Le Mille ed una Notti/Storia narrata dal Provveditore del sultano di Casgar

Storia narrata dal Provveditore del sultano di Casgar

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Storia narrata dal Provveditore del sultano di Casgar
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STORIA

NARRATA DAL PROVVEDITORE DEL SULTANO DI CASGAR.


«Sire, una persona ragguardevole m’invitò ieri alle nozze di sua figliuola. Non mancai di recarmi a casa sua verso sera, all’ora indicata, e mi trovai in mezzo ad un’assemblea di dottori, di ufficiali di giustizia ed altre persone più distinte di questa città. Dopo la cerimonia, fu ammannito un magnifico banchetto; ci ponemmo a mensa, e ciascuno mangiò quello che meglio gli parve. Eravi, tra l’altre cose; un antipasto accomodato con aglio, assai eccellente, [p. 44 modifica]e da tutti ricercato; ma notando che un comitato non affrettavasi a mangiarne, benchè gli fosse davanti, lo invitammo ad allungar la mano al piatto ed imitarci. Ci scongiurò egli di non sollecitarlo a tal proposito. — Mi guarderò bene,» disse, «di toccare un guazzetto, in cui ci sia aglio; non dimenticherò mai quanto mi costò per averne una volta gustato.» Lo pregammo di raccontarci la causa della sua avversione per l’aglio. Ma senza dargli tempo a rispondere: — Così dunque,» gli disse il padrone di casa, «voi fate onore alla mia tavola? Quel manicaretto è delizioso, e vi prego di non dispensarvi dal mangiarne: bisogna che mi facciate questa grazia al par degli altri. — Signore,» rispose il convitato, ch’era un negoziante di Bagdad, «non crediate ch’io lo faccia per una falsa dilicatezza; vi obbedisco se assolutamente lo esigete, ma colla condizione che dopo averne mangiato, mi laverò, con vostra licenza, quaranta volte le mani col kali (1), quaranta altre colla cenere della medesima pianta, ed altrettante col sapone. Non vi dispiacerà ch’io faccia così per non contravvenire al voto da me fatto di non mangiar mai ragù coll’aglio se non a questa condizione...»

Terminando questi detti, Scheherazade, veduto comparire il giorno, tacque; e Schahriar si alzò curiosissimo di sapere perchè avesse quei mercadante giurato di lavarsi centoventi volte, dopo mangiati intingoli coll’aglio. La sultana ne accontentò la curiosità in questa guisa sul finire della notte seguente:

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NOTTE CXLI


— Il provveditore, parlando al sultano di Casgar: «Il padrone di casa,» proseguì, «non volendo dispensare il mercadante dal mangiare l’ intingolo coll’aglio, comandò ai servi di apparecchiare un bacino ed acqua con kali, un po’ di cenere di quella pianta e sapone, affinchè il giovane si lavasse a piacimento. Dato tal ordine, si rivolse a questi e gli disse: — Fate, dunque come noi e mangiate. Il kali, la sua cenere ed il sapone non vi mancheranno. —

«Il mercadante, mostrandosi quasi in collera della violenza che gli si faceva, stese la mano, ne pigliò un pezzetto cui si pose tremando in bocca, e lo mangiò con una ripugnanza, onde rimanemmo tutti stupiti. Ma con molta maggior sorpresa notammo aver egli quattro soli diti, senza il pollice; e niuno se n’era fin allora avveduto, benchè avesse già mangiato altri cibi. Il padrone di casa subito s’affrettò a dirgli: — Vi manca il pollice! Per qual disgrazia lo avete perduto? Sarà forse stato in qualche occasione, di cui favorirete il racconto alla brigata. — Signore,» rispose egli, «non solo mi manca il pollice alla mano destra, ma benanco alla sinistra.» Nello stesso tempo sporse la mano sinistra, e ci fe’ vedere la verità delle sue parole. — Nè qui è tutto,» soggiunse; «il pollice mi manca egualmente all’uno e all’altro piede, e potete credermelo. Sono storpio in tal guisa per un’avventura inaudita, che non ricuso di raccontarvi, se volete aver la pazienza di udirla; essa vi ecciterà non minor maraviglia che compassione. Ma permettetemi di lavarmi prima le mani.» Sì dicendo, si alzò di tavola, e lavatesi le mani cento venti volte, [p. 46 modifica]tornò al posto, narrandoci la sua storia in questi sensi:

«— Dovete sapere, signori, che sotto il regno del califfo Aaron-al-Raschid, mio padre viveva a Bagdad, ov’io son nato, e passava per uno de’ più ricchi mercadanti della città. Ma siccome era uomo dedito ai piaceri, che amava lo stravizzo e trascurava gli affari, invece di ereditare alla sua morte molte sostanze, ebbi duopo di tutta la economia immaginabile per soddisfare ai debiti da lui lasciati. Venni infine a capo di pagarli tutti, e d’allora cominciò la mia piccola fortuna a prendere ridente aspetto.

