Le colpe altrui/Parte II/Capitolo VII
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VII.
Tornando allo stazzo, l’indomani mattina, incontrarono il vecchio fattore che raccontò di essere stato al paese per testimoniare in difesa di un povero mandriano al quale ignoti malfattori avevano rubato il gregge e adesso veniva accusato di favoreggiamento.
— L’ho veduto io, a raggiungere qualche pecora sbandata qui sotto. Non potevo negargli la mia testimonianza. È un povero — disse rivolgendosi a Vittoria.
Mikali però sogghignava: si curvò sulla sella e urlò:
— Va bene; andatevene pure in giro, andate pure alla forca! Ma non rimettete piede nel predio.
— Oh, oh, giovane! Sei feroce come Nerone. Che ne dice la padrona?
— Il padrone sono io e ve lo farò toccare con le mani.
E spronò il cavallo, mentre Vittoria e il vecchio si scambiavano uno sguardo desolato. Che poteva ella fare? Il cuore le consigliava la pietà; d’altronde riconosceva che Mikali aveva ragione e anche Dio comanda che si custodisca la propria roba.
Al prediu fu dunque mandato Pancraziu, che da lungo tempo aspirava con tutta l’anima ad averne la mezzadria per potersi sposare con Ignazia, e quindi si mostrò prudente e paziente contro tutte le provocazioni del vecchio fattore. Questi però non si decideva ad andarsene: sdraiato davanti alla capanna guardava con disperazione selvaggia la terra che lo aveva veduto invecchiare, e ogni volta che il servo gli passava accanto lo fermava coi suoi lamenti.
— Ascoltami, servo. Il bastardo mi costringerà ad andarmene, lui che s’è installato nella casa dove non doveva mai mettere piede: ma io non sono un’anima del purgatorio, come Bakis Zanche; io ho ancora la pelle attaccata alle ossa; e vedrai cosa farò, che i corvi mi divorino la lingua, se mentisco!
— Cosa farete voi! State quieto: vi daranno molti scudi sonanti e potrete anche prendere moglie.
— Vedrai, vedrai, mala pelle!
— Pazienza, — diceva Pancraziu, mentre grosse goccie di sudore gli cadevano dal viso fino a terra. — Malanno ai poveri! E che vi eravate immaginato di essere l’erede, voi? Noi siamo i servi, di passaggio nel mondo come in questo predio...
In fondo non gli dispiaceva di sentire il vecchio a gridare vituperi contro Mikali: chi poteva non nutrire rancore contro l’uomo fortunato?
E in settembre il vecchio andò via. Mikali e Vittoria questionavano spesso per questa che a lei sembrava una iniquità: ogni notte sognava Bakis Zanche che le raccomandava giustizia, e aveva paura anche perchè l’ex-fattore la minacciava di una lite o di incendiare il prediu.
Quando frate Zironi cercò nuovamente di interporsi, Mikali lo cacciò via con male parole.
— Che ne sapete voi d’affari? Voi avete le vostre terre nella bisaccia e il naso per aratro. Andate alla forca.
Era nervoso, Mikali, in quei mesi d’estate. L’eccesso di felicità gli causava una specie di pletora; mangiava bene e beveva meglio, aveva una moglie innamorata, vedeva sua madre, nel suo cantuccio, silenziosa e aggomitolata come un riccio ma anche rispettata da tutti e lasciata al suo posto come un oggetto prezioso per quanto inutile; tutte le cose andavano bene, insomma, ed egli, costretto ad una vita inattiva e beata, sentiva il sangue traboccargli dalle vene.
Lo stesso girovagare a cavallo di qua e di là per i possedimenti della moglie gli dava un’eccitazione nervosa; in certe mattine azzurre e calde della brughiera sentiva con impeto irrefrenabile la sua antica passione di domatore di puledri; ma doveva contentarsi di spronare a sangue il suo cavallo domato per farlo correre attraverso la tanca deserta: poi cadeva in lunghi sopori come un adolescente; si draiava all’ombra d’una muriccia o di una macchia e pensava con rancore al suo mancato viaggio, ai denari che avrebbe guadagnato laggiù, alla roba sua propria che avrebbe posseduto al ritorno. Così si stava bene, sì, ma come il cavallo favorito al quale si dà da mangiare e si tratta con cura, per poterlo all’occasione meglio spronare e far trottare: era ricco, sì, ma di roba che chiunque poteva rinfacciargli come non sua: era sempre un rinnegato, uno senza padre, senza nome: e vedeva negli occhi di tutti uno sguardo d’invidia ma anche di derisione. Un sordo rancore contro sua madre cominciava a pungerlo.
