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vano gemiti, singulti, voci che domandavano aiuto e poi si placavano e poi si mutavano in risate folli di scherno. Ma dalla profondità dello strumento saliva ininterrotto, come causato dall’ansito del petto di lei, un anelito dapprima lieve, poi rauco come il tremito della zampogna: e piano piano cresceva anch’esso, si faceva mormorio di vento, fragore di mare e di boschi lontani: sembrava la voce di tutta la brughiera intorno quando i venti di marzo la battono; volavano i fiori, gli uccelli passavano stridendo ebbri di turbine e di amore; la passione prorompeva furiosa; poi s’acquetava, tutto ritornava dolce e ardente, ma di un ardore desolato: ardore di giugno, ardore di donna che aspetta pure sapendo di aspettare invano, e si strugge della sua voluttà di morte.

«Meglio la disperazione e il turbine che il desiderio vano — gridava la nota acuta di Vittoria: e il grido moriva in un sospiro, mentre la nota bassa continuava la sua cantilena nostalgica. — Io non so dirti quello che soffro, ma ti parlerà per me la voce del vento, il gemito dell’usignolo nel bosco. Noi saremo lontani, eppure io sarò con te in cima alla montagna al sorgere del sole e tu sarai con me in riva al mare al cadere della luna. Allora i nostri occhi si diranno tutto, e la vita non avrà più misteri per noi. Allora sapremo che la nostra lontananza era un sogno e che abbiamo vissuto sempre assieme, da quando io fanciulla sognavo l’amore, da quando tu adolescente sognavi il piacere. Siamo vissuti assieme nella