Le Mille ed una Notti/Storia narrata dal Mercadante cristiano
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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STORIA
NARRATA DAL MERCADANTE CRISTIANO.
«Sire, prima d’impegnarmi nel racconto, che vostra maestà acconsente di udire, mi permetterò farle osservare, che non ho l’onore di esser nato in luogo dipendente dal suo impero. Sono straniero, nativo del Cairo in Egitto, Cofto (1) di nazione, e di religione cristiano. Mio padre faceva il sensale, ed essendo ricco, mi lasciò, morendo, tutte le sue sostanze. Seguii il suo esempio, e ne abbracciai la professione. Trovandomi un giorno al Cairo nel luogo pubblico dei negozianti d’ogni sorta di grani, un giovane mercante, bello e ben vestito, montato sur un asino, venne alla mia volta; e salutatomi, aprì un fazzoletto, il quale conteneva una mostra di sesamo. — Quanto vale,» mi chiese, «il sesamo di questa qualità, alla misura?...»
Scheherazade, vedendo il giorno, tacque; ma ripigliò la parola la notte seguente, e disse al sultano delle Indie:
NOTTE CXXIX
— Sire, il mercatante cristiano, continuando a narrare al sultano di Casgar la cominciata storia:
«Esaminai,» disse, «il sesamo che il giovane mi mostrava, e gli risposi che valeva, al prezzo corrente, cento dramme d’argento (2) alla grande misura. — Cercate,» mi disse allora, «i mercadanti che ne volessero a tal prezzo, e venite fino alla porta della Vittoria, ove vedrete un khan separato da ogni abitazione; io sarò là ad aspettarvi.» Sì dicendo, partì, e mi lasciò la mostra di sesamo che feci vedere a parecchi mercanti della piazza, i quali tutti mi dissero che ne avrebbero preso quanto ne voleva dar loro per cento dieci dramme alla misura: trovando dunque da guadagnare con essi dieci dramme alla misura, lusingato da quell’utile, mi recai alla porta della Vittoria, ove il giovane mercadante mi aspettava, ed il quale mi condusse al suo magazzino tutto pieno di sesamo. Ve n’erano cento cinquanta grandi misure circa, che feci misurare, e caricatele sugli asini, le vendetti per cinque mila dramme d’argento. — Su questa somma,» mi disse il giovane, «vi sono cinquecento dramme di vostro profitto, a dieci per misura, che vi accordo; quanto al resto che mi appartiene, non avendone ora bisogno, ritiratelo dai mercanti, e tenetelo voi, finchè ve lo venga a chiedere.» Gli risposi, che sarebbe pronto ogni qualvolta volesse venir a prenderlo o mandarlo a cercare. Gli baciai la mano nell’accommiatarmi, e mi ritirai soddisfattissimo della sua generosità.
«Stetti senza rivederlo un mese, scorso il quale lo vidi comparire. — Dove sono,» mi disse, «le mie quattromila cinquecento dramme? — Le tengo pronte,» risposi, «e vo sul momento a contarle.» Siccome era montato sul suo asino, lo pregai a scenderne, e farmi l’onore di mangiar un boccone con me prima di riceverle. — No,» mi disse, «adesso non posso smontare; ho un affare urgentissimo che mi chiama qui vicino; ma torno subito, e nel ripassare, prenderò il mio denaro, che vi prego intanto di apparecchiarmi.» Ciò detto, scomparve; io lo aspettai, ma invano, e non tornò se non dopo un altro mese. — Ecco,» pensava io, «un giovane mercatante che ha grande fiducia in me, se mi lascia in mano, senza conoscermi, una somma di quattromila e cinquecento dramme d’argento! Un altro non farebbe certo così, e temerebbe non gliela rubassi.» Tornò alla fine del terzo mese: era ancora montato sul suo asino, ma più magnificamente vestito dell’altre volte.»
Vedendo Scheherazade spuntare il giorno, sostò dal racconto per quella notte; e sulla fine della seguente, proseguì a questo modo, facendo sempre parlare il mercadante cristiano al sultano di Casgar:
NOTTE CXXX
— Appena vidi il giovine mercadante, gli andai incontro, e lo scongiurai di smontare, chiedendogli se non voleva che gli contassi il suo denaro. — Oh! non c’è premura,» mi rispose, con far ilare e contento; «so che si trova in buone mani; verrò a prenderlo quando avrò speso tutto quello che ho, e non mi rimarrà più nulla. Addio,» soggiunse; «aspettatemi alla fine della settimana.» E dato un colpo di frusta all’asino, in breve lo perdetti di vista. — Buono!» dissi fra me; «mi dice di aspettarlo alla fine della settimana, e, secondo il suo discorso, non lo rivedrò forse per molto tempo. Corro subito a mettere a frutto il suo denaro; sarà una buona rendita per me. —
«Nè m’ingannai nella mia congettura: passò un anno senza udir parlare del giovine. Scorso tal tempo, ei ricomparve riccamente vestito come l’ultima volta, ma mi pareva che gli frullasse qualche cosa per la testa. Lo supplicai di farmi l’onore d’entrare in casa mia. — Questa volta lo farò,» mi rispose; «ma colla condizione che non incontrerete spese straordinarie per me. — Farò quanto volete,» ripigliai io; «ma, di grazia, smontate.» Mise piede a terra ed entrò in casa. Diedi gli ordini pel trattamento che voleva fargli; e mentre aspettavamo che servissero in tavola, cominciammo a discorrere. Ammannito il pranzo, sedemmo a mensa, e dal primo boccone osservai che lo prese colla mane sinistra, e grande fu la mia sorpresa vedendo che non si serviva mai della destra: io non sapeva più che cosa dovessi pensarne. — Dacchè conosco questo mercante,» andava fra me dicendo, «mi sembrò sempre gentilissimo; sarebbe mai possibile che facesse così per usarmi disprezzo? Per qual ragione non si serve egli della destra?....»
Il giorno che rischiarava l’appartamento del sultano delle Indie, non permise a Scheherazade di continuare; ma ripigliò il seguito della storia alla domane, e disse a Schahriar:
NOTTE CXXXI
— Sire, il mercadante cristiano era ansioso di sapere perchè l’ospite mangiasse colla mano sinistra.
«Dopo il pranzo,» disse, «quando i servi ebbero sparecchiato, e si furono ritirati, sedemmo entrambi sur un sofà. Presentati al giovine una pastiglia eccellente per la bocca, ed ei la prese di nuovo colla sinistra. — Signore,» gli dissi allora, «vi supplico perdonarmi la libertà che mi prendo di domandarvi d’onde nasca che voi non vi serviate della mano destra; l’avete forse malata?» Mandò egli, invece di rispondere, un profondo sospiro, e cavato il braccio destro, che aveva fin allora tenuto nascosto sotto la veste, mi mostrò di aver tronca la mano, del che rimasi estremamente stupito. — Foste di certo offeso,» disse, «al vedermi mangiare colla sinistra; ma giudicate voi se posso fare altrimenti. — Potrei io chiedervi,» ripigliai, «per qual disgrazia avete perduta la destra?» Versò lagrime a tale richiesta; quindi asciugatele, mi narrò la sua storia come sono per raccontarvela:
«— Dovete sapere,» disse, «che son nativo di Bagdad, figlio di un padre ricco e de’ più ragguardevoli della città pel suo grado e la qualità sua. Cominciava appena ad entrare nel mondo, allorchè, frequentando persone, le quali, avendo viaggiato, dicevano maraviglie dell’Egitto, e specialmente del Gran Cairo, rimasi colpito de’ loro discorsi, e mi venne voglia di farvi un viaggio; ma mio padre viveva ancora, e non me lo avrebbe certo concesso. Morì infine, e lasciatomi così padrone delle mie azioni, risolsi di recarmi al Cairo: impiegata una grossa somma di denaro in parecchie sorta di stoffe di Bagdad e di Mussul, mi posi in cammino.
«Giunto al Cairo, andai a smontare al caravanserraglio che si chiama il khan di Mesrur; vi presi alloggio con un magazzino, nel quale feci riporre le balle meco condotte sui camelli. Quindi, mi ritirai nella mia camera per riposare e rimettermi dalle fatiche del viaggio, mentre la mia gente, cui aveva dato denaro, andò a comprar viveri per far la cucina. Poscia mi recai a vedere il castello, alcune moschee, le piazze pubbliche ed altri siti degni di curiosità.
«Il giorno dopo mi vestii decentemente ed avendo fatto cavare da varie mie balle alcune preziose e bellissime stoffe, nell’intenzione di portarle ad un bezestin (3), per vedere cosa me ne offrissero, caricatine alcuni schiavi, mi recai al bezestin dei Circassi. Subito mi vidi circondato da una turba di sensali e di banditori stati avvertiti della mia venuta. Divisi fra diversi gridatori varie mostre di stoffa, ed essi andarono per tutto il bezestin a farle vedere; ma i mercadanti tutti ne offrirono molto meno di quello che mi costavano di prima compera e spese di trasporto. Ne fui irritato, e come ne dimostrava risentimento coi banditori, mi dissero essi: — Se volete darci fede, v’insegneremo noi il mezzo di non perdere sulle vostre merci...»
A questo passo, Scheherazade si fermò, vedendo spuntare il giorno; la notte appresso ripigliò il discorso in questo cenere:
NOTTE CXXXII
— Il mercadante cristiano, parlando sempre al sultano di Casgar:
«I sensali ed i gridatori,» mi disse il giovine, «avendo promesso d’insegnarmi il modo di non perdere sulle merci, chiesi loro cosa bisognasse fare a tal uopo. — Distribuirle fra diversi mercadanti,» mi risposero, «acciò le vendano al minuto, e due volte la settimana, il lunedì ed il giovedì, andrete a riscuotere il denaro che ne avranno ricavato. Così, invece di perdere, guadagnerete, ed i mercadanti ne avranno anch’essi qualche utile. Frattanto avrete la libertà di divertirvi, e passeggiare per la città e sul Nilo. —
«Seguii il loro consiglio, li condussi al magazzino d’onde trassi tutte le mercanzie, e tornato al bezestin, le distribuii a vari mercadanti, che essi mi avevano indicato come i più solvibili, ed i quali mi fecero una ricevuta in buona regola, firmata da testimoni, sotto condizione che nulla ne esigerei pel primo mese.
«Così disposte le mie faccende; non mi occupai più d’altro che di piaceri. Strinsi amicizia con varie persone della mia età circa, che prendevansi cura di farmi passar bene il tempo; scorso il primo mese, cominciai ad andare da’ miei mercadanti due volte la settimana; accompagnato da un pubblico officiale, per esaminarne i libri di vendita, e da un cambiavalute per verificare la bontà ed il valore del danaro che mi pagavano; talchè i giorni di riscossione, quando tornava al khan di Mesrur, ov’era alloggiato, portava meco una buona somma: ma ciò non m’impediva che gli altri giorni della settimana non andassi a passar la mattina ora da un mercante, ora dall’altro, divertendomi a conversar seco loro, e vedere quanto accadeva nel bezestin.
«Un lunedì, che stava seduto nella bottega d’uno di quei mercanti, di nome Bedreddin, una dama d’alta condizione, com’era agevole conoscere dal portamento, dal suo vestiario e da una schiava che la seguiva, entrò in bottega, e mi sedè vicino. Quell’esteriore, unito ad una grazia naturale, che traspariva da tutti i di lei moti, mi prevenne in favor suo, e m’invogliò di meglio conoscerla. Io non so se ella si accorgesse che mi compiaceva a rimirarla, e se la mia attenzione non le spiacesse; ma alzò il fitto velo che le scendeva sul volto al di sopra della mussolina, ond’era celato, lasciandomi vedere due grandi occhi neri, dai quali rimasi ferito. Infine ella finì d’innamorarmi di lei col suono gratissimo della sua voce, e co’ suoi leggiadri modi, allorchè, salutando il mercante, gli chiese nuove della sua salute dal tempo che non lo vedeva.
«Conversato alcun tempo con lui di cose indifferenti, gli disse che cercava una certa stoffa col fondo d’oro; ch’era venuta alla sua bottega, avendola in concetto della più assortita d’ogni altra del bezestin, e che se ne aveva, farebbele gran piacere di mostrargliela. Bedreddin gliene fece vedere parecchie pezze, una delle quali essendole piaciuta, ed avendone domandato il prezzo, egli gliela lasciò per mille e cento dramme d’argento. — Acconsento a darvi questa somma,» gli diss’ella; «non ho con me il denaro, ma spero vorrete farmi credito fino a domani, e permettermi intanto di portar via la stoffa: non mancherò di mandarvi domani le mille e cento dramme delle quali siamo convenuti. — Signora,» le rispose Bedreddin, «vi farei con tutto il piacere credenza, e vi lascerei portar via la roba, se questa fosse mia; ma dessa invece appartiene al buon giovane che qui vedete, ed oggi appunto è il giorno che gliene debbo pagare il valore. — Oh! da che dipende,» ripigliò la dama assai maravigliata, «che voi mi trattiate a questo modo? Non son solita venire nella vostra bottega? E tutte le volte che comprai stoffe, e che voi mi concedeste di lasciarmele portar via senza pagar subito, ho io forse mancato di mandarvi il giorno dopo il denaro?» Il mercante ne convenne. — È vero, signora,» soggiunse, «ma oggi ho bisogno di denaro. — Ebbene, ecco la stoffa,» gli diss’ella gettandogliela. «Che Dio confonda voi e quanti mercanti vi sono! Siete fatti tutti sul medesimo stampo: non avete riguardo a veruno.» Sì dicendo, alzossi in furia, ed uscì irritatissima contro Bedreddin.»
Qui Scheherazade, vedendo comparire il giorno, tralasciò di parlare, e la notte seguente ricominciò di tal guisa:
NOTTE CXXXIII
— Il mercadante cristiano, proseguendo la sua storia: «Quando vidi,» mi disse il giovane, «che la signora se ne andava, sentii che il mio cuore s’ interessava per lei; richiamatala adunque: — Signora,» le dissi, «fatemi la grazia di tornar indietro; forse troverò il modo di contentarvi entrambi.» Tornò essa, dicendomi che lo faceva per amor mio. — Signor Bedreddin,» dissi allora al mercante, «quanto dite di voler vendere questa stoffa che mi appartiene? — Mille e cento dramme d’argento,» rispose; «non posso lasciarla a meno. — Consegnatela dunque a questa dama,» ripigliai io, «e ch’essa se la porti a casa. Vi do cento dramme di guadagno, e vi farò un biglietto della somma, da prelevarsi sulle altre merci che tenete.» In fatti, feci il biglietto, e firmatolo, lo consegnai a Bedreddin; quindi, presentando la stoffa alla dama, le dissi: — Potete portarla via, o signora; quanto al denaro, me lo manderete domani od un altro giorno, oppure vi fo un dono della stoffa, se v’aggrada. — Io però non la intendo così,» ripigliò essa; «voi mi trattate in maniera sì cortese ed obbligante, che sarei indegna di comparire davanti agli uomini, se non me ne dimostrassi grata. Che Iddio, per ricompensarvene, aumenti i vostri beni, vi faccia vivere molto tempo dopo di me, vi apra alla morte la porta de’ cieli, e tutta la città pubblichi la generosità vostra! —
«Tali parole mi resero ardito. — Signora,» le dissi, «in premio d’avervi fatto tal piacere, lasciatemi vedere il vostro volto: così ne sarò pagato ad usura.» Allora, ella si volse verso di me, alzò la mussolina che le copriva la faccia, e presentò a’ miei occhi una beltà maravigliosa; ne fui tanto colpito, che non seppi esprimerle ciò che ne pensava. Non mi sarei mai stancato dal rimirarla, ma essa si coprì tosto il viso pel timore d’esser veduta, ed abbassato il fitto velo, prese la pezza di stoffa e si allontanò dalla bottega, ove mi lasciò in uno stato ben diverso da quello in cui era nell’entrarvi. Rimasi a lungo in un turbamento e disordine stranissimo, e prima di lasciare il mercatante, gli domandai se conosceva la dama. — Sì,» mi rispose; «e la figlia d’un emiro, il quale, morendo, le lasciò beni immensi. —
«Di ritorno al khan di Mesrur, la mia gente mi servì da cena; ma non potei mangiare, nè neppure chiuder occhio per tutta la notte, la quale mi parve la più lunga della mia vita. Appena fu giorno, mi alzai nella speranza di rivedere l’oggetto che turbava il mio riposo, e col disegno di piacergli, abbigliatomi più bene del giorno precedente, tornai alla bottega di Bedreddin....»
— Ma, sire,» disse Scheherazade, «l’aurora che veggo sorgere m’impedisce di continuare.» Ciò detto, tacque; e la notte seguente ripigliò in questi termini la narrazione:
NOTTE CXXXIV
— Sire, il giovane di Bagdad, raccontando le sue avventure al mercadante cristiano, così continuò: «Era poco tempo che mi trovava nella bottega di Bedreddin, quando vidi venire la dama, seguita dalla schiava, e più magnificamente venuta del giorno precedente. Non badò al mercante, e dirigendosi a me solo: — Signore,» mi disse, «voi vedete che sono esatta a mantenere la mia parola di ieri. Vengo espressamente onde portarvi la somma, di cui vi compiaceste rispondere per me senza conoscermi, per un tratto di generosità che non dimenticherò mai: — Signora,» le risposi, «non c’era bisogno di affrettarvi tanto: io stava senza inquietudine pel mio denaro, e mi spiace della pena che vi siete presa. — Non era giusto,» essa ripigliò, «che abusassi della vostra gentilezza.» E sì dicendo, mi pose in mano il denaro, e sedè vicino a me.
«Allora, approfittando dell’occasione che aveva di conversar seco, le parlai dell’amore che sentiva per lei; ma essa si alzò e lasciommi bruscamente, quasi risentendosi molto offesa della mia dichiarazione. La seguii cogli occhi fin ch’io la potei vedere, e perdutala di vista, m’accommiatai dal mercante, uscendo dal bezestin senza sapere ove andassi. Stava pensando a quell’avventura, quando sentii tirarmi per l’abito: mi volsi subito per vedere chi fosse, e con piacere riconobbi la schiava della dama, onde aveva occupato lo spirito. — La mia padrona,» mi disse, «che è quella giovane, alla quale testè parlaste nella bottega d’un mercadante, vorrebbe dirvi una parola; se non vi dispiace, fatemi il favore di seguirmi.» Seguitala, trovai in fatti la sua padrona che mi aspettava nella bottega d’un cambiavalute.
«Mi fe’ sedere vicino a lei, e prendendo la parola: — Mio caro signore,» disse, «non vi faccia maraviglia se vi ho lasciato, un po’ bruscamente: non ho stimato opportuno di rispondere favorevolmente, davanti a quel mercante, alla dichiarazione che mi faceste dei sentimenti, che v’ispirai. Ma ben lungi dall’offendermene, confesso che mi compiaceva all’udirvi, e stimavami assai felice d’aver per amante un uomo del vostro merito. Io non so qual impressione la mia vista abbia potuto fare su di voi; ma quanto a me, posso assicurarvi che, vedendovi, mi sono sentita molta inclinazione per voi. Fin da ieri non ho fatto che pensare alle cose che mi diceste, e la mia premura di venirvi a cercare sì di buon’ora, deve provarvi che non mi dispiacete. — Signora,» ripresi allora io, trasportato d’amore e di gioia, «nulla m’è più grato di quanto avete la bontà di dirmi. Non si potrebbe amare con maggior passione di quello ch’io vi ami dal felice momento, in cui appariste a’ miei occhi, i quali rimasero abbagliati da tante attrattive, ed il mio cuore si arrese senza resistenza. — Non perdiamo il tempo in vane ciance,» interruppe essa; «non dubito della vostra sincerità, e sarete in breve convinto della mia. Volete farmi l’onore di venire a casa, oppure vorreste ch’io venissi da voi? — Signora,» le risposi, «io sono uno straniero alloggiato in un khan, che non è certo luogo atto a ricevere una dama del grado e del merito vostro...»
Stava Scheherazade per proseguire, ma fu costretta ad interrompere il discorso, essendo già comparso il giorno. Alla domane, continuò in questa guisa, facendo sempre parlare il giovane di Bagdad:
NOTTE CXXXV
— «È meglio, signora,» proseguì egli, «che abbiate la bontà d’insegnarmi la vostra dimora; avrò l’onore di venir a trovarvi in casa vostra.» La dama acconsentì. — Sarà,» disse, «per venerdì dopo domani; venite quel giorno, dopo la preghiera del mezzodì. Io abito nella via della Divozione. Cercate la casa di Abu Schamma, soprannominato Bercur, già capo degli emiri: mi troverete colà.» Così intesi, ci separammo, ed io passai il giorno dopo in grandissima impazienza.
«Il venerdì, alzatomi di buon mattino, indossai il più bell’abito che avessi, con una borsa ove posi cinquanta monete d’oro; e, salito sur un asino da me noleggiato fin dal giorno precedente, partii coll’uomo che me lo aveva ceduto. Giunti nella contrada della Divozione, dissi al padrone dell’asino di domandare ove fosse la casa ch’io cercava; gliela insegnarono, ed ei mi condusse colà. Smontato alla porta, lo pagai bene e lo congedai, raccomandandogli di notare attentamente la casa, in cui mi lasciava, e di non mancare dal venirmi a prendere la mattina appresso, per ricondurmi al khan di Mesrur.
«Bussai alla porta, e tosto due piccole schiave, candide come la neve e ben vestite, vennero ad aprire. — Entrate,» mi dissero; «la padrona vi aspetta con impazienza. Sono due giorni che non cessa dal parlare di voi.» Entrai nel cortile, e vidi un gran padiglione eretto su sette gradini, contornato da un cancello che lo separava da un giardino di mirabile bellezza. Oltre alle piante, che servivano per abbellimento e per far sol ombra, ve n’era un’infinità d’altre cariche d’ogni sorta di frutti. Mi dilettò il canto di molti uccelli, che mescolavano i loro gorgheggi al mormorio d’uno zampillo d’acqua di prodigiosa altezza, che vedevasi sorgere in mezzo ad un suolo smaltato di fiori. Era inoltre quella fontana bellissima a vedersi: quattro dragoni dorati stavano agli angoli della vasca quadrata, versando acqua in abbondanza, ma più chiara del cristallo. Cotesto luogo di delizie mi fe’ concepire un’alta idea della mia conquista. Le due picciole schiave mi fecero entrare in una sala magnificamente addobbata, e mentre una corse ad avvertire del mio arrivo la padrona, l’altra rimase con me, facendomi notare tutte le bellezze della sala...»
Terminando queste ultime parole, Scheherazade, vedendo l’aurora, cessò di parlare; e la notte seguente essa ripigliò in codesti sensi:
NOTTE CXXXVI
— Sire, il mercadante cristiano, continuando a parlare al sultano di Casgar, proseguì nel modo seguente:
«Non aspettai molto nella sala,» mi disse il giovane; «la dama che amava giunse in breve ornata di perle e diamanti, ma più brillante per lo splendore de’ suoi begli occhi che per quello de’ gioielli. La sua vita, non più celata dall’abito di città, mi parve la più snella e pieghevole del mondo. Non vi parlerò della gioia d’entrambi al rivederci, essendo cosa che non potrei se non debolmente esprimere. Vi dirò solo che, dopo i primi complimenti, sedendo ambedue sur un sofà, discorremmo con tutta l’immaginabile soddisfazione. Ci furono poscia ammannite le più dilicate e squisite vivande; e messici a tavola, dopo il pranzo ricominciammo il colloquio fino a notte. Allora ci si portarono vari fiaschi di buon vino e frutta per eccitare la sete, e bevemmo al suono degli stromenti, che le schiave accompagnavano colle voci. La padrona di casa cantò anch’ella, e finì colle sue canzoni d’intenerirmi e rendermi il più appassionato degli amanti. Trascorsi in fine la notte a gustare ogni sorta di piaceri.
«La mattina seguente, posta destramente sotto il capezzale del suo letto la borsa colle cinquanta pezze d’oro da me portate, dissi addio alla dama, la quale mi chiese quando ci saremmo riveduti. — Signora,» le risposi, «vi prometto di tornare stasera.» Parve contenta della mia risposta, mi condusse fino alla porta, e separandoci, mi scongiurò di mantener la promessa.
«Lo stesso uomo che mi aveva condotto aspettavami col suo asino, salito sul quale, tornai al khan di Mesrur, e congedato l’uomo, gli dissi che non lo pagava, acciò venisse a riprendermi il dopopranzo all’ora che gl’indicai.
«Di ritorno all’alloggio, mia prima cura fu di far comprare un buon agnello e varie sorta di dolci, che mandai per mezzo d’un facchino alla dama. Mi occupai quindi d’affari, finchè giunto il padrone dell’asino, partii allora con lui, recandomi dalla dama, la quale mi accolse con giubilo non minore del giorno precedente, e mi trattò con egual magnificenza.
«Accommiatandomi la mattina dopo, le lasciai un’altra borsa con cinquanta pezze d’oro, e tornai al khan...»
Qui Scheherazade, vedendo l’alba, ne avvertì il sultano dell’Indie, il quale si alzò senza dir nulla; e sulla fine della notte susseguente, ripigliò essa così la continuazione della cominciata storia:
NOTTE CXXXVII
— Il mercadante cristiano, parlando sempre al sultano di Casgar: «Il giovane di Bagdad,» disse, «proseguì la sua storia in questi termini: — Continuai a corteggiare la dama tutti i giorni, e lasciarle ogni volta una borsa con cinquanta pezze d’oro; e così durò finchè i mercadanti incaricati di vendere le mie merci, e ch’io andava a visitare regolarmente due volte la settimana, non mi dovettero più nulla. Allora mi trovai senza danaro e senza speranza di averne.
«In quel terribile stato, ed in procinto d’abbandonarmi alla disperazione, uscii dal khan senza sapere cosa mi facessi, ed andai dalla parte del castello, ov’era molta gente per assistere ad uno spettacolo che dava il sultano d’Egitto. Quando fui giunto al luogo dove stava tutta quella moltitudine, m’introdussi nella folla, e per caso mi trovai vicino ad un cavaliere ben equipaggiato e vestito con isfarzo, il quale teneva all’arcione un sacco semiaperto, da cui usciva un cordoncino di seta verde. Mettendo la mano sul sacco, giudicai che il cordone doveva essere quello d’una borsa. Mentre faceva tale giudizio, passò dall’altra parte del cavaliere un facchino carico di legna, e sì dappresso, che il cavaliere fu obbligato a volgersi verso di lui per impedire che colle legne non lo urtasse e lacerassegli il vestito. In quel momento il demonio mi tentò: presi con una mano il cordone, ed aiutandomi coll’altra ad allargare il sacco, cavai la borsa, senza che alcuno se ne accorgesse; e sentendola pesante, non dubitai fosse piena d’oro o d’argento.
«Passato il facchino, il cavaliere, che probabilmente concepì qualche sospetto di quanto io aveva fatto mentr’egli stava colla faccia rivolta dall’altra parte, mise subito la mano nel sacco, e non trovandovi la borsa, mi diè un tal colpo colla sua mazza d’arme, che mi rovesciò al suolo. Tutti gli astanti, testimoni di siffatta violenza, ne furono sdegnati, ed alcuni anzi afferrarono la briglia del cavallo per arrestare il cavaliere, e chiedergli per qual motivo mi avesse percosso, e perchè facevasi lecito di maltrattar così un musulmano. — Che cosa c’entrate voi?» rispose egli con aspro accento. «Non l’ho fatto senza ragione; è un ladro.» A tali parole, mi rialzai; ed al mio aspetto, prendendo ciascuno le mie parti, gridò ch’era un mentitore, ed essere impossibile che un giovane par mio avesse commesso la mala azione di cui m’incolpava. Infine, sostenevano ch’io era innocente; ma mentre trattenevano il cavallo per favorire la mia fuga, volle sventura che passasse di là il luogotenente di polizia, seguito dalle sue guardie, che vedendo tanta gente raccolta intorno a me ed al cavaliere, accostatosi, domandò cosa fosse accaduto. Non vi fu alcuno il quale non accusasse il cavaliere di avermi ingiustamente maltrattato, col pretesto che gli avessi rubato.
«Non si accontentò il luogotenente di polizia di quanto udiva; ma voltosi al cavaliere, gli domandò se non sospettasse qualcun altro d’averlo derubato. Il cavaliere rispose di no, e dettegli le sue ragioni onde credere di non ingannarsi ne’ suoi sospetti, il luogotenente di polizia, ascoltatolo, ordinò alle guardie di arrestarmi e frugarmi addosso; fu eseguito tosto il comando: ed uno di essi, toltami la borsa, la mostrò pubblicamente. Non potei reggere a tanta vergogna, e caddi svenuto. Il luogotenente di polizia si fece portare la borsa....»
— Ma sire, ecco il giorno,» disse Scheherazade interrompendosi; «se vostra maestà si degna lasciarmi in vita ancora fino a domani, intenderà il seguito di questa storia.» Schahriar, che non aveva altro pensiero, si alzò senza risponderle, ed andò pe’ suoi doveri.
NOTTE CXXXVIII
Sul finire della notte seguente, la sultana volse così la parola a Schahriar: — Sire, il giovane di Bagdad, continuando la sua storia:
«Allorchè il luogotenente di polizia,» diss’egli, «ebbe in mano la borsa, chiese al cavaliere se fosse sua, e quanto danaro contenesse. Il cavaliere la riconobbe per quella ch’eragli stata rubata, ed assicurò esservi dentro venti zecchini. L’aprì il giudice; e trovativi in fatti i venti zecchini, gliela restituì. Chiamatomi allora subito davanti a lui: — Giovane,» mi disse, «confessate la verità; foste voi a prendere la borsa di quel cavaliere? Non attendete si faccia uso dei tormenti per farvelo palesare.» Chinai gli occhi, e dissi tra me: — Se nego il fatto, la borsa che mi fu trovata indosso mi darà la mentita.» Talchè, per evitare un doppio castigo, alzata la testa, confessai d’essere stato io. Appena ebbi fatta tal confessione, il luogotenente di polizia, chiamati alcuni testimoni, comandò mi venisse tagliata la mano: sentenza che fu sul momento eseguita, eccitando così la compassione di tutti gli spettatori; notai anzi sul volto del cavaliere, ch’egli non era meno commosso degli altri. Voleva il luogotenente di polizia farmi tagliare anche un piede, ma supplicai il cavaliere ad interceder grazia per me; ed infatti, richiestala, l’ottenne.