Nei lunghi pomeriggi sedeva a gambe aperte nella cucina ove le donne lavoravano, e sputava e sbadigliava o trovava da ridire su tante piccole cose. Altre volte tornava tardi, la notte, dopo aver giocato e bevuto alla bettola del paese; altre volte si divertiva con le cornacchie come un bambino, punzecchiandole e ridendo; e dopo aver questionato con Vittoria, — poichè la madre non rispondeva mai alle sue provocazioni, — andava a sedersi in fondo all’orto e rimaneva ore e ore immobile, cupo, triste, finchè lei non si avvicinava a placarlo.
Un giorno, in luglio, ella gli disse che era gravida. Per un poco la notizia lo rallegrò; già gli sembrava che la gente cominciasse a ridersi di lui che non era buono neanche a fare un figlio: si raddrizzò sulla schiena, sporse il petto, gonfiò le belle guancie rase che ingrassavano di giorno in giorno.
— Un uomo come me non poteva farne a meno! Maschio, ah, Vittoria, se no mi arrabbio! Lo chiameremo Bakis.
Ella, dolce e pensierosa, col viso bruno un po’ invecchiato chino sul petto, contava sulle dita brune coperte di anelli: d’un tratto trasalì e, senza alzare il viso, sollevò gli occhi che avevano il colore del mare, come si vedeva dal prediu: verdi e dorati.
— Sai, Mikà, è stato proprio quella notte... San Costantino mio, come sarà bello! Io vorrei...
— Cosa?
Ma non osò dire che avrebbe voluto chiamarlo Andrea.
*
Mikali, da quella notte in poi, andò a dormire in un’altra camera, poichè per il sardo la donna gravida è sacra: così alla notte poteva tornare all’ora che voleva, e nella bettola si vantava di aver generato un figlio come se avesse creato il mondo.
— Del resto non è il primo, Mikà!
— Io non so nulla degli altri, così Dio mi assista; che ne so io? Questo solo è mio perchè è di Vittoria mia moglie.
Diceva «Vittoria mia moglie» come un re dice «sua maestà la Regina». E in vero nel chiaroscuro della bettola, tra i volti arsi dei lavoratori e i visi scarni degli altri piccoli proprietari sfaccendati, il suo viso raso e pieno, dal profilo possente, spiccava come quello di un imperatore annojato sceso a divertirsi nella taverna. Le sue mani erano bianche, il suo collo grasso si ripiegava un po’ sul colletto ricamato e allacciato con bottoni d’oro.
La piccola ostessa magra non cessava di fissarlo coi grandi occhi neri nel viso verdastro, sorridendogli e mostrandogli i denti bianchi fra le lunghe labbra rosse: e una notte lo pregò di leggerle una lettera che il marito, emigrato, le scriveva dall’America, e di farle la risposta. Così a poco a poco gli avventori se ne andarono ed ella chiuse la porta e rimase sola con lui.
Un’altra sera, mentre egli passava nello stradone, Maria Luisa Zoncheddu lo chiamò per chiedergli con curiosità notizie di Vittoria.
— Sta bene come un pesce, Vittoria mia moglie; solo è un poco giallognola e rigetta quello che mangia; ma è cosa del suo stato. Se va d’accordo con mia madre? Tutto bene, tutti in pace e d’accordo come in un piccolo convento. E voi come state?
— Così, così! C’è Battista che soffre, con questi calori, e non vuol mangiare. Senti come tossisce. Non entri?
Egli entrò, salutando le donne e i bambini che stavano al fresco, nel cortile; al posto di sua madre sullo scalino della porta vide Ignazia, e di Battista, sdraiata sopra il carro, lo colpì la tosse ostinata.
