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— Che importa, zia, che importa?
La madre non aprì neppure le labbra, al loro arrivo; piccola e curva, seduta sul limitare della porta, sgranava le fave raccolte nel suo diletto orticello, e solo quando la gobbina scosse la brocca e trovandola vuota se la mise sul capo per andare alla fontana, sollevò le palpebre grevi rossastre e guardò Vittoria.
Vittoria le si aggirava attorno, lieve, pieghevole, osservandola silenziosa: si tolse la gonna, la sbattè davanti alla porta, salì di corsa nella sua cameretta e si affacciò alla finestra. Di là si respirava, si era liberi, almeno! La brughiera si stendeva come un mare verde fino all’orizzonte, e lo stazzo Zoncheddu, bianco ma arrossato dal crepuscolo, pareva una barca ferma in mezzo alle onde. Nuvolette scure salivano dai monti come aquile e a Vittoria sembrava di poter anche lei spiccare il volo. Libera! Libera! Respirò forte e ritornò presso sua madre, curvandosi a prendere una fava dal grembo di lei.
— Mammaredda, piccola madre; sentite, siamo tornate col frate di Monte Nieddu e l’ho incaricato di dire ad Andrea che non lo voglio più.
La madre fissava le pallide fave che uscivano dalla buccia vellutata e scorrevano come perle verdoline fra le sue dita nere. Non sollevò il viso, e quando Vittoria le ebbe raccontato ogni cosa disse piano, con voce dolce e rauca:
— Vittoria, tuo padre beato diceva sempre che l’uomo non deve pretendere di guidare il