La sottana del Diavolo/L'avventura di tre furbi
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L'avventura di tre furbi.
Sdraiati in un campo di ravettone i cui fiori gialleggiavano nella maturanza precoce di un giugno ardente i due figliuoli della Menica riposavano, avendo terminato per quel giorno i loro lavori di campagna, aspettando lo zio Titta che doveva passare di lì col vitellino nuovo.
Vissuti sempre insieme di una vita semplice e monotona i due fratelli non avevano grandi cose da raccontarsi, così quando ebbero fatto qualche pronostico sul tempo e convenuto insieme che il ravettone quell’anno prometteva bene Paolo trasse di tasca un mozzicone di sigaro raccolto per via, lo succhiò un poco e lo passò a Pietro, da buoni fratelli abituati a non avere nè tuo nè mio.
— Quel maledetto dente mi duole ancora, — disse Pietro a un certo momento.
— Converrà farlo levare, — soggiunse Paolo.
— Già.
E ricaddero nel silenzio.
Quante fossero precisamente le ore non sapevano. Lo zio Titta doveva passare di lì, essi lo aspettavano; niente altro. Pietro aveva in mano una verghetta e si batteva con essa la coscia, Paolo seguiva cogli occhi il volo di un falchetto. Il sole declinava.
Forse, molto lontanamente, il sospetto che fosse tardi attraversò alla fin fine il cervello di Pietro mettendogli innanzi questa domanda:
— Il diretto è già passato?
— No, non ancora.
— Sei sicuro?
— Sono sicuro. Guarda, è quello che viene adesso.
Entrambi i fratelli aguzzarono le pupille lungo il binario che attraversava i campi a pochi passi dal luogo dove si trovavano. Il piccolo punto indicato da Paolo cresceva a vista d’occhio delineandosi ferreo e nero sulla falda rosata dell’orizzonte seguito dal solito pennacchietto di fumo. Ben presto la locomotiva, i carrozzoni, il bagagliaio sfilarono sotto lo sguardo placido dei due contadini sdraiati nel campo di ravettone, ma — proprio all’istante in cui il treno svoltava tracciando una rapida curva — un oggetto lanciato con violenza da un finestrino venne a cadere non molto lungi da essi.
Pietro voltò appena la testa. Paolo disse:
— Che sarà?
— Un cartoccio vuoto, che vuoi che sia?
— Mi sembra una scatola.
— Una scatola di sardine allora, vuota si intende. La roba che i viaggiatori buttano sulla strada non è mai altro.
— Sicuro. Vorresti che buttassero i portamonete coi biglietti da mille?
I due fratelli risero. Paolo fece una capriola nell’erba.
— Olà, olà, — gridò alle loro spalle la voce dello zio Titta, — perchè non vi muovete? Qualche cosa è caduto dal treno. Bisogna andare a vedere.
— E se è un cartoccio vuoto?
— Vedere bisogna sempre.
Fu Paolo che saltò in piedi per il primo e lo zio Titta dietro, mentre Pietro nicchiava incredulo e neghittoso. Quando però potè scorgere distintamente l’oggetto che il fratello aveva raccolto non fece che un salto balzandogli addosso con sùbito ardore. Paolo era diventato pallido stringendo il pugno contro il petto.
— Vedere, vedere! — gridò Pietro.
— Ih! che furia! È adesso che ti scaldi? — rispose Paolo tenendo sempre il pugno stretto.
Lo zio Titta non parlava. Battista, detto Titta, detto il «Bisogna», era in fama di uomo accorto. Il sopranome di Bisogna glielo avevano dato per una sua abitudine di cacciare questa parola in quