Le colpe altrui/Parte I/Capitolo IV
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IV.
Andrea la prese per il braccio e la condusse nell’orto. Sedettero all’ombra di un susino fiorito, su un asse accanto ai vasi di sughero di un piccolo alveare: intorno a loro le farfalle e le api si incrociavano posandosi le une sui fiori dei piselli a cui rassomigliavano, le altre sui cespugli di melissa al di là del muricciuolo dell’orto, nella brughiera: e l’aria ferma piena di profumi aveva una dolcezza sonnolenta di oblio e di voluttà. Andrea cinse le spalle di Vittoria attirandola con violenza al suo petto, e sebbene la sentisse resistergli e sfuggirlo la baciò sulla bocca.
Ma gli occhi di lei si riempirono d’angoscia e le sue lagrime calde e amare bagnarono le labbra di Andrea.
— Ecco, ella pensava, adesso non posso più dirgli nulla.
— Perchè piangi? — egli chiese stravolto.
— Non lo so, Andrea! Perchè tuo padre è malato... e non dovremmo baciarci...
Egli parve convinto: le prese la mano e fissò senza vederlo un anellino d’argento ch’ella a sua volta guardava con inquietudine.
— Ascoltami, Vittoria. Ti ho fatto venire perchè voglio parlarti. Fin da ragazzetto il mio posto favorito era questo. Mi sdraiavo su quest’asse e rimanevo ore e ore e nessuno veniva a cercarmi. Chi doveva cercarmi? Sono vissuto solo. Sentivo il ronzìo delle api e mi sembrava che cantassero fra loro, in numerosa famiglia: guardavo i fiori del succiamele ove esse si posavano bevendo come da piccoli vasi fino a ubbriacarsi, e mi ricordo che una volta presi una fronda e cominciai a sbatterla pazzamente qua e là sui cespugli per cacciarle via. Mi facevano invidia, ecco! Tu capisci questo, Vittoria; tu lo capisci...
Vittoria non parlò. Il petto le si gonfiava per l’ansia e le sue lagrime cadevano sulla testa di Andrea che le si era curvato sul grembo e le baciava la mano quasi succhiandola come le api i fiori.
Come, come rivelargli il segreto?
— Ma fino da quel tempo ti volevo bene. Vittoria! Rammenti quando c’incontrammo nello stazzo Zoncheddu? Io ero malizioso fin da quel tempo, perchè mi lasciavano solo coi servi e da loro apprendevo tutto: e ti vedevo bella ed esile come un giglio e desideravo baciarti; ma avevo vergogna, sì, vergogna di te, vergogna di me che sapevo già tutte le cose che tu non sapevi. E pensavo sempre: quando Vittoria capirà tutta la sciagura della mia famiglia, e saprà che mio padre è un assassino e mia madre una donna colpevole, che dirà Vittoria? Questo pensavo. Tu le capisci queste cose, Vittoria, tu le capisci?
Sollevò gli occhi supplichevoli, ma li riabbassò tosto irritato, dandole un piccolo colpo sulle mani.
— Ma perchè piangi? Smettila. Tu hai pietà di me ed io non voglio. O il tuo amore o nulla.
Ella non rispose.
— Adesso io lo so, Vittoria, perchè sei triste. Tutto in questa casa ti parla di morte e di disordine. Tu sei tanto cristiana, in fondo: tua madre ti ha allevato nell’ordine e nell’amore delle leggi di Dio. Tua madre è stata virtuosa perchè è stata felice, e non mi ama perchè crede, e non ha torto, che io sia composto solo della carne e del sangue peccaminoso di mia madre. Io dico queste cose a te perchè le capisci, perchè sei intelligente; e te le dico perchè tu le capisca meglio ancora. Sì, io sono della carne e del sangue di mia madre: sono portato al disordine, all’eccesso: se non avessi trovato te mi sarei dato al giuoco, al vino, forse al delitto, come tanti altri. Ma tu sei stata la mia disciplina: io filo dritto per amore di te, per essere degno di te. E tu pure devi essere degna di me. Mi capisci, Vittoria? Ma perchè piangi? Basta!
