Le colpe altrui/Parte I/Capitolo V

Capitolo V

../Capitolo IV ../Capitolo VI IncludiIntestazione 14 gennaio 2016 100% Da definire

Parte I - Capitolo IV Parte I - Capitolo VI
[p. 66 modifica]

V.


Nello stazzo Zanche, come in tutte le case governate da serve, si viveva di pettegolezzi. I due servi anziani erano buoni e docili, vere bestie da lavoro rassegnate al loro destino, ma Pancraziu aveva sangue berbero nelle vene, diceva il padrone, ed era turbolento e maligno. Da qualche tempo, poi, perseguitava Ignazia con le sue proposte di amore, e le ripulse tacite ma valide di lei cominciavano ad esasperarlo.

Quando Andrea, dopo aver lasciato Vittoria e il frate, entrò nella vigna, il servo si sollevò appoggiandosi alla zappa, con una mano sulla schiena, e fece una smorfia di stanchezza; ma tosto vide Ignazia che dall’alto del viottolo pareva spiasse qualche cosa in lontananza e si mise a ridere. I suoi denti canini lucevano al tramonto.

— Padroncino Andrea, scommetto che a momenti passa Mikali! — Infatti ecco una nuvola di polvere nello stradone e in mezzo Mikali coi puledri dorati dal sole. Il servo guardava con gli occhi pieni di ammirazione e d’invidia, e anche l’altro uomo che lavorava nella vigna si sollevò curioso, mentre Andrea correva verso la muriccia per salutare il fratello.

— Oh Mikali, come va?

Mikali fermò a stento i puledri, o finse di fermarli a stento, evitando lo sguardo di Andrea. [p. 67 modifica]

— Sei arrivato? Io non sapevo che arrivavi adesso... Torno da Terranova dove sono stato a prendere queste bestie indemoniate... Appartengono ai fratelli Fera: non son ricchi, i fratelli Fera, ma si trattano bene; mangiano come scomunicati...

Divagava, Mikali, dandosi un gran da fare per tener fermi i puledri che si agitavano allungando la testa l’un verso l’altro come per comunicarsi un segreto tormentoso; ma Andrea lo guardava fisso, fermo dietro la muriccia.

— Ma non sapevi che nostro padre sta male?

— M’avevano detto ch’era quasi guarito. Sta peggio nostra madre; l’hai veduta?

— Sì. Come è magra! — disse Andrea con tristezza.

— Lavora troppo! E glielo dico, sai, Andrea. Le dico sempre: non vi alzate così presto. Ma credo che lei lavori anche alla notte. Ohè, fermi, diavoli, che la corda v’impicchi! Tirano: bisogna andare. Senti, Andrea, vieni verso lo stazzo Zoncheddu, più tardi. Devo parlarti...

— Anch’io devo parlarti, Mikali...

Mikali si lasciava portar via dai puledri, pure battendoli sulla testa col nerbo e urlando: — fermi, fermi, all’inferno, alla forca! — Al di qua della muriccia Andrea tentava di seguirlo, di fargli capire qualche cosa: ma Pancraziu s’era avvicinato e faceva dei cenni a Mikali, additandogli il punto ove poco prima stava Ignazia.

— Non l’hai consolata neppure con uno sguardo, carnefice! [p. 68 modifica]

— Prenditela pure, Pancrazio, se la vuoi. Siete neri entrambi come il tormento dell’inferno! — gridò Mikali, e rallentò la corda ai puledri che volarono via nitrendo. Andrea ebbe l’impressione che suo fratello lo sfuggisse: perchè? Forse per timore di un rimprovero a proposito di Ignazia. Cento volte gli aveva detto: «Mikali, non voglio che tu guardi le serve del mio stazzo». Mikali però non aveva scrupoli; fin dove potevano arrivare le sue braccia tutti i frutti intorno erano suoi.

Andrea rientrò pensieroso allo stazzo, in attesa del medico.

Il malato non aveva più febbre, ma col cadere della sera la sua agitazione nervosa aumentava; voleva alzarsi, metteva fuori le gambe, parlava sempre di Vittoria con lodi insensate, cosa che irritava zia Sirena, salvo il rispetto ai padroni.

— E va! Sembra ch’ella abbia posto una fattura sotto la porta per ammaliarli tutti e due — disse a Ignazia, in cucina. Ignazia però taceva, scura in viso come l’orbace delle ghette che cuciva pazientemente. — Eppure, m’ingannerò; ma Vittoria non vuol bene ad Andrea. M’ingannerò; il Signore lo voglia.