«Una manina, che apriva la bottega, vidi passare presso alla porta una dama montata sur una mula, accompagnata da un eunuco, e seguita da due schiave, la quale, fermatasi, mise piede a terra coll’aiuto dell’eunuco, che le prese la mano dicendole: — Signora, ve lo aveva pur detto che venivate troppo presto; guardate, non c’è ancora alcuno nel bezestin; se aveste voluto credermi, vi sareste risparmiato l’incomodo d’aspettare.» Guardò essa da tutte le parti, e vedendo in fatti non esservi altre botteghe aperte fuor della mia, si avvicinò salutandomi, e mi pregò permetterle di riposarvisi, mentre aspettava che giungessero gli altri mercadanti. Risposi al suo complimento come doveva...»

Qui Scheherazade, vedendo albeggiare, si fermò, e la notte seguente ripigliò di tal guisa:


NOTTE CXLII


— «Sedette la dama nella mia bottega, ed osservando non esservi alcuno fuor dell’eunuco e di me in tutto il bezestin, si scoprì il volto per prender aria. [p. 47 modifica]Non aveva mai veduto una sì bella signora; vederla ed amarla perdutamente fu l’affar d’un momento; tenni sempre gli occhi fitti in lei, e mi parve che dispiacevole non le riuscisse la mia attenzione, poichè mi diede tutto il tempo di mirarla a bell’agio, nè si coprì se non quando ve la costrinse il timore di essere scorta.

«Quando fu rimessa nello stato di prima, mi disse che cercava varie sorta di stoffe delle più magnifiche, che mi nominò, chiedendomi se ne avessi. — Ah! signora,» risposi, «io sono un giovine mercadante che comincio appena a stabilirmi, nè mi trovo abbastanza ricco per avere un negozio sì ben provvisto; sono assai mortificato di non aver nulla a presentarvi di ciò che v’ha fatto venire al bezestin; ma per risparmiarvi l’incomodo di andare girando di bottega in bottega, allorchè saranno giunti i mercadanti, andrò, con vostra licenza, a prender da loro quanto desiderate; me ne diranno il giusto prezzo, e senza andar più innanzi, farete qui le vostre compere.» Essa acconsentì, ed ebbi con lei un colloquio, che durò tanto più a lungo, in quanto che le dava ad intendere che i mercadanti, i quali avevano le stoffe da lei richieste, non erano ancor arrivati.

«Fui non meno dilettato del suo spirito che della bellezza del viso; ma infine bisognò privarsi del piacere della sua conversazione. Corsi a cercare le stoffe che desiderava e scelte ch’ebbe quelle che le piacquero, ne stabilimmo il prezzo a cinquemila dramme in monete d’argento. Ne feci quindi un pacco, che consegnai all’eunuco, il quale se lo pose sotto il braccio. Si alzò essa allora, e partì dopo aver preso commiato da me, che l’accompagnai cogli occhi fino alla porta del bezestin, non cessando dal guardarla finchè non la vidi risalire sulla mula.

«Appena fu scomparsa la dama, m’ accorsi [p. 48 modifica]avermi l’amore fatto commettere un grave fallo, avendomi turbato l’intelletto in modo da non accorgermi che colei se ne andava senza pagare, e senza che le avessi neppur domandato chi fosse ne dove abitasse. Riflettei pertanto esser io responsabile d’una grossa somma a parecchi mercadanti, i quali forse non avrebbero la pazienza di aspettare. Andai da loro a scusarmi, dicendo che conosceva la dama. Tornai infine a casa tanto innamorato quanto imbarazzato d’un sì grosso debito...»

Scheherazade, a questo passo, vedendo comparire il giorno, cessò di parlare. La notte seguente continuò in questi termini:


NOTTE CXLIII


— «Aveva pregato i miei creditori,» proseguì il mercadante, «a voler aspettare otto giorni pel pagamento, scorso il qual termine, non mancarono di pregarmi a soddisfarli. Li supplicai allora di concedermi la stessa dilazione: acconsentirono; ma all’indomani vidi giungere la dama, montata sulla mula, col medesimo seguito ed all’ora stessa della prima volta. Venne tosto da me e disse: — Vi ho fatto un poco aspettare, ma infine vi reco il danaro delle stoffe: che presi l’altro giorno; portatelo dal cambiavalute per vedere se è di buona lega, o se giusto è il conto.» L’eunuco, il quale aveva il danaro, venne con me dal cambiavalute, e la somma si trovò giusta e tutta di buon argento. Tornai, ed ebbi di nuovo la fortuna di conversare colla dama finchè furono aperte tutte le botteghe del bezestin. Benchè parlassimo [p. 49 modifica]di cose indifferenti, le trattava però essa con un certo brio, che le faceva parer nuove, e fecemi così vedere non essermi io ingannato quando, fin dal primo colloquio, aveva giudicato che possedesse molto spirito.