Ella si asciugò gli occhi con la manica e scosse la testa per scacciarne i pensieri malvagi; sì, in quel momento Andrea le ridestava amore; amore fatto di pietà e di angoscia; e proponendosi ancora una volta di sacrificarsi per lui, di non tradirlo, di dividere con lui una vita di dolore, ne provava una gioia di martirio.
— E adesso devo dirti una cosa, Vittoria. La vita militare mi ha fatto bene, mi ha insegnato a obbedire alla legge che è superiore a noi; e così penso che dobbiamo obbedire a una legge ancora superiore, a costo di tutto, passando sopra tutto. Questa legge è il dovere. E il mio dovere, adesso, lo capisco bene: è quello di rimettere in ordine la mia vita e la mia famiglia. Così ci sposeremo, se tu vorrai, e vivremo qui, in pace, coi figli che avremo. Ma prima, devo far tornare a casa mia madre e obbligare mio padre a perdonarle. Tu, lo so, sei contenta di questo.
Contenta? Vittoria lo guardò così spaventata che egli si mise a ridere.
— Perchè mi guardi così? È la prima volta che lo dico? No, non è la prima nè la seconda volta — proseguì come rispondendo a sè stesso. — Ma è forse la prima volta che lo dico col fermo proponimento di eseguire la mia volontà. Mio padre si piegherà, vedrai, si piegherà — ripetè cogliendo un filo d’erba e spezzandolo con lieve moto di sdegno. — Lo farò piegare io. Dopo tutto cos’è lui? Un bambino gigantesco e crudele che ha fatto sempre il piacer suo. Bisogna che una volta obbedisca anche lui. Io non ripartirò, adesso, senza aver definita questa orribile cosa. Mia madre non deve più far la serva; basta, con la sua penitenza umiliante per tutti. A costo della mia vita stessa voglio ch’ella ritorni qui. Tu... non dirmi nulla...
Vittoria non pensava a discutere: le tremavano le gambe, aveva paura di svenire. Ma Andrea non badava al turbamento di lei, contento di farle conoscere che finalmente la sua forza di volontà s’era sviluppata, che tutto doveva piegarsi fra le sue mani come i fili d’erba che strappava di sotto all’asse spezzandoli e buttandoli via.
— Tu, adesso, te ne andrai, sì, non ti trattengo, per quanto lo desideri. La tua presenza mi eccita, e turba anche mio padre. Bisogna che egli si calmi e che sia calmo anch’io. Vedrai che si piegherà, vedrai.
— E zia Sirena? — domandò Vittoria sottovoce.
— Che c’entra zia Sirena? È una serva e deve tacere. La vera padrona, qui, sarai, sei già tu: questo anche lo capisci, vero? Anche mia madre ti obbedirà. «Sei il giglio della valle, e come il giglio s’innalza sulle siepi di spine così tu t’innalzi su tutte le donne, o mia diletta!» Ma perchè stai così? Adesso non ti bacio, vedi. Vedi come so vincermi? Sii forte anche tu, su! — disse gettandole un pugno d’erba sul collo come per scuoterla dallo stordimento in cui pareva immersa.
Ma ella aveva un’altra domanda da fargli. Nascose la mano per non vedere più l’anellino d’argento e domandò con un soffio:
— E Mikali?
— Mikali? Ah, lui certo non verrà qui! Questo non lo pretendo. Seguirà la sua via; adesso basta a sè stesso.
— Ma tua madre non vorrà separarsene.
— Mia madre mi obbedirà; non pensare a questo.
Ella si alzò ed Andrea la cinse di nuovo, guardandola di sotto in su con occhi supplichevoli. Tremava di desiderio e l’ombra fiorita del susino che li copriva, e l’aria a cui il profumo della melissa dava un sapore di miele, lo stordivano sino a fargli dimenticare di nuovo il suo tormento; ma Vittoria, senza sfuggirlo, lo guardava dall’alto vigile e severa.
— Lasciami, Andrea; non è ora di fare così. Vedi Ignazia che ci spia? Dirà che noi ci divertiamo mentre tuo padre sta male.
