lo guardasse con beffa; e la sua irrequietudine crebbe. Se la prese con l’uomo.
— Che fai là a ungere, stupido? Vattene fuori, vattene a ballare. E che, perchè una vecchia di cento anni muore dobbiamo farci frati?
— Ebbene, — disse l’altro bonariamente, — datemi prima da mangiare e poi vado al divertimento...
— Zia Sirena non muore: se fosse grave, Mikali non manderebbe certo i servi al ballo — osservò Marianna Zanche rivolgendosi a Vittoria come per scusare suo figlio.
— Se Dio vuole, e ci fosse qui il fuoco e noi tutte in mezzo, andrebbe lui al ballo — disse Vittoria, senza guardarlo.
Egli arrossì: s’accomodò la berretta, si guardò intorno come cercando con chi sfogare la sua collera; vide la gobbina che rientrava dopo essere stata dalla vecchia malata, e puntò il dito verso di lei, ridendo goffamente.
— La senti tua nipote che parla come te? Ti ha succhiato il veleno dalla gobba, oggi, ultimo giorno di carnevale...
— Io l’ho nella gobba e tu l’hai nella lingua, il veleno... — ella cominciò con gli occhi lucenti nella penombra; ma non proseguì perchè Mikali aveva preso il ferro da soffiare sul fuoco e minacciava di romperle la testa. La madre però lo teneva fermo: egli urlò:
— Vattene, gobba, malanno a te e a tutta la tua stirpe; non mettere più piede in casa mia...
Allora Vittoria si alzò, tremando, e s’afferrò alla spalliera della seggiola; le labbra diventate azzurrognole non riuscivano a pronunziare bene le parole.
— Tu caccerai via la gente dalla tua casa, Mikali! Questa non è casa tua...
— E neppure tua!...
Egli lasciò cadere rumorosamente il ferro sulla pietra del focolare che ne tremò tutta: si liberò dalla stretta della madre e si avviò verso la porta; le gambe gli si piegavano, gli sembrava che qualcuno lo frustasse a sangue fino a farlo cadere, e un rombo gli riempiva le orecchie. Mai in vita sua, neppure quando sua madre era caduta sulla polvere della strada davanti al cavallo di suo padre, aveva provato una simile umiliazione. Bisognava andarsene. Da quel momento non ebbe altra idea.
La madre però lo seguiva; gli si aggrappò al fianco, lo fermò nel cortile, gli parlò sottovoce, supplicando; egli non sentiva le parole di lei, non capiva che una cosa sola; che doveva andarsene.
Anche il servo uscì colla soga in mano e si mise a scherzare.
— Se non ti fermi ti lego con questa, Mikà! Dove vai; al ballo? Non vedi che tentenni?
Così, un po’ scherzando, un po’ supplicando, riuscirono a calmarlo, ed egli rientrò e cenarono come se niente fosse: solo dopo che Vittoria pallida e calma diede alcuni ordini al servo per l’indomani e andò a coricarsi e l’uomo fu uscito, Marianna Zanche sollevò il viso ansioso.
— Ascolta, Mikali; io ti devo dire una cosa. Hai coscienza, Mikali? Se hai coscienza non trattare così tua moglie.
— Siete voi donne che mi tormentate! Perchè la gobba mi segue e mi spia? Sono un uomo da essere spiato, io? Sono stanco e voglio andarmene.
— Bada, Mikali! Tu non ami tua moglie.
— Nessun uomo al mondo ama e rispetta sua moglie come io Vittoria. Ma io voglio andarmene da questa casa perchè voglio essere anche io rispettato. Madre, questa casa non è nostra.
— Nulla c’è di nostro, nel mondo, Mikali! Siamo estranei dovunque, siamo di passaggio, e dovremo andarcene. Vedi Sirena? Vedi Battista Zoncheddu? Esse se ne vanno senza far rumore nè scandalo. Arriverà anche il nostro turno: ma che almeno il carico da portare via non sia troppo grave.
Egli non rispose. Curvo davanti al fuoco, gli sembrava di avere già sopra le spalle il carico di cui parlava sua madre; e mentre ella continuava il suo sermone, egli senza più darle retta pensava ai casi suoi; o per dire il vero cercava di concentrarsi, di richiamare alla memoria una cosa dimenticata; impressione che da qualche tempo lo opprimeva spesso, anche nei momenti di ebbrezza e di piacere. Ma non gli riusciva di ricordarsi, e aveva sempre l’idea di dover fare qualche faccenda urgente indispensabile per il buon esito dei suoi affari e di lasciarsi sfuggire inutilmente il tempo.
Nulla, nè il vino, nè le donne, nè il pensiero che a giorni sarebbe stato padre, gli rendevano l’antica spensieratezza; e gli pareva d’invecchiare, e passava le giornate in ozio trascurando gli affari di sua moglie; a volte si preoccupava per lo stato di lei, e diceva a sè stesso che, nato il figlio, tutto avrebbe ripreso l’andazzo di prima; ma alla notte tardava a rientrare e s’aggirava ubbriaco intorno allo stazzo Zoncheddu, guardando la finestra illuminata di Battista senza osare di chiedere notizie.
Non poteva avanzare dalla siepe, come se un fosso d’acqua morta senza ponte circondasse la casa. L’agonia lenta della fanciulla lo impressionava più che la morte violenta di Andrea. Gli pareva che egli fosse destinato a cagionare solo del male: tutti quelli che s’incontravano con lui dovevano perire: anche Vittoria fra poco morrebbe; anche lui doveva fra poco morire... Seduto sul paracarri dello stradone, intenerito dal vino, piangeva come un bimbo abbandonato pensando che tutto passa, tutto è inganno, tutto è inutile. Perchè dunque essere così attaccati alle cose del mondo? Poi d’improvviso si scuoteva, ricordando con sdegno i torti che credeva di subire da sua moglie, e l’idea di andarsene in America lo confortava: allora si alzava avvicinandosi di nuovo verso lo stazzo Zoncheddu, pensando di pregare Battista a volergli restituire il vestito di frustagno che ella conservava nella sua casa come la spoglia di un morto.
Ma oltre la siepe non osava avanzare.
Note
- ↑ Sotto la finestra del moribondo veniva legata una giovenca destinata al banchetto funebre.