«Arrivati i mercadanti ed aperte le botteghe, mi affrettai subito a pagare quelli dai quali preso aveva le stoffe, e non ebbi difficoltà ad ottenere che me ne affidassero altre, cui la dama mi aveva demandate. Ne levai per mille pezze d’oro, e la dama portò via ancora la mercanzia senza pagarli, senza dirmi niente, nè farsi conoscere. Ciò che mi sorprendeva era, che essa non arrischiava nulla, e che io rimaneva senza cauzione, nè certezza alcuna di essere indennizzato, nel caso che più non la rivedessi. — Mi paga una somma considerevole,» diceva fra me, «ma mi lascia in credito di un’altra molto maggiore. Sarebb’ella mai un’ingannatrice, e sarebbe possibile che mi avesse adescato alla prima per meglio rovinarmi? I mercadanti non la conoscono, ed io dovrò pagar tutto.» Il mio amore non fu potente abbastanza per impedirmi di far su ciò amare riflessioni; aumentarono anzi i miei timori di giorno in giorno per un intiero mese, il quale trascorse senza aver alcuna nuova della dama. Finalmente i mercadanti s’impazientarono; e per soddisfarli, era già pronto a vendere ogni mio avere, allorchè la vidi ricomparire una mattina nell’equipaggio medesimo dell’altre volte.

«— Prendete le vostre bilance,» mi disse, «per pesare l’oro che vi reco.» Tali parole, dissipando la mia paura, raddoppiarono l’amor mio. Prima di contare le monete d’oro, mi fece varie interrogazioni, e fra l’altre mi domandò se fossi ammogliato. Le risposi di no, e che non lo era stato mai. Allora, dando l’oro all’eunuco, gli disse: — Falla tu da mediatore per terminar il nostro affare.» L’eunuco si mise a ridere, e trattomi in disparte, mi fe’ pesar [p. 50 modifica]l’oro, e mentre lo pesava dissemi all’orecchio: — Al solo guardarvi, conosco che amate la mia padrona, e mi meraviglio non abbiate ardite di manifestargli il vostro amore: essa vi ama ancor più che voi non l’amiate. Non credete già che abbia bisogno delle vostre stoffe; ma qui non viene per altro se non perchè le avete inspirato una violenta passione, e per questo appunto vi chiese se eravate ammogliato. Dite una sola parola, ed in voi solo starà lo sposarla, se volete. — È vero,» risposi, «che sentii nel mio cuore, fin dal primo istante che la vidi, immenso amore per lei, ma non osava aspirare alla felicità di piacerle. Io le sono tutto devoto, e non mancherò di riconoscere i vostri buoni ufficii. —

«Finalmente terminai di pesare le monete d’oro, e mentre li riponeva nel sacco, l’eunuco si volse alla dama, e dissele, ch’io mi dimostrava contentissimo: era questa la parola ond’erano convenuti fra loro. Tosto la dama ch’era; seduta, si alzò, e partì dicendo che mi manderebbe l’eunuco, e non avrei a fare se non quello ch’egli dar parte sua m’avrebbe detto.

«Pagai i mercadanti, ed attesi con impazienza per alcuni giorni l’eunuco, ii quale finalmente comparve...»

— Ma, sire,» disse Scheherazade al sultano delle Indie, «ecco l’alba,» e tacque. Il giorno dopo ripigliò in tal guisa la narrazione:


NOTTE CXLIV


— «Colmai di gentilezza l’eunuco,» disse il mercante di Bagdad, «e gli chiesi nuove della salute della padrona. — Voi siete,» mi disse, «il più fortunato mortale; ella va pazza d’amore. Non si può [p. 51 modifica]avere maggiore smania di vedervi di quella ch’essa abbia, e se potesse disporre delle proprie azioni, verrebbe a cercarvi, onde passar volonterosa con voi tutti gl’istanti della sua vita. — All’aria nobile ed ai cortesi suoi modi, ho giudicato che fosse qualche dama di considerazione. — Nè v’ingannaste in tale giudicio,» replicò l’eunuco; «è la favorita di Zobeide, la sposa del califfo, la quale la predilige tanto più in quanto l’ha allevata dall’infanzia, e si affida interamente in lei per tutte le compere che deve fare. Nella sua intenzione di maritarsi, dichiarò essa alla consorte del Commendatore de’ credenti d’aver volto gli occhi su voi, e le ha chiesto il suo assenso. Acconsentì Zobeide, ma disse che voleva in prima vedervi, onde poter da sè giudicare se buona era la scelta, poichè in tal caso avrebbe fatele spese delle nozze.» Voi vedete adunque che la vostra felicita è certa. Se piaceste alla favorita, non piacerete meno alla padrona, la quale non cerca che contentarla, e non vorrebbe contraddirne l’inclinazione. Ora non si tratta adunque se non di venire al palazzo, e mi vedete qui appunto per questo: a voi tocca risolvere. — Ho già bell’e risolto,» gli risposi, «e son pronto a seguirvi ovunque. — Va bene,» ripigliò l’eunuco; «ma sapete che non entrano uomini negli appartamenti delle dame del palazzo, e non si può introdurvisi se non mediante misure che richiedono segretezza; la favorita ne ha prese di giusto. Da parte vostra, fate quanto dipenderà da voi; ma sopra ogn’altra cosa siate discreto, andandoci della vostra vita. —