— Io non mi diverto, Vittoria. Vedi come soffro?
— Lasciami allora, Andrea. Ecco mia zia che viene da noi.
La gobbina infatti attraversava l’orto, e disse loro che il frate voleva salutarli prima di partire.
— Ed è ora di avviarci anche noi, Vittoria.
Andrea non si oppose e tutti assieme tornarono nella camera del malato, ove il fraticello tentava di scherzare congedandosi turbato.
— Ho nella sacca tutti i vostri peccati, compare Bakis. Erano quelli che vi davano peso, che vi davano la febbre; ora state più bene di me che devo portarmeli addosso.
Bakis Zanche guardava Vittoria e non badava ad altro: le prese le mani, l’attirò a sè come desideroso d’essere baciato da lei. Ed ella chinò il viso fino a sentire il calore umido del collo di lui, ma non potè baciarlo. Non poteva, non poteva. Il terreno le scottava sotto i piedi; sentiva di nuovo l’inutilità dei suoi propositi, e nell’andarsene si volse più volte e si guardò attorno pallida e turbata come uno che va via da un luogo amato con la certezza di non ritornarvi mai più.
Quando furono nello stradone, l’aria libera e l’orizzonte della brughiera la richiamarono completamente dal suo sogno di sacrificio; il folle desiderio di gettarsi sulla polvere in mezzo alla strada e confessare la sua colpa le piegò le ginocchia; ma Andrea l’accompagnava, sicuro di sè, sicuro di lei, e di nuovo ella sentiva un’insuperabile difficoltà a tagliare di netto la loro sorte.
Passata la vigna si salutarono, ed egli promise di andare in casa di lei la sera sul tardi; s’udiva ancora il cane abbaiare destando l’eco della brughiera e il frate e le donne si allontanarono accompagnati da quel grido di malaugurio. Ma già lungo il torrentello tutto era pace; il sole cadeva rosso sopra i monti violetti, le ombre oblique delle macchie solcavano la strada rosea di tramonto, il frate pregava, con la sacca piena infilata al braccio, le mani entro le maniche, pencolandosi un poco a destra come attirato dal peso della sua raccolta; e Vittoria rimasta indietro con la gobbina le disse sottovoce:
— Zia, voi fermatevi un poco a distanza: io raggiungo frate Zironi perchè devo confidargli una cosa.
Lo raggiunse infatti e gli domandò con voce che voleva essere lieta ed era triste:
— Ci si può confessare nella strada?
— Dio è dapertutto, figlia.
— Allora sentite — ella disse, attaccando un dito come un uncino all’orlo della sacca di lui: — un po’ vi ho raccontato ieri; adesso voglio dirvi tutta la verità. Io non voglio sposare Andrea. È impossibile. Volevo, ero decisa a dirglielo io stessa, oggi, ma è stato impossibile. Mi fa tanta pietà: quando mi parla mi pare che posso ancora volergli bene, che posso mantenere la promessa... Ma non è bene, questo, no, no. Io non voglio. Lui e zio Bakis mi fanno tanta pena: come respingerli quando si afferrano a me dicendomi: «Tu sei la padrona, qui, tu sei la nostra speranza»? Come, come respingerli? Mi si spezza il cuore, frate mio; ma io... voi capite ogni cosa, voi dovete aiutarmi. Voi mi farete questo piacere: direte ad Andrea che io voglio rompere la promessa di matrimonio.
Il fraticello si fermò a guardarla; poi riprese a camminare rapido.
— Bella roba! proprio io! Perchè?
— Così! M’è venuta quest’idea!
— Brutta idea, angiolo mio! Andrea non ha stima di me: non mi tratta male, ma... insomma, bella, qui ci vorrebbe un’altra persona.
— Chi? Indicatemela voi!
— Ma poi sarà un tuo capriccio! Che ti viene in mente? Avete litigato?
— No, no! È altra cosa!
Senza più fermarsi, benchè gli sembrasse di trascinare un grande peso, egli volse il viso e tornò a guardarla: vide la fronte di lei rossa come il cielo là in fondo ove tramontava il sole, gli occhi di lei pieni di lagrime, scintillanti come il mare laggiù, e intese.
— Chi è? — domandò. — È più bravo di Andrea? Tu sei giovane, sei allegra, Vittoria, ma sei anche savia: pensa bene...
— Appunto! Ho pensato e ripensato. Andrea è buono, sì, è ricco, sì; ma non importa. Io non posso amarlo per questo solo. Eppoi... è inutile — proseguì, animandosi, col viso arso dalla passione, — l’amore non si comanda. Io voglio sposare l’uomo che amo. Che altro abbiamo nel mondo, se non l’amore? Eppoi il peccato viene appunto quando si finge, quando si guarda alla roba e alla vanità e non al proprio cuore. Io non so fingere; io, muoio se fingo! Bisogna dunque finire presto questa commedia.
Il frate ascoltava, sempre più pencolandosi dalla parte della sacca colma: il suo viso si faceva triste.
— Perchè lo hai accettato se non lo amavi?
— Mi sembrava di amarlo! Non m’ero innamorata mai di nessuno, sebbene tanti passassero per me davanti a casa mia. Ma mi vedevano ridere e avevano soggezione di me. Di Andrea solo non potevo ridere, gli volevo bene, sì, anche perchè sapevo che era infelice. Ma poi! Frate Zironi, sappiamo noi come avvengono le cose della vita? Ecco l’altro mi si mise attorno... o meglio, no, neppure questo... No, così; ci siamo incontrati, ed ecco un giorno ci accorgemmo d’essere legati assieme come prigionieri alla stessa catena. E nessuno più, e nulla più ci potrà dividere...
— E va bene! — disse il frate, battendosi il mento sul petto: poi sollevò il viso, guardò il cielo e sorrise.
— Tua madre lo sa?
— Lo sa. Ma è una donna all’antica. Non vedeva di buon occhio neppure Andrea; tanto meno di questo è contenta...
— Perchè? non è bravo?
— Ah, per questo è bravo! — ella disse con voce soffocata. Ma il nome non potè pronunziarlo.
Intanto erano quasi arrivati allo stazzo Zoncheddu senza curarsi della gobbina che li seguiva a distanza, e senza porre mente a uno scalpitare di cavalli che, lontano e indistinto dapprima, diventava sempre più fragoroso e pareva un battere di mani gigantesche. Ma d’improvviso Vittoria impallidì come sentisse un rombo di uragano; e non si volse ma si ritirò sul margine della strada attirandovi il compagno.
Dapprima il frate vide una nuvola di polvere argentea ingombrare lo sfondo dello stradone, poi distinse quattro puledri bai dorati dal sole al tramonto. Tutti e quattro volgevano un poco la testa indietro sul collo fremente, quasi sdegnassero di guardare la strada che erano costretti a percorrere; uno nitriva, e sulla groppa palpitante, senza sella e senza freno stava il domatore, Mikali Zanche, alto ed agile, col largo petto sporgente e la vita lunga ben disegnata dal giubbone di velluto scuro.
Egli avanza, si distingue meglio: da una parte e dall’altra del suo viso quadrato di dominatore cadono come nastri i lunghi capelli neri; il mento e le labbra sporgenti, senza un pelo, esprimono una volontà selvaggia; la mano sinistra dal dorso lucido di bronzo regge le corde che legano i puledri al collo; la destra agita il nerbo nero e duro come una radice secca.
Appena vide Vittoria i suoi occhi neri brillarono di tenerezza, il sorriso gli scavò due fossette feminee agli angoli della bocca, e tutto il viso si fece dolce, infantile. La salutò due volte, piegandosi sul fianco e volgendosi prima di inoltrarsi nel sentiero verso lo stazzo, ma ella non rispose, seguendolo con gli occhi estatica finchè la polvere inargentata dal sole non si dileguò dietro di lui.
Ed ecco, egli è già lontano, alto sul gruppo dei puledri attraverso le cui zampe e le code agitate passano gli ultimi raggi del sole: le ombre descrivono un gioco fantastico sul verde delle macchie, e il frate ha un lieve capogiro. Ha capito il segreto di Vittoria e riprende a camminare come in sogno a fianco di lei con l’impressione che un turbine sia passato sopra di loro lasciandoli salvi ma sbalorditi.
Ella invece sospirò, sollevata da un peso.
— Sono contenta — mormorò a testa bassa, come parlando alla sacca a cui si aggrappava di nuovo. — Adesso sapete ogni cosa.
Ma egli non parlava più; giunti all’abbeveratoio si tirò in su la sacca sul braccio e si fermò guardando verso Monte Nieddu.
— Io qui vi lascio, donne mie.
— Para! — disse Vittoria con occhi supplichevoli.
— Non conosci proprio un’altra persona a cui rivolgerti?
— No, no. Voi! Voi! — ella supplicò afferrandogli le maniche. E anche la gobbina lo fissava coi suoi occhi strani, e pareva che con l’occhio nero implorasse e col verde sorridesse maligna.
— Ah, badate, donne! — egli cominciò, poi tacque respingendo Vittoria che gli stringeva i polsi con le sue mani calde.
Le parole del Profeta gli tornavano in mente: «di tre cose ha paura il mio cuore, ma la quarta fa impallidire il mio volto; la donna, dolore e affanno di cuore». Povero Andrea, poveri noi, due volte vittime, del serpente e della donna!
— Bene, ascoltami. Io devo tornare lassù. Tu mandami Andrea al più presto.
— Dio vi paghi — disse la gobbina, mentre Vittoria si cercava in tasca una moneta; egli però si allontanò rapido come fuggendo, sdegnoso dell’elemosina di lei, e ben presto fu lontano, piccolo come un uccello fra le roccie del sentiero.
— Come sono contenta, zia! — esclamò Vittoria, vinto il primo senso di umiliazione, prendendo la gobbina per il braccio e facendola correre con lei. — Mi pare di aver guadagnato dieci anni di vita. Tutto gli ho detto, e penserà lui a parlare con Andrea. Sono così contenta che appena arrivo mi metto a suonare.
— Egli intanto ha rifiutato la tua moneta! Ed hai inteso le sue parole? Donne, badate!
— Che importa?
— E adesso che dirà tua madre?
— Che importa, zia, che importa?
La madre non aprì neppure le labbra, al loro arrivo; piccola e curva, seduta sul limitare della porta, sgranava le fave raccolte nel suo diletto orticello, e solo quando la gobbina scosse la brocca e trovandola vuota se la mise sul capo per andare alla fontana, sollevò le palpebre grevi rossastre e guardò Vittoria.
Vittoria le si aggirava attorno, lieve, pieghevole, osservandola silenziosa: si tolse la gonna, la sbattè davanti alla porta, salì di corsa nella sua cameretta e si affacciò alla finestra. Di là si respirava, si era liberi, almeno! La brughiera si stendeva come un mare verde fino all’orizzonte, e lo stazzo Zoncheddu, bianco ma arrossato dal crepuscolo, pareva una barca ferma in mezzo alle onde. Nuvolette scure salivano dai monti come aquile e a Vittoria sembrava di poter anche lei spiccare il volo. Libera! Libera! Respirò forte e ritornò presso sua madre, curvandosi a prendere una fava dal grembo di lei.
— Mammaredda, piccola madre; sentite, siamo tornate col frate di Monte Nieddu e l’ho incaricato di dire ad Andrea che non lo voglio più.
La madre fissava le pallide fave che uscivano dalla buccia vellutata e scorrevano come perle verdoline fra le sue dita nere. Non sollevò il viso, e quando Vittoria le ebbe raccontato ogni cosa disse piano, con voce dolce e rauca:
— Vittoria, tuo padre beato diceva sempre che l’uomo non deve pretendere di guidare il suo simile. Tutti deboli siamo e soggetti all’errore. Ma egli mi diceva: quando nostra figlia sarà grande lascia che veda da sè il suo bene e il suo male. Così io ti ripeto: Vittoria bada a te!
— Sì, credo di fare bene. Io non posso legarmi ad Andrea perchè ne amo un altro. Ricordatevi ciò che è accaduto alla loro madre...