«Allorchè il giudice fu partito, il cavaliere mi si accostò, e disse presentandomi la borsa: — Ben veggo essere stata la necessità, la quale vi mosse a fare azione sì vergognosa ed indegna d’un giovane pari vostro; ma prendete, eccovi questa borsa fatale; ve la dono, e sono afflittissimo della disgrazia che v’è accaduta.» Sì dicendo, mi lasciò. Siccome io era debolissimo a cagione del sangue perduto, alcune buone persone del quartiere ebbero la carità di farmi entrare in casa loro, e darmi da bere un bicchier di vino. Mi medicarono pure il braccio, ed avvolsero la mano recisa in un pannolino, che m’attaccai alla cintura.
«Quando pur fossi tornato al khan di Mesrur in quel triste stato, non vi avrei trovati i soccorsi dei quali aveva bisogno: ora anche arrischiar molto l’andarmi a presentare alla giovane dama. — Non vorrà forse, più vedermi,» dissi fra me, «quando saprà la mia infamia.» Non tralasciai però d’appigliarmi a tal partito; e perchè la gente che mi seguiva si stancasse d’accompagnarmi, cacciatomi per diverse remote contrade, mi recai finalmente a casa della dama, ove giunsi sì debole e sfinito, che mi buttai sul sofà, coprendo il braccio destro colla veste, poichè mi guardai bene dal farlo vedere.
«Frattanto la dama, avvertita del mio arrivo e del male che soffriva, accorse sollecita, e vedendomi pallido e stravolto: — Anima mia,» disse, «che cosa mai avete? — Signora,» le risposi dissimulando, «son tormentato da un grande mal di capo.» Ne parve afflittissima — Sedete,» ripigliò (essendomi alzato per riceverla), «ditemi come ne foste preso? Stavate tanto bene l’ultima volta ch’ebbi il piacere di vedervi! C’è sicuro qualche altra cosa che mi tenete nascosta; ditemi che è stato.» Siccome stava in silenzio, e che, invece di rispondere, mi cadevano le lagrime dagli occhi: «Non comprendo,» soggiunse, «cosa vi possa affliggere; ve ne avrei dato, senza avvedermene, qualche motivo? O venite forse qui espressamente per annunciarmi che non mi amate più? — Non è questo, signora,» risposi sospirando; «e sì ingiusto sospetto accresce il mio male. —
«Io non poteva risolvermi a svelargliene la vera cagione. Venuta intanto la sera, fu servita la cena, ed essa mi pregò di mangiare; ma non potendomi servire che della mano sinistra, la supplicai di dispensarmene, adducendo per iscusa di non aver appetito. — Vi verrà,» mi disse, «quando m’avrete palesato ciò che mi nascondete con tanta ostinazione. La vostra ripugnanza da altro non deriva di certo se non dalla pena che avete a determinarvici. — Aimè! signora,» ripigliai, «bisognerà bene che mi ci risolva.» Ebbi appena pronunciate queste parole, ch’ella mi versò da bere, e presentandomi la tazza: — Prendete,» mi disse, «e bevete; questo v’intenderà coraggio» Allungai dunque la mano sinistra e presi la tazza...»
A tali parole, Scheherazade, vedendo il giorno, cessò dal racconto; ma la notte seguente proseguì in cotal guisa:
NOTTE CXXXIX
— «Quand’ebbi la tazza in mano,» disse il giovine, «raddoppiai il pianto e mandai nuovi gemiti. — Che cosa avete mai da sospirare e piangere sì amaramente?» mi disse allora la dama; «e perchè, invece della destra, prendete la tazza colla sinistra? — Ah! signora,» le risposi, «scusatemi, ve ne scongiuro; ho sulla man destra un tumore. — Mostratemi questo tumore,» ripigliò; «lo pungeremo.» Me ne scusai dicendo non esser desso ancora in istato di sopportare quell’operazione, e votai tutta la tazza che era grandissima; i vapori del vino, la stanchezza e l’abbattimento, nel quale mi trovava, m’ebbero in breve assopito, e dormii d’un sonno profondo, che durò fino all’indomani.
«Nel frattempo, volendo la dama sapere che cosa avessi alla mano destra, alzò l’abito che la nascondeva, e vide, con tutto lo stupore cui potete immaginare, ch’era tagliata, e l’aveva meco portata in un pannolino. Comprese tosto senza fatica perchè avessi tanto resistito alle di lei pressanti istanze, e passò la notte a dolersi della mia disgrazia, non dubitando non mi fosse accaduta per amor suo.
«Allo svegliarmi, lessi sulla di lei fronte il vivo dolore ond’era oppressa; ma pure, per non farmi dispiacere, non mi parlò di cosa alcuna. Mi fe’ servire un consumato di pollo, preparato per suo ordine, e mi fece mangiar e bere, per darmi, diceva, le forze di cui aveva bisogno. Volli poscia accommiatarmi, ma ella, trattenendomi per la veste: — Non soffrirò,» disse, «che usciate di qui. Benchè non me ne diceste nulla, son persuasa di esser io la cagione della vostra disgrazia. Il dolore che ne risento non mi lascerà vivere a lungo; ma prima di morire, è duopo eseguisca un disegno che medito in vostro favore.» Ciò dicendo, chiamati un officiale di giustizia e testimoni, mi fece estendere una donazione di tutti i suoi beni. Congedate poi tutte le persone di servizio e soddisfattele onorevolmente delle loro fatiche aprì un forziere ove trovavansi tutte le borse ch’io le aveva donate fin dal principio dei nostri amori. — Sono tutte intiere,» mi disse; «non ne ho toccato neppur una: prendete, ecco la chiave dello scrigno; voi ne siete il padrone.» La ringraziai della sua generosità e bontà. — Nulla conto,» ripigliò, «quanto feci testè per voi, e non sarò contenta se anche non muoio per dimostrarvi quanto vi amo.» La scongiurai per tutto ciò che l’amore ha di più potente, di abbandonare sì funesta risoluzione; ma non mi riuscì dissuadernela, ed il dolore di vedermi monco, le cagionò una malattia di cinque o sei settimane, della quale morì.
«Pianta quanto doveva la di lei morte, andai al possesso di tutti i suoi beni, ch’essa mi aveva donati; il sesamo che vi prendeste l’incomodo di vendere per me, ne faceva parte...»
Voleva Scheherazade continuare, ma il giorno che sorgeva ne la trattenne. La notte seguente ripigliò così il filo del suo discorso:
NOTTE CXL
— Il giovine di Bagdad finì di narrare al mercadante cristiano la sua storia nel seguente modo: «Il mio racconto,» proseguì egli, «deve scusarmi con voi per aver mangiato colla mano sinistra; vi sono obbligatissimo del disturbo che prendeste per me. Non posso ricompensarvi abbastanza della vostra fedeltà, e siccome ho, grazie a Dio, molti averi, benchè assai ne abbia spesi, vi pregò ad accettare il dono che vi faccio della somma che mi dovete. Ho inoltre una proposta da farvi. Non potendo più oltre fermarmi al Cairo, dopo l’affare che vi raccontai, ho risoluto di partire per non tornarvi mai più. Se volete tenermi compagnia, negozieremo insieme, ripartendo egualmente il guadagno. —
«Quando il giovine di Bagdad ebbe finita la sua storia,» disse il mercadante cristiano, «lo ringraziai per quanto seppi del di lui regalo, e circa alla sua proposta di viaggiare seco lui, gli dissi di accettarla volontieri, assicurandolo che i suoi interessi mi sarebbero sempre stati cari quanto i miei propri.
«Stabilito il giorno della nostra partenza, giunto che fu, ci mettemmo in cammino. Passati per la Siria e la Mesopotamia, ed attraversata tutta la Persia, dopo esserci fermati in parecchie città, siamo finalmente venuti, o Sire, alla vostra capitale. Scorso qualche tempo, avendomi il giovine dichiarato che pensava ripassare nella Persia per istabilirvisi, regolati i nostri conti, ci separammo soddisfattissimi l’un dell’altro. Partì egli, ed io rimasi, o sire, in questa città, dove ho l’onore di essere al servizio di vostra maestà. Ecco la storia che aveva a raccontarvi; or non la trovate voi più sorprendente di quella del gobbo? —
«Il sultano di Casgar montò sulle furie contro il cristiano. — Sei ben temerario,» gli disse, «di osar di farmi il racconto d’una storia sì poco degna della mia attenzione, e paragonarla a quella del gobbo. Puoi tu lusingarti di persuadermi, che le insipide avventure d’uno scapestrato giovine, siano più mirabili di quelle del mio buffone? Ora vi farò impiccare tutti e quattro per vendicarne la morte. —
«Spaventato a tali parole, il provveditore si gettò ai piedi del sultano, dicendo: — Sire, supplica vostra maestà a sospendere la giusta sua collera, e voler ascoltarmi, e farne grazia a tutti e quattro, se la storia che sto per raccontarle sarà più bella di quella del gobbo. — Ti concedo ciò che domandi,» rispose il sultano; «parla.» Il provveditore allora così cominciò:
Note
- ↑ Cofto o Copto, nome che si dà a’ cristiani originari d’Egitto, e che sono della setta de’ Giacobiti e degli Eutichiani.
- ↑ 90 franchi. La dramma, moneta d’argento dell’antica Grecia, pesava l’ottava parte dell’oncia, e valeva 18 soldi di franco.
- ↑ Luogo pubblico ove si vendono le stoffe di seta ed altre merci preziose.