«Lo assicurai, che farei esattamente quanto m’avrebbe imposto. — Or dunque,» mi disse, «fa d’uopo recarvi stasera, al calar della notte, alla moschea che Zobeide, sposa del califfo, fece edificare sulla sponda del Tigri, e colà aspetterete che vi venga a prendere.» Acconsentii a tutto. Attesi con impazienza [p. 52 modifica]la sera, e quando fu tempo partii. Assistetti alla preghiera d’un’ora e mezzo dopo il tramonto nella moschea, ove rimasi per l’ultimo.

«Vidi in breve approdare un battello, i cui rematori erano tutti eunuchi, e che, sbarcati, portarono nella moschea parecchi grandi bauli, e poscia se ne andarono; uno solo rimase, cui riconobbi per quello che sempre accompagnava la dama, ed avevami parlato alla mattina. Poco dopo vidi entrare anche la dama; andatole incontro, le dichiarai di essere pronto ad eseguire i suoi cenni. — Non abbiamo tempo da perdere,» mi rispose; sì dicendo, aprì uno de’ forzieri e mi ordinò di nascondermi là entro. — È cosa,» soggiunse, «necessaria alla vostra ed alla mia sicurezza. Non temete, e lasciatemi disporre del resto.» Era troppo avanti per ritirarmi; soddisfeci al suo desiderio, ed essa tosto richiuse il bacio a chiave. Poi l’eunuco, ch’era a parte del suo piano, chiamò gli altri che avevano portati i forzieri, e li fece riportare tutti nel battello; indi, essendosi la dama e l’eunuco imbarcati, cominciarono a vagare verso il palazzo reale.

«Intanto, io faceva serie riflessioni, e considerando il pericolo in cui versava, mi pentii d’essermi così esposto, e feci voti e preghiere ch’erano fuor di luogo.

«Approdò infine il battello alla porta del palazzo del califfo; scaricaronsi i forzieri, che furono portati nell’appartamento dell’officiale degli eunuchi, il quale ha in custodia la chiave di quello delle donne, nè vi lascia entrar cosa alcuna senz’averla prima ben visitata. Quell’officiale era già a letto, talchè fu d’uopo svegliarlo e farlo alzare. — Ma, sire,» disse Scheherazade a questo passo, «veggo che il giorno comincia a spuntare.» Schahriar si alzò per andar a presiedere il consiglio, e nella risoluzione d’udire all’indomani il seguito d’una storia da lul fin allora ascoltata con piacere. [p. 53 modifica]

NOTTE CXLV


Alcuni istanti prima di giorno, essendosi la sultana dell’Indie risvegliata, proseguì a questo modo la storia del mercadante di Bagdad:

«L’ufficiale degli eunuchi,» continuò egli, «irritato che si fosse interrotto il suo sonno, sgridò la favorita perchè tornasse a casa tanto tardi. — Non ve la passerete a sì buon mercato come v’immaginate,» le disse; «non entrerà uno solo di questi forzieri se io non l’abbia prima visitato attentamente.» E nello stesso tempo comandò agli eunuchi di portarglieli davanti ad uno ad uno, ed aprirli. Cominciarono da quello nel quale mi trovava io; lo presero, e glielo portarono. Allora fui còlto da inesprimibile spavento, e mi credetti agli ultimi momenti della vita.

«La favorita, che aveva la chiave, protestò di non volerla dare, e che non soffrirebbe mai venisse quel baule aperto. — Ben sapete,» diceva, «ch’io nulla fo venire se non pel servizio di Zobeide, vostra padrona e mia. Quel forziere, specialmente, è pieno di merci preziose, che alcuni mercadanti, giunti da poco, mi affidarono; v’ha di più buon numero di bottiglie d’acqua della fontana di Zemzem (2), spedite dalla Mecca: se qualcuna se ne rompesse, le mercanzie si guasterebbero, e voi ne sareste responsale; la consorte del Commendatore de’ credenti ben saprebbe [p. 54 modifica]castigare la vostra insolenza.» Infine, parlò con tanta fermezza, che l’ufficiale non ebbe l’ardire di ostinarsi a voler fare la visita nè del baule in cui mi trovava, nè degli altri. — Passate dunque,» le disse in collera, «fate presto.» Si aprì l’appartamento delle dame, e portarono dentro tutti i forzieri.