Prese un poco d’orzo in una mestola di legno e andò a spargerlo nel cortile; e fra lo schiamazzare dei volatili che le si gettavano attorno le parve di sentire in cucina un gemito selvaggio; ma rientrando vide Ignazia immobile curva sul suo lavoro.

— S’è lamentato? [p. 69 modifica]

— No, zia.

— Ho sentito gemere.

— Zia, — disse Ignazia dopo un momento, sollevando gli occhi foschi — avete veduto? È passato, poco fa... ed ha parlato col piccolo padrone...

— Ma chi?

— Il bastardo.

— Non è la prima volta che parlano assieme: lasciali, sono fratelli — disse la vecchia; ma anche i suoi occhi si fecero scuri.

Il medico tardava. Rientrarono i servi, e zio Bakis consigliava Andrea di andarsene da Vittoria.

— Tanto sto bene. Domani all’alba mi alzo e vado alla vigna. E se il dottore dice qualche cosa gli rompo la testa col bastone.

Andrea guardava attraverso i vetri sbadigliando, preso anche lui da un senso di malessere profondo: mentre la vecchia serva rinnovava il cataplasma di malva sul ventre del malato, andò nella sua camera e aprì la finestruola; la finestruola alta che sembrava più piccola in quell’ampio stanzone ove i mobili grandi e pesanti, armadi, cassapanche, scranne, che sembravano fatti per giganti, gli avevano sempre dato un’impressione grave, un senso di rispetto. Era la camera di sua madre e di suo padre sposi: là egli era nato, là sognava di dormire con Vittoria.

La luce del crepuscolo illuminava il soffitto; nel cortile era già ombra e le galline dormivano sui bastoni sotto la tettoia; anche il cane [p. 70 modifica]taceva e solo sullo sfondo giallo e azzurro del cielo sopra il muro di cinta passavano e ripassavan come rondini i pipistrelli neri. Un odore di erbe e di fiori di calendola profumava l’aria; egli pensò a Vittoria, fermo davanti al davanzale alto, pensò ai giaggioli dietro la muriccia ov’egli l’attirava per baciarla di nascosto della madre; e non si inquietò nel sentire accanto alla porta di cucina la voce di Ignazia che respingeva il servo.

— Lasciami, volpe; le mani mozze! Chiamo zia Sirena.

— Ah, tu muori di crepacuore, figlia mia, e non ti lasci neppure consolare. L’hai atteso invano, oggi, il gigante. Non ti ha neppure salutato.

Allora Ignazia, che si difendeva con spintoni vigorosi, disse con voce cupa:

— Che t’importa, demonio? Lasciami o chiamo.

Ma Pancraziu era insistente e crudele, quella sera.

— Sai che cosa mi disse il tuo alto Mikali? Che sei troppo nera per lui...

— Certo, Vittoria è più bianca di me... Lasciami! Zia Sirena?

Il suo grido vibrò come uno sprazzo di luce sinistra illuminando l’anima d’Andrea. Fu come un fulmine. Egli si piegò; senza accorgersene sporse la mano fuori della finestra e quei due videro e tutto fu di nuovo silenzio. Pancraziu balzò indietro in cucina. Ignazia rimase gelida e immobile davanti alla porta. Ma d’un [p. 71 modifica]tratto cominciò a tremare, tanto che si appoggiò al muro. Tutto le roteava attorno e tutto era nero e tremulo come in fondo al mare. Solo dopo qualche momento, non vedendo comparire Andrea, si calmò. Vittorie ce ne erano molte, nei dintorni. E d’altronde, ebbene, e se egli ha capito? perchè non deve soffrire anche lui? Non deve soffrire perchè è ricco, perchè è padrone? Ah, Ignazia non trema più, a poco a poco anzi prova un senso di conforto crudele, poichè sente di non essere più sola a spasimare in quella casa ove l’aria stessa è carica di passione e di tradimento.

Andrea s’era piegato, còlto anche lui da un senso di vertigine, aggrappandosi all’inferriata del finestrino come per resistere al desiderio di gettarsi per terra, o di correre fuori e di prendere la serva per la gola.

E tutto anche intorno a lui roteava tremulo e nero come in fondo al mare; ma a poco a poco tutto tornò a fermarsi, a rischiararsi: Vittorie ce n’erano tante, nei dintorni; sì, ce n’erano tante, tutto tornò a rischiararsi, ma la certezza che la serva accennava a Vittoria, a lei sola, non lo abbandonò un attimo. Respirò forte, ma gli sembrò che qualche cosa si fosse rotta entro di lui.

Il rumore del carrettino del dottore su per il viottolo e poi nel cortile lo richiamò in sè: volle uscire, inciampò sulla soglia e balzò con le mani tese fino alla parete del corridoio. Là rimase ad aspettare.

Il dottore parve non badare a lui, tanto si [p. 72 modifica]dava un da fare frettoloso. Piccolo e sbarbato, sembrava un fanciullo, ma aveva gli occhi vecchi e la voce stanca.

— Ohè, zio Bakis, — disse curvo a palpare i fianchi nudi del malato, mentre Andrea guardava pallido e smarrito — avete ragione, che Dio m’assista! State meglio voi di Andrea. Perchè l’avete fatto venire?

— Scusi, — intervenne zia Sirena — avantieri la vossignoria diceva di farlo venire.

— Io? Può darsi.

Zio Bakis, nonostante i suoi feroci propositi, lo guardava ansioso, e infine gli chiese timidamente:

— Domani posso alzarmi?

— Domani no; posdomani.

Andrea accompagnò il dottore, poi si trovò con lui sul carrettino, trascinato di corsa dal cavallo frustato senza pietà. Andavano: non sapeva dove, non sapeva perchè; provava un malessere ardente, un dolore alla nuca, e tutte le viscere gli sobbalzavano dentro e gli pareva che la frusta colpisse anche lui.

Far presto bisogna, diceva una voce lontana; e il dottore gli raccontava la sua vita, i suoi propositi. Figlio d’un pastore, aveva studiato con rapidità consumando il piccolo patrimonio paterno, e adesso correva tutto il giorno per poter triplicare il piccolo patrimonio, e più che il pensiero dei malati lo incalzava l’ansia di far presto. Le distanze sono grandi, negli stazzi e nei paesetti perduti nella brughiera; bisogna far presto, arrivare a tempo. [p. 73 modifica]

E Andrea voleva far presto anche lui quella sera; perciò s’era fatto prendere sul carrettino; voleva anche lui correre, arrivare a salvare qualcuno, giungere in qualche posto ove assicurarsi che la notte non era eterna, che la luce non era per sempre spenta sulla faccia della terra.

Ecco infatti un lume lontano, in fondo al campo di fave, dietro la siepe dello stazzo Zoncheddu; e più sopra sul cielo verdognolo del crepuscolo la stella della sera come un faro sul mare. Era come un punto di approdo, oscillante eppure fermo nel vuoto: il faro che indicava il limite ove l’inganno del cammino mortale finisce.

— Io scendo qui, grazie — disse Andrea, fermando la mano del dottore.

Saltò a terra mentre il carrettino sobbalzava ancora; e rimase immobile sulla strada, fra la polvere e l’odore delle macchie; altre stelle apparivano qua e là come arrivassero di lontano e si fermassero sulle cime dei monti e sul confine della brughiera a guardare la terra oscura. Dove andare, oltre? Anche lui, Andrea, arrivava di lontano e guardava verso un luogo oscuro.

Dopo qualche momento di incertezza, si avanzò verso il lume dello stazzo, fermandosi di nuovo accanto alla siepe del cortile. Si udiva il ruminare dei puledri di Mikali legati sotto la tettoia e il chiacchierio delle donne riunite nella cucina. Attraverso la porta illuminata si vedeva la fila dei ragazzetti che mangiavano [p. 74 modifica]avidamente attorno al tavolo nero, e Marianna Zanche e Maria Luisa Zoncheddu che misuravano una pezza di tela grigiastra, la prima reggendo con la punta della dita una canna segnata come un metro, l’altra svolgendo il tessuto. Una fanciulla pallida, sottile sottile, con un grande carico di capelli chiari, aiutava a svolgere la pezza e a ripiegarla dall’altra parte; ma i ragazzi la deridevano per la poca forza che dimostrava.

— Maria Battista, magrolina! Pesa più la tela che tutta te intera, cavalletta!

Andrea apparve sulla porta; tutti tacquero, la fanciulla trasalì, la madre lasciò cadere la canna. Solo la padrona, una donna alta e grassa, gli andò incontro tirandosi addietro la tela come una cometa.

— Vieni avanti, Andrea. Come stai? E tuo padre? E Vittoria? E zia Sirena? Quando riparti?

Egli fissava sua madre e non vedeva altro. Eccola lì; è pallida come morta: sa già perchè egli è venuto, bisogna affrettarsi, portarla via, interrogarla subito prima ch’ella prepari l’inganno. Ah, ella è abituata, a ingannare, a mentire: eccola lì, piccola e nera come un’ombra, come una tarantola; egli ha quasi paura di lei.

*

Ma come attirata dallo sguardo disperato di suo figlio, Marianna Zanche si avvicinava passo passo alla porta. Anche i ragazzi s’erano tutti [p. 75 modifica]precipitati curiosi attorno a Maria Luisa che, pure respingendoli perchè calpestavano la tela, continuava le sue domande curiose.

Finalmente madre e figlio si liberarono delle donne e dei fanciulli e andarono verso lo stradone. Egli camminava a testa bassa inciampando: gli sembrava di essere cieco; desiderava gridare e non poteva per paura delle donne che spiavano. Gli pareva di non aver casa, anche lui come sua madre, di essere come lei servo, in terreno altrui; entrambi potevano camminare finchè volevano, non avrebbero mai trovato un posto loro dove parlare liberamente, dove guardarsi in fondo agli occhi e intendersi. Arrivato allo stradone, si fermò aspettandola: ed ecco di nuovo le stelle ferme sul limitare del nulla; il rifugio sicuro era solo laggiù, lassù: perchè disperarsi quando resta un rifugio?

Allora afferrò la madre per le braccia, ma senza forza, quasi calmo. Le domandò a voce alta:

— Dunque è vero?

Senza rispondere ella giunse le mani tremule e lo guardò, nella notte, già preparata a tutto. Da lunghi anni era preparata a tutto. Aveva peccato, aveva accettato tutto in espiazione, eppure le pareva che il castigo non dovesse mai cessare. Lo aveva fatto pesare anche su Mikali, questo castigo, su Mikali innocente; ma non bastava ancora...

Vedendola immersa nei suoi pensieri, Andrea tornò ad irritarsi e la scosse tutta come un [p. 76 modifica]cencio, la respinse, parve buttarla lontano per liberarsene.

— Ma perchè, ma perchè? perchè ingannarmi? Voi?

— No, Andrea, non volevamo ingannarti. Aspettavamo, per dirti tutto.

— Oh, aspettavate? — egli disse come fra sè, nascondendo il viso fra le mani; poi si scosse ancora. — Aspettavate? Che cosa?

Neppure lei lo sapeva: e cominciò a tremare tutta.

— Ma perchè, mamma, ma perchè? Adesso capisco tutto. Ah, ecco perchè ella era così, oggi. Piangeva. Perchè piangeva? E lui? Ah, lui è bello... è una bella bestia... è il maschio! Ma voi... voi... perchè mi avete ingannato, voi? Non sono vostro figlio?

Ella taceva e tremava; che ne sapeva lei di tutti questi perchè?

— Ebbene, — egli riprese, stringendole di nuovo il braccio e trascinandola fino al paracarri su cui sedette sfinito — voi verrete con me, a casa mia, e starete con me e con mio padre, per tutta la vita. E non ci sarà altro, per voi, nel mondo. Ma questo ci sarà: che noi tre, almeno, non c’inganneremo più. Che loro due si uniscano, il maschio e la femmina, questo non importa: sono degni l’uno dell’altra. Io non la voglio più, lei; mi farebbe orrore. Ma voi dovete stare lontana da loro: voi starete con me. Questo almeno lo capite.

— Sì, sì, sì, càlmati, anima mia. Farò quello che vorrai, ma càlmati. Non gridare così: ti sentono... [p. 77 modifica]

— Che importa? Non c’è più nessuno per me nel mondo.

E di nuovo infatti gli parve di trovarsi in una solitudine infinita. Perchè proseguire? La madre diceva «sì, sì, sì», senza capire nulla di lui; ed egli non sentiva nulla per lei. Meglio che appoggiarsi al seno di lei, meglio stendersi sulle pietre della strada, come uno stelo divelto. E si stese infatti sul paracarri e desiderò dormire. La donna gli parlava all’orecchio, a mani giunte, curva su lui.

— Perchè, tu domandi? È destino, è destino. È Dio che vuole così. Quando Mikali, disgraziato, mi disse: — madre, Vittoria Zara vuol lasciare Andrea perchè mi ama; — credi tu che io non abbia patito, Andrea? Quanto non ho fatto per distoglierlo? Tutto gli ho detto. E sai cosa risponde? «Madre, è destino». Come fare, allora? Allora, quando egli parla così, io sento le mie braccia staccarsi dagli omeri e cadere per terra. Che cosa fare, contro la sorte? Mikali non è cattivo, Mikali. È focoso, è leggero, ma non malvagio. Egli dice: «E non è peggio se Vittoria sposa Andrea e poi lo tradisce?» Andrea, anima mia, non fidarti, sai: loro due si sono incontrati perchè la sorte voleva così e tu non potrai separarli mai più. Non fidarti, Andrea: tu puoi correre da Vittoria, legarla a te, credere che ella ti ami. In fondo al cuore le resterà Mikali, come una pietra in fondo al pozzo; e il peso la tirerà giù sempre, sempre, e tirerà anche te se cercherai di trarla su... Andrea, tu sai ragionare! hai studiato, sai queste cose... [p. 78 modifica]

Sì, egli le sapeva; ma cercava di aggrapparsi ancora a qualche inganno, cercava di dare una tinta diversa dalla vera alla sua disperazione.

— È il tradimento, quello che mi dispiace, madre! Non dico per Vittoria: è donna e basta! Ma lui... Mikali, mio fratello! Proprio lui. Che gli ho fatto? Non gli ho voluto bene, io? Non l’ho cercato io, da bambino? Qui, su questo paracarri, venivamo di sera a sederci, a incontrarci di nascosto come figli di nemici. Rammentate? Gli portavo sempre qualche cosa. Una sera passò lui... nostro padre, e noi ci buttammo qui dietro il muro, nascondendoci, ridendo e tremando di paura. E adesso? Egli è là, vero? Dite, è là?

Sollevò la testa stringendo i denti, poi appoggiò la fronte sulla pietra: eccoli, li vede: sono abbracciati, all’ombra della casetta, tra i fiori dei giaggioli; li vede: sono uniti, la bocca sulla bocca, Vittoria nell’incavo del corpo di Mikali come dentro una nicchia. Chi può separarli? Neppure l’urlo del suo dolore, neppure il coltello che uccide. Dio, Dio, pietà! Ma neppure Dio può separarli. E cominciò a piangere silenzioso sulla pietra, mentre la madre, meno pietosa della pietra, non sapeva come questa raccogliere le lagrime di lui e tacere.

— È là, sì. È sempre là, come attirato da una malìa. Dapprima andava da altre donne: ultimamente s’era fidanzato con Maria Battista la povera orfana, peggio che orfana, pari a lui. Ed io ero contenta. La sorte li aveva avvicinati. Anche lei, Battista, piange per colpe [p. 79 modifica]altrui, anche lei, come Mikali, ha tutto perduto: casa, famiglia, beni e fama, per colpa altrui! Ed ella si attaccava a me, fin da bambina, quando suo padre fu condannato e portato alla sua pena, ed ella, rimasta sola, fu accolta nello stazzo: si attaccava a me come il caprettino orfano alla pecora che può allattarlo: ma un giorno io e lei vedemmo Vittoria e Mikali abbracciati. Battista mi cadde sul grembo come morta. E Mikali dice: «Madre, che posso fare? posso domare i puledri, ma non il destino». E adesso, Andrea, taci, taci; che si può fare? Vedi che non sei solo a soffrire.

Egli si sollevò; pareva non avesse ascoltato una sola delle parole di lei: e stette immobile, lungo tempo, curvo sotto le stelle che salivano sul cielo, mentre quella della sera cadeva lentamente verso il confine della terra. Il lume dello stazzo si spense. La madre gli toccò il braccio.

— Sì, — egli disse scuotendosi — vado, vado. — E si alzò; ma ella lo tenne per la mano, col viso pallido sollevato nell’ombra.

— Andrea! dove vai?

— Vado a casa. Domani ci rivedremo, per non lasciarci più.

Fece alcuni passi barcollando, come ubbriaco, poi le tornò davanti.

— Venite con me, adesso. Quando sarete a casa tutto si aggiusterà — disse tendendole la mano: e tentò anche di trascinarla con sè; ma ella resisteva con una forza tenace superiore a quella di lui. [p. 80 modifica]

— Anima mia! Stanotte no, non posso. Devo tornare allo stazzo. Domani ci rivedremo: va, Dio ti benedica!... Andrea, — lo richiamò raggiungendolo — tu non farai male a tuo fratello?

— No, no! — egli disse subito, e andò avanti. Camminava nel vuoto, ma ancora gli sembrava di marciare dritto, sotto un ordine preciso. L’illusione di ricostrurre l’edificio rovinato della sua famiglia lo guidava nel buio come la parola misteriosa di quest’ordine; e il ricordo appunto della rovina famigliare gl’impediva di voltarsi indietro, di andare da Vittoria.