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«Allorchè il luogotenente di polizia,» diss’egli, «ebbe in mano la borsa, chiese al cavaliere se fosse sua, e quanto danaro contenesse. Il cavaliere la riconobbe per quella ch’eragli stata rubata, ed assicurò esservi dentro venti zecchini. L’aprì il giudice; e trovativi in fatti i venti zecchini, gliela restituì. Chiamatomi allora subito davanti a lui: — Giovane,» mi disse, «confessate la verità; foste voi a prendere la borsa di quel cavaliere? Non attendete si faccia uso dei tormenti per farvelo palesare.» Chinai gli occhi, e dissi tra me: — Se nego il fatto, la borsa che mi fu trovata indosso mi darà la mentita.» Talchè, per evitare un doppio castigo, alzata la testa, confessai d’essere stato io. Appena ebbi fatta tal confessione, il luogotenente di polizia, chiamati alcuni testimoni, comandò mi venisse tagliata la mano: sentenza che fu sul momento eseguita, eccitando così la compassione di tutti gli spettatori; notai anzi sul volto del cavaliere, ch’egli non era meno commosso degli altri. Voleva il luogotenente di polizia farmi tagliare anche un piede, ma supplicai il cavaliere ad interceder grazia per me; ed infatti, richiestala, l’ottenne.

«Allorchè il giudice fu partito, il cavaliere mi si accostò, e disse presentandomi la borsa: — Ben veggo essere stata la necessità, la quale vi mosse a fare azione sì vergognosa ed indegna d’un giovane pari vostro; ma prendete, eccovi questa borsa fatale; ve la dono, e sono afflittissimo della disgrazia che v’è accaduta.» Sì dicendo, mi lasciò. Siccome io era debolissimo a cagione del sangue perduto, alcune buone persone del quartiere ebbero la carità di farmi entrare in casa loro, e darmi da bere un bicchier di vino. Mi medicarono pure il braccio, ed avvolsero la mano recisa in un pannolino, che m’attaccai alla cintura.

«Quando pur fossi tornato al khan di Mesrur in