«Appena vi furono, udii d’improvviso gridare: — Ecco il califfo! ecco il califfo!» e queste parole aumentarono il mio terrore al punto, che non so come non ne morissi sul momento. Era in fatti il califfo. — Che cosa recate in questi bauli?» chies’egli alla favorita. — Commendatore de’ credenti,» rispose quella, «sono stoffe arrivate di recente, che la sposa di vostra maestà ha desiderato vedere. — Aprite, aprite,» riprese il califfo; «voglio guardarle anch’io.» Volle essa scusarsene, rappresentandogli essere quelle stoffe pel solo uso delle dame, e che sarebbe stato un togliere alla sua sposa il piacere di essere la prima a vederle. — Aprite, vi dico,» replicò egli, «ve lo comando.» Gli rimostrò ella di nuovo che sua maestà, costringendola a mancare alla propria padrona, la esponeva alla di lei collera. — No, no,» ripigliò egli, «vi prometto che non ve ne farà alcun rimprovero. Aprite dunque, e non fatemi aspettare più oltre. —

«Bisognò obbedire, e provai allora un tale spavento, che ne fremo ancora tutte le volte che ci penso. Il califfo sedette, e la favorita gli fece portare davanti ad uno ad uno tutti i forzieri e li aprì. Per tirare le cose in lungo, essa gli faceva osservare tutte le bellezze di ciascuna stoffa in particolare. Voleva fargli perdere la pazienza, ma non riuscì. Siccome non era meno interessata di me a non aprire il forziere, nel quale io mi trovava, non sollecitavasi a farlo portare, ed ormai rimaneva sol questo da visitare. — Orsù, finiamola,» disse il califfo; «vediamo cosa c’è in [p. 55 modifica]quel baule.» Non posso dire se fossi vivo o morto in tal momento; ma non credeva di sfuggire a sì grande pericolo....»

Scheherazade, a queste ultime parole, vedendo spuntare il giorno, interruppe la sua narrazione; ma sul finire della notte successiva continuò come segue:


NOTTE CXLVI


— «Quando la favorita di Zobeide,» proseguì il mercadante di Bagdad, «vide che il califfo voleva assolutamente veder aperto il forziere nel quale io stava: — Circa a questo,» gli disse, «vostra maestà mi farà, spero, la grazia di dispensarmi dal fargliene vedere il contenuto: sono cose che non posso mostrarvi se non alla presenza della vostra sposa. — Va bene,» disse il califfo; «sono contento: fate portar via quei bauli.» Li fece essa subito recare nella sua stanza, dove cominciai a respirare.

«Quando gli eunuchi che li avevano portati furono partiti, aprì essa prontamente quello nel quale stava prigioniero. — Uscite,» mi disse; «mostrandomi la porta d’una scala che conduceva ad una camera superiore: «Salite,» continuò, «ed andate ad attendermi lassù.» Non mi aveva appena chiusa dietro la porta, che entrò di nuovo il califfo, e si pose a sedere sul baule, d’onde io era allora uscito. Aveva origine quella visita da un moto di curiosità che non mi riguardava; il principe voleva interrogarla su quanto avesse veduto ed inteso per la città. Conversarono insieme buona pezza, e finalmente la lasciò, ritirandosi nel proprio appartamento.

«Allorchè si vide libera, mi venne a trovare nella [p. 56 modifica]camera dov’era salito, e fecemi mille scuse per tutti i timori che m’aveva cagionati. — I miei spasimi,» disse, «non sono stati minori dei vostri; non dovete dubitarne, avendo sofferto per amor vostro e per me, che correva il medesimo pericolo. Un’altra in mia vece non avrebbe forse avuto il coraggio di cavarsi tanto bene d’un sì delicato impaccio. Non ci voleva minor ardire e presenza di spirito, o piuttosto bisognava avere tutto l’amore ch’io ho per voi, per uscire da tale imbarazzo; ma rassicuratevi, ora non v’ha più nulla a temere.» Dopo aver conversato qualche tempo con molta tenerezza: — È tempo,» mi disse, «che riposiate: andate a letto. Non mancherò domani di presentarvi a Zobeide, mia padrona, in qualche ora del giorno; cosa facile, non vedendola il califfo se non che la notte.» Tranquillato da tal discorso, dormii abbastanza placidamente; e se il mio sonno fu talvolta interrotto da inquietudini, erano queste inquietudini dilettevoli, cagionato dalla speranza di possedere una donna di tanto spirito e bellezza.