— E tu credi che sarai felice con l’altro? Pensaci bene, anima mia.
Vittoria alzò le spalle, ma subito l’espressione del suo viso si fece grave.
— Non è questo, madre! Non m’importa neppure della felicità!
E guardò a lungo fuori, verso lo sfondo della brughiera, corrugando le sopracciglia. Sentiva a un tratto un’angoscia misteriosa, come se la sera calasse anche dentro di lei; e il bisogno di fermare la luce sull’orizzonte, di riempire il mondo col grido della sua passione, la spinsero a cercare la fisarmonica ed a sedersi sullo scalino della porta.
Con lo strumento appoggiato al ginocchio, reclinò il capo a destra per ascoltare meglio le note, mentre le sue dita fini e brune correvano sui tasti, dapprima lievi come le penne di un’ala, poi tenaci come artigli. In breve tutta la brughiera fino all’orizzonte rosso parve animarsi e palpitare. Erano gridi di gioia, richiami d’amore, lamenti di desiderio che andavano di macchia in macchia, di cespuglio in cespuglio come cercando nelle ombre del crepuscolo un fantasma che rispondesse sullo stesso tono; e non trovandolo tornavano indietro, diventavano gemiti, singulti, voci che domandavano aiuto e poi si placavano e poi si mutavano in risate folli di scherno. Ma dalla profondità dello strumento saliva ininterrotto, come causato dall’ansito del petto di lei, un anelito dapprima lieve, poi rauco come il tremito della zampogna: e piano piano cresceva anch’esso, si faceva mormorio di vento, fragore di mare e di boschi lontani: sembrava la voce di tutta la brughiera intorno quando i venti di marzo la battono; volavano i fiori, gli uccelli passavano stridendo ebbri di turbine e di amore; la passione prorompeva furiosa; poi s’acquetava, tutto ritornava dolce e ardente, ma di un ardore desolato: ardore di giugno, ardore di donna che aspetta pure sapendo di aspettare invano, e si strugge della sua voluttà di morte.
«Meglio la disperazione e il turbine che il desiderio vano — gridava la nota acuta di Vittoria: e il grido moriva in un sospiro, mentre la nota bassa continuava la sua cantilena nostalgica. — Io non so dirti quello che soffro, ma ti parlerà per me la voce del vento, il gemito dell’usignolo nel bosco. Noi saremo lontani, eppure io sarò con te in cima alla montagna al sorgere del sole e tu sarai con me in riva al mare al cadere della luna. Allora i nostri occhi si diranno tutto, e la vita non avrà più misteri per noi. Allora sapremo che la nostra lontananza era un sogno e che abbiamo vissuto sempre assieme, da quando io fanciulla sognavo l’amore, da quando tu adolescente sognavi il piacere. Siamo vissuti assieme nella pena e nella gioia, lungo la strada ove abbiamo trascinato la nostra miseria quotidiana. Eccola, la lunga strada che tu conosci, che io conosco: da una parte le case miserabili degli uomini affaticati, dall’altra le macchie d’alloro e di lentischio, gli asfodeli e i boschi di quercia. Tu hai guardato attraverso la siepe pensando a me, io ho guardato attraverso la siepe pensando a te: e desideravamo di entrare e di andare laggiù per ritrovarci, mentre eravamo uniti e il tuo cuore e il mio fiorivano assieme come la rosa doppia sopra il muro del cancello...»
Ma la nota acuta insisteva «vieni, vieni!» e Vittoria vedeva avanzarsi il bel giovine amante e l’aspettava vibrando tutta, non sapeva di che, se di desiderio o di pena; e non sapeva ciò che voleva da lui, se il bacio, la voluttà o l’oblio: voleva qualche cosa che era al di là del bacio, della voluttà e dell’oblio. Che cosa, non sapeva; ma ne soffriva e ne gioiva, e la voce del piccolo strumento spandeva il suo grido nostalgico per tutte le terre intorno, per tutta l’isola, echeggiava nel cuore di tutte le donne sedute sul limitare delle loro porte, fondendosi col crepuscolo, inafferrabile e struggente come il crepuscolo stesso.