Ella non s’era mossa nel sentire la voce di lui; non sollevò neppure gli occhi; tanto era buio e non lo avrebbe veduto; e ci fosse stato il sole l’oscurità per lei non cessava: ma la sua tosse diventò più forte, così forte che a Mikali parve un lamento, una protesta tormentosa che non aveva nulla di umano e pure esprimeva tutta la miseria e tutto il dolore del mondo.
— Siedi, Mikà. O vuoi crescere ancora come il gigante Golia?
I ragazzi risero, ma egli rifiutò la sedia che la donna gli porgeva e sedette sull’estremità inferiore del carro, ai piedi di Battista.
— Leva quella sedia — disse con voce allegra; — e che sono diventato un signorotto di pasta frolla, da non potermi sedere dove capita?
Battista non si mosse, solo si morsicò la mano nel tossire lasciandovi impresso un fiore di sangue.
— Se non lo sei tu, un signore, e chi lo è? Pancraziu dice che hai preso mille scudi dal solo sughero, — disse Maria Luisa.
— Pancraziu è un burlone; adesso poi che deve sposarsi è più burlone ancora. Come va che tu, invece, non hai cambiato umore, Ignazia?
— Io non ti somiglio per cambiare umore col cambiare di fortuna. Bevi.
Egli prese il bicchiere che la serva gli porgeva, ma prima di bere esitò; non osava dire «salute» ai piedi di Battista buttata lì come su un carro funebre; infine trangugiò in silenzio il vino e ne versò il fondo per terra: e cominciò a scherzare con le donne, mentre dentro soffriva, e avrebbe voluto andarsene e non ripassare mai più davanti allo stazzo Zoncheddu. Eppure nelle sere seguenti tornò, indugiandosi sempre più a lungo; e Battista era là, distesa silenziosa, con la sua tosse che pareva la voce del suo petto spezzato; nelle notti di luna il viso di lei appariva di scorcio, più bianco della luna stessa, ed egli spesso s’irritava per quella tosse ostinata che lo perseguitava, che gli risuonava dentro come un’eco, anche dopo che se ne andava, anche quando stava con Vittoria o vagava per le sue terre. A volte però lo assaliva il desiderio di prendere i piccoli piedi di Battista e baciarli domandandole perdono. Poi fuggiva, giurava di non tornare più, e l’indomani era di nuovo lì, attirato da un fascino irresistibile di giorno in giorno più angoscioso.
Una notte, mentre le donne chiacchieravano fra loro, s’accostò all’estremità del carro sulla cui asse Battista posava il braccio e la testa, e tentò di scherzare con lei.
— Battista! Ma hai perduto proprio la lingua?
Ella sollevò gli occhi senza rispondere. Quegli occhi! Grandi, luminosi alla luna, avevano le pupille come naufragate nelle lagrime; e si dilatavano e si restringevano, le pupille perdute, come tentando di nuotare, di salvarsi, e ricadendo sempre più giù nell’abisso della morte. Mikali si sbiancò; non seppe perchè gli parve d’essere ancora lassù buttato accanto alla macchia ove Andrea dormiva in mezzo al suo sangue.
— Battista, — mormorò chinandosi, — Battista, parla, dimmi qualche cosa...
Ella rispose con voce afona:
— A che serve parlare?
E chinò le palpebre livide, non lo guardò più, non parlò più. Ed egli sentiva già esalare dai capelli di lei, dalla bocca di lei, l’odore del sepolcro. Tornò a sedersi in fondo al carro e non scherzò più.
*
Così le sere passavano, cariche di stelle e di dolore umano.
Era agli ultimi di agosto e l’aria un poco umida odorava già di stoppie, le stelle filanti rigavano come lagrime il cielo: Battista a volte sollevava ancora gli occhi per guardare l’Orsa e indovinare l’ora e la stagione; e sentiva la voce di Mikali anche se egli taceva; era lì ai suoi piedi, Mikali, ed era tanto lontano; ed ella pensava a Vittoria che doveva aspettarlo, sola nella sua casa, ma nè l’uno nè l’altra le destavano più passione. Solo una tristezza infinita, come non l’aveva conosciuta neppure al tempo delle nozze di quei due, le dava un ardore al petto, una sete inestinguibile. E sentiva il cavo delle sue mani umido e le pareva fosse pieno d’acqua; ma non poteva, non poteva bere. Erano le sue lagrime e il suo sangue.