«Il giorno dopo, la favorita di Zobeide, prima di presentarmi alla padrona, m’istruì del modo con cui doveva contenermi verso di lei, mi disse all’incirca le interrogazioni che la principessa m’avrebbe rivolto, e mi dettò le risposte da farle. Indi mi condusse in una sala, ove tutto era d’una pulitezza, d’una ricchezza e d’una magnificenza veramente straordinaria. Appena vi fui entrato, venti schiave, d’età già avanzata, tutte vestite d’abiti ricchi ed uniformi, uscirono dal gabinetto di Zobeide, e vennero a collocarsi davanti ad un trono in due file eguali, colla massima modestia. Le seguirono venti altre, tutte giovani e vestite alla foggia medesima delle prime, colla differenza però, che gli abiti loro erano alquanto più galanti. In mezzo a queste comparve Zobeide, in aria maestosa, e così coperta di gemme e d’ogni sorta di [p. 57 modifica]gioielli, che a stento poteva camminare: andò essa a sedere sul trono. Dimenticava di dirvi che la sua favorita l’accompagnava, e rimase in piedi alla sua destra, mentre le altre schiave, alquanto più lontane, stavansi in folla ai due lati del trono.

«Seduta la consorte dei califfo, le schiave ch’erano entrate per le prime mi fecero segno d’inoltrarmi. Mi avanzai dunque in mezzo alle due file da esse formate, e mi prosternai colla testa sul tappeto, che stava sotto ai piedi della principessa. Mi comandò questa di rialzarmi, e fecemi l’onore d’informarsi del mio nome, della mia famiglia, dello stato di mia fortuna: cose alle quali soddisfeci abbastanza a suo modo, come potei accorgermene non solo dal suo contegno, ma anche dalle sue parole; — Sono ben contenta,» mi disse, «che mia figlia (così chiamava la sua favorita), poichè la riguardo come tale, dopo la cura da me presa per la sua educazione, abbia fatto una scelta onde la lodo; l’approvo dunque, e acconsento che vi sposiate. Ordinerò io stessa i preparativi delle vostre nozze, ma prima ho bisogno di mia figlia per dieci giorni; durante questo periodo di tempo, parlerò col califfo e ne otterrò l’assenso: intanto voi rimarrete qui: avremo cura di voi...»

Sì dicendo, Scheherazade vide il giorno e cessò di parlare. All’indomane ripigliò di tal guisa il racconto:


NOTTE CXLVII


— «Rimasi dunque dieci giorni nell’appartamento delle dame del califfo,» continuò il mercadante di Bagdad, «e per tutto quel tempo fui privo del piacere di veder la favorita, ma trattato tanto bene [p. 58 modifica]per ordine suo, ch’ebbi motivo di esserne soddisfattissimo.

«Parlò Zobeide col califfo della risoluzione presa di meritare la favorita; ed il principe, lasciandole la facoltà di fare a proprio talento, accordò alla favorita medesima una somma ragguardevole, onde contribuire da parte sua allo stabilimento di lei. Scorsi i dieci giorni, fe’ Zobeide estendere in buona regola il contratto di matrimonio, e fatti i preparativi per le nozze, si chiamarono i musici, i ballerini e le ballerine, e per nove giorni v’ebbe nel palazzo grande allegria. Giunto il decimo giorno destinato all’ultima cerimonia degli sponsali, la favorita fu condotta al bagno da una parte ed io dall’altra; e verso sera, essendomi posto a tavola, mi servirono d’ogni sorta di cibi ed intingoli, fra’ quali un ragù d’aglio come quello, del quale fui testè costretto a mangiare. Lo trovai sì buono, che non toccai quasi affatto l’altre vivande. Ma, per mia disgrazia, alzatomi da tavola, mi contentai d’asciugar le mani invece di ben lavarle; ed era quella una negligenza non mai fin allora accadutami.

«Essendo già notte, si supplì alla luce del giorno, nell’appartamento delle dame, con una grande illuminazione. Si suonarono gli strumenti, si danzò, si fecero mille giuochi: tutto il palazzo rintronava di grida d’allegrezza. Mia moglie ed io fummo introdotti in una gran sala, ove ci fecero sedere su due troni.

«Le donne che la servivano, l’aiutarono a cangiare parecchie volte d’abito, e le dipinsero il volto in varie guise, secondo l’uso praticato il giorno delle nozze; ed ogni volta che cambiava l’abito, me la facevano vedere.

«Finalmente, finite tutte le cerimonie, ci avviammo alla camera nuziale, deve, lasciatici soli, mi avvicinai alla sposa per abbracciarla; ma invece di [p. 59 modifica]corrispondere a’ miei trasporti, mi respinse con violenza, prorompendo in grida spaventevoli, che attrassero nella stanza tutte le donne dell’appartamento, le quali vollero sapere il motivo di quel frastuonno. Io intanto, colto da lungo sbalordimento, era rimasto immobile, senza aver nemmeno avuta la forza di domandargliene la cagione. — Cara sorella,» le dissero esse, «che cosa v’è mai accaduto nel breve tempo che vi abbiamo lasciata? Ditecelo, acciò possiamo soccorrervi. — Toglietemi,» gridò colei, «toglietemi dagli occhi quel villanaccio. — Ma, signora,» le dissi io, «in che cosa ebbi mai la sfortuna di meritare la vostra collera? — Siete un villano,» mi rispose infuriata; «avete mangiato aglio, e non vi lavaste le mani! Credete voi ch’io voglia tollerare mi si avvicini un uomo sì sucido per appestarmi? Distendetelo per terra,» soggiunse, rivolgendosi alle donne, «e portatemi un nervo di bue.» Tosto lui rovesciato al suolo, e mentre alcune mi tenevano per le mani, altre pei piedi, mia moglie, stata con sollecitudine servita, mi battè spietatamente finchè le mancarono le forze. Allora disse, alle donne: — Prendetelo; sia mandato al luogotenente di polizia, e gli si faccia tagliare la mano con cui ha mangiato il ragù coll’aglio.» A tal ordine sclamai: — Gran Dio! son tutto affranto dalle percosse, e per sovrappiù mi si condanna a perdere una mano! E perchè? Per aver mangiato un ragù d’aglio, dimenticando poscia di lavarmi le mani! Quanta collera per sì misero argomento! Maledetti siano gl’intingoli d’aglio! Maledetto il cuoco che l’ha preparato, e colui che lo ha servito!....»

La sultana Scheherazade, notando ch’era giorno, fermossi. Schahriar intanto si alzò, ridendo a più non posso della collera della favorita, e curiosissimo d’udire lo scioglimento di questa storia.

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NOTTE CXLVIII


L’indomani, Scheherazade, svegliatasi prima di giorno, riprese così il racconto della notte precedente:

— «Tutte le dame,» disse il mercadante di Bagdad, «che mi avevano veduto ricevere mille nervate, ebbero pietà di me quando udirono parlare di farmi tagliar la mano. — Cara sorella e nostra buona signora,» dissero elleno alla favorita, «voi spingete tropp’oltre il vostro risentimento. È, per dir vero, un uomo che non sa vivere, ed il quale ignora il vostro grado ed i riguardi che meritate; ma vi supplichiamo di non dar peso al suo fallo, e perdonargli. — Non sono soddisfatta,» essa ripigliò; «voglio che impari a vivere, e porti segni tali della sua sucidezza, che non s’avviserà più in tutta la sua vita di mangiare un ragù d’aglio senza ricordarsi poi di lavar le mani.» Non iscoraggiaronsi quelle pel suo rifiuto; ma gettatesi a’ suoi piedi e baciandole la mano: — Buona signora,» le dissero; «in nome di Dio, moderate la vostra collera, e accordateci la grazia che vi domandiamo.» Non rispose colei, ma si alzò, e voltomi mille improperii, uscì dalla stanza. Tutte le dame la seguirono, lasciandomi solo in inconcepibile afflizione.

«Rimasi dieci giorni senza veder altri che una vecchia schiava, la quale veniva a portarmi da mangiare. Le domandai un giorno notizie della favorita. — È ammalata,» rispose la vecchia, «per l’avvelenata puzza che le faceste respirare. Ma perchè non aveste cura di lavarvi le mani dopo aver mangiato di quel maledetto intingolo? — Possibile,» dissi allora tra me, «che la dilicatezza di queste dame sia tale, [p. 61 modifica]e ch’esse siano tanto vendicative per un fallo sì leggiero?» Amava non pertanto mia moglie, e malgrado la sua crudeltà, non cessava di compiangerla.

«Un giorno, la schiava mi disse: — La vostra sposa è guarita; è andata al bagno, e mi disse che verrà a vedervi domani. Dunque abbiate pazienza, e cercate accomodarvi al suo umore. D’altronde, è persona saggissima, ragionevole ed assai cara a tutte le dame, che trovansi presso Zobeide, nostra rispettabile padrona. —

«Infatti mia moglie venne all’indomani, e mi disse: — Bisogna ch’io sia ben buona se vengo a trovarvi dopo l’affronto che mi faceste. Ma non posso risolvermi a riconciliarmi con voi, se non v’ho prima punito come meritate per non esservi lavate le mani dopo aver mangiato del manicaretto d’aglio.» Chiamò allora alcune donne, che mi distesero, dietro suo ordine, per terra; e legatomi, colei prese un rasoio, ed ebbe la barbarie di tagliarmi ella medesima i quattro pollici. Una delle dame mi applicò una certa radice per ristagnare il sangue; ma non impedì che non ismarrissi i sensi per la quantità che ne aveva perduto e pel dolore sofferto. —

«Risensato, mi si diede a bere un po’ di vino per farmi racquistar le forze. — Ah! signora,» dissi allora alla mia sposa, «se mai mi accade di mangiar ancora ragù d’aglio, vi giuro che, invece d’una sola, mi laverò centoventi volte le mani col kali, colla cenere della stessa pianta e col sapone. — Ebbene,» rispose mia moglie, «a tal condizione, dimenticherò il passato, e acconsentirò a vivere con voi come con mio marito. —

«Ecco, o signori,» soggiunse il mercadante di Bagdad, volgendosi alla società, «eccola ragione per cui vedeste che ho ricusato di mangiare il manicaretto d’aglio che mi stava davanti...»

[p. 62 modifica]Il giorno che cominciava ad apparire, non permise a Scheherazade di continuare per quella notte; ma la susseguente ripigliò la parola in questi sensi:


NOTTE CXLIX


— Sire, il mercadante di Bagdad finì di raccontare così la sua storia:

«Non solo le dame m’applicarono sulle piaghe la radice che ho detto per istagnarne il sangue, ma vi sparsero pure un po’ di balsamo della Mecca, che non poteva sospettarsi falsificato, avendolo preso nella farmacia del califfo. In virtù di quel balsamo mirabile fui perfettamente guarito in pochi giorni, e dimorammo insieme, mia moglie ed io, nella medesima unione, come se non avessi mai mangiato intingolo d’aglio. Ma siccome aveva sempre goduto della mia libertà, m’annoiai infine di starmene chiuso nel palazzo del califfo; tuttavia, non voleva dimostrarlo alla mia sposa per timore di dispiacerle. Se ne avvide essa però, e non desiderava meglio anch’essa quanto di uscirne, che la sola gratitudine la tratteneva presso Zobeide. Ma aveva spirito, e seppe sì ben rappresentare alla sua signora la violenza ch’io mi faceva di non poter vivere in città colle persone della mia condizione, come sempre aveva fatto, che quella buona principessa preferì privarsi del piacere di tener presso di sè la sua favorita, che non accordarle quanto entrambi desideravamo.

«Un mese adunque dopo il nostro matrimonio, vidi comparire la mia sposa con parecchi eunuchi, ciascuno de’ quali portava un sacco di danaro. Quando si furòno allontanati: — Voi non mi esternaste nulla,» dissemi, «intorno alla noia che vi reca il soggiorno [p. 63 modifica]della corte; ma io me ne sono accorta, e per fortuna ho trovato modo di accontentarvi. Zobeide, mia padrona, ci permette di ritirarci dal palazzo, ed ecco cinquantamila zecchini, che ci regala, per metterci in istato di vivere agiatamente in città. Prendetene diecimila, ed andate a comprare una casa. —

«Con tal somma ne trovai subito una, ed avendola fatta addobbare con magnificenza, vi andammo ad abitare. Avevamo molti schiavi dell’uno e dell’altro sesso, e cominciammo a condurre piacevolissima vita; ma non fu di lunga durata, chè, dopo un anno, la mia consorte ammalò, e morì in pochi giorni.

«Avrei potuto riammogliarmi e continuar a vivere onorevolmente in Bagdad; ma la voglia di vedere il mondo mi suggerì un altro disegno. Vendei la casa, e comprate parecchie sorta di merci, mi unii ad una carovana e passai in Persia. Di là presi la strada di Samarcanda (3), d’onde sono venuto a stabilirmi in questa città. —

«Ecco, o sire,» disse il provveditore che parlava al sultano di Casgar, «la storia che ieri raccontò quel mercadante di Bagdad alla compagnia, nella quale mi trovai. — Cotesta storia,» disse il sultano, «ha bensì qualche cosa di straordinario; ma non è da paragonarsi a quella del gobbetto.» Allora, avanzatosi il medico ebreo, si prosternò davanti al principe, e rialzandosi, gli disse: — O Sire, se la maestà vostra vuol avere la compiacenza di ascoltar me pure, oso credere rimarrà soddisfatta della storia che son per narrarlo. — Or bene, parla,» gli disse il sultano; «ma se [p. 64 modifica]non è più interessante di quella del gobbo, non isperare che ti doni la vita...»

Scheherazade si fermò a questo passo, vedendo l’alba. La notte seguente riprese così il racconto:


NOTTE CL


— Sire,» disse Scheherazade, «il medico ebreo, vedendo il sultano di Casgar disposto ad ascoltarlo, prese la parola in questi termini:


Note

  1. Pianta che alligna sulle rive del mare, e che raccogliesi e si brucia verde. Le sue ceneri danno la soda, ed anche la pianta chiamasi con tal nome.
  2. Questa fontana è alla Mecca, e, secondo i Maomettani, è la sorgente, che Iddio fece scaturire in favore di Agar, dopo che Abramo fu obbligato a discacciarla. Se ne beve l’acqua per divozione, ed è mandata in regalo ai principi ed alle principesse.
  3. Samarcanda, antica e grande città dell’Asia, nel paese degli Usbecchi, capitale del regno del medesimo nome, con una celebre accademia ed un castello, in cui Tamerlano faceva l’ordinaria sua residenza. Vi si fa gran commercio, specialmente di frutta squisite che abbondano nel suo territorio. È posta in bella situazione sul fiume Sogde, presso i confini della Persia.