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nella penombra; ma non proseguì perchè Mikali aveva preso il ferro da soffiare sul fuoco e minacciava di romperle la testa. La madre però lo teneva fermo: egli urlò:

— Vattene, gobba, malanno a te e a tutta la tua stirpe; non mettere più piede in casa mia...

Allora Vittoria si alzò, tremando, e s’afferrò alla spalliera della seggiola; le labbra diventate azzurrognole non riuscivano a pronunziare bene le parole.

— Tu caccerai via la gente dalla tua casa, Mikali! Questa non è casa tua...

— E neppure tua!...

Egli lasciò cadere rumorosamente il ferro sulla pietra del focolare che ne tremò tutta: si liberò dalla stretta della madre e si avviò verso la porta; le gambe gli si piegavano, gli sembrava che qualcuno lo frustasse a sangue fino a farlo cadere, e un rombo gli riempiva le orecchie. Mai in vita sua, neppure quando sua madre era caduta sulla polvere della strada davanti al cavallo di suo padre, aveva provato una simile umiliazione. Bisognava andarsene. Da quel momento non ebbe altra idea.

La madre però lo seguiva; gli si aggrappò al fianco, lo fermò nel cortile, gli parlò sottovoce, supplicando; egli non sentiva le parole di lei, non capiva che una cosa sola; che doveva andarsene.

Anche il servo uscì colla soga in mano e si mise a scherzare.

— Se non ti fermi ti lego con questa, Mikà! Dove vai; al ballo? Non vedi che tentenni?