*
La gobbina non tardò a sapere che Mikali passava le sere nello stazzo Zoncheddu, e andò a riferirlo a Vittoria: ma di chi poteva essere gelosa Vittoria? Non di Ignazia, fidanzata, e tanto meno di Battista che era come una foglia destinata a cadere in autunno. Eppure una pena sottile la pungeva, in quelle notti d’agosto piangenti di stelle: non poteva dormire, si alzava, apriva la finestra e guardava l’Orsa per indovinare l’ora, aspettando invano il ritorno di suo marito.
— Sono troppo buona, — pensava, — gli lascio fare tutto quello che vuole e lui ne abusa. Dov’è, adesso? Non viene più nel mio letto quasi io sia un’appestata, e va da quella tisica... a respirare l’aria cattiva... Prenderà il male anche lui. Sì... è pallido, è turbato, sembra malato anche lui...
E sentiva una tristezza infinita; e qualche cosa le mancava, qualche cosa la riempiva, più grave e misteriosa della creatura che portava in seno: provava anche lei un ardore al petto, una sete inestinguibile; e le pareva di trovarsi davanti a una fontana e di prendere l’acqua nel cavo delle sue mani; ma l’acqua le sfuggiva fra le dita, ed ella non poteva, non poteva bere.
*
Così le sere passavano. In settembre il vecchio fattore di Santa Maria dovette andarsene, rifiutando sdegnosamente la proposta di rimanere come servo nello stazzo.
Non era mai stato servo, lui, ed era al suo predio che teneva, non al magro profitto che ne ricavava.
Coi cinquanta scudi d’indennità che gli diede Mikali comprò una catapecchia nel villaggio e una certa quantità di calce viva per pescare le trote nel rio Tancadu verso il mare, e con la scusa di andare a pescare le trote passava lungo la muriccia di cinta del predio e guardava là dentro come Adamo doveva guardare il paradiso terrestre dopo esserne stato scacciato.
A dire il vero, il luogo non aveva più quell’aria di abbandono che invitava i passanti ad entrare ed a cogliere i frutti come in una terra senza guardiano; era ringiovanito, il prediu, come i nuovi padroni, con la muriccia riattata e assiepata, gli alberi pettinati lucenti: i latrati feroci del cane rosso echeggiavano nella solitudine. Il vecchio recitava i berbos, parole magiche per far tacere il cane, e pareva un mago, fermo sul suo alto bastone, con la sacca, la lunga barba, le reliquie sul petto; ma la bestia continuava a urlare e Pancraziu appariva qua e là tra il verde, nero e beffardo come un piccolo diavolo.
— Non entrate? Venite, venite avanti, zio Baì.
All’invito, il vecchio rispondeva facendo le fiche.
— Il fuoco entri e distrugga te e la roba del tuo padrone.
E s’allontanava, curvo sotto il peso del suo dolore geloso. Gli sembrava che il suo predio, come l’amante che lascia l’amico vecchio per darsi a uno giovane, si abbellisse e ringiovanisse dimenticando il passato; e un giorno, in ottobre, Antonio Ruju, il melograno, gli sbattè addosso, dall’alto del rialzo sopra la muriccia, una folata di foglioline gialle fitte come le goccie d’una nuvola che passa, quasi per irriderlo e farlo fuggire.
Allora cominciò a odiare anche i suoi alberi come parenti e amici che lo tradissero. Propositi di vendetta gli avvelenarono l’anima come egli avvelenava l’acqua del fiumicello con la calce viva per stordire le trote. Dapprima pensò di uccidere il cane i cui urli lo accompagnavano fino al rio ed echeggiavano lungo la spiaggia come i boati di un mostro marino. Ma la cosa era difficile: ecco, curvo sull’acqua stagnante sul greto bianco, mentre le trote salgono su lente circondate dalla loro ombra guizzante, egli prepara il giunco per infilarle e pensa al modo di uccidere il cane. Avvelenarlo? Ma per avvelenarlo bisogna eludere l’attenzione del servo. All’inferno il cane e il servo! E l’immagine dell’inferno gli desta l’idea d’un incendio nel prediu; è facile incendiare il predio; ma il fuoco salta, va dove gli pare e piace, anche dove c’è gente che non ha fatto nulla di male al prossimo. Egli soffre per un atto di ingiustizia: come può essere ingiusto con gli altri?
Allora decise di tagliare gli alberi e affilò l’accetta con una selce.
Ed ecco una sera, tornando col cestino colmo di trote infilzate ancora vive nel giunco, fu sorpreso del silenzio che regnava nel predio. Il cane era morto? Sì, a volte l’effetto delle parole magiche è tale che fa morire le bestie: il Signore, quando vuole, può tutto. E cominciò a fare il giro intorno alla muriccia del podere, tastando le pietre, fermandosi ogni tanto ad ascoltare. Silenzio, silenzio. La luna d’ottobre chiara come una grande moneta d’oro illuminava la brughiera e il mare laggiù; gli alberi, neri da una parte, argentei dall’altra, si raccoglievano intorno alla muriccia con le cime unite e i tronchi e i rami simili a gambe e braccia; e parevano pronti a cominciare una danza notturna. Ma ancora tutto taceva e il motivo del ballo si faceva aspettare. Il vecchio fattore credeva di essere ubriaco e di vaneggiare; tornò verso il cancello, lo spinse, lo trovò aperto. Qualcuno certo, più potente di lui, più ben visto dal Signore, aveva addormentato il cane e il servo con le parole magiche: sì, era così; ma a quale scopo? La vigna era vendemmiata, frutta non ce n’erano più, le olive erano ancora dure come ghiande.
S’inoltrò sotto gli alberi, dai quali cadevano silenziose foglie gialle che parevano piovere dalla luna; qua e là nell’ombra si ergevano forme misteriose: bisce dritte con la coda d’argento, tartarughe enormi, gatti addormentati. Il luogo sembrava tutto incantato ed egli si turbava sempre più appunto per effetto dell’incantesimo. Ecco, era l’anima di Bakis Zanche, che dal mondo della giustizia compiva l’opera misteriosa: il cane e il servo erano spariti e lui, il fattore, riprendeva possesso del suo predio. E su e su arrivò fino alla capanna; la porta era aperta, il giaciglio di erba secca lo aspettava; ed egli non aveva che ad accendere il fuoco e arrostire le trote per festeggiare la sua ripresa di possesso e ricominciare l’antica vita.
Sedette sul muricciuolo, trasse dalla bisaccia l’accetta e cominciò a palparla; alla luna chiara la lama mandava scintille come un grande acciarino.
Ma d’improvviso, senza che il vento sorgesse, un gran fremito passò nella notte e gli alberi cominciarono la loro danza; la loro voce nota parlava al cuore del vecchio e le foglie che adesso cadevano fitte gli sembravano lagrime. Sì, ballavano e cantavano piangendo, i vecchi alberi giganteschi, ed egli ricordava Bakis Zanche, il padrone morto, che si metteva là sotto la tettoia in faccia al mare, e cantava, pure avendo un grande affanno nel cuore. E adesso la sua anima era là, di ritorno, e si aggirava nel luogo e scuoteva gli alberi e gemeva nella notte.
Il vecchio fattore non aveva paura; a un tratto però balzò ascoltando, rimise l’accetta e se ne andò piano piano, fedele ancora al suo antico padrone; e badava a non calpestare neppure le foglie secche per non offenderne l’anima di ritorno.
*
Per via ecco Pancraziu: il cane che egli si tirava addietro legato a una grossa fune cominciò ad abbaiare furiosamente appena vide il vecchio; ma il servo disse col suo fare ironico:
— Non fatene caso, chè abbaja anche contro i suoi padroni. Io ero tornato in paese per fare le pubblicazioni di matrimonio con Ignazia la mia fidanzata, ed il cane mi è scappato dal podere e mi ha raggiunto. E così, vecchio, perchè stanotte che potevate farlo non avete dato fuoco al predio?
— Alla forca, tu, il cane e il tuo padrone, — disse il vecchio, e tirò dritto, lontano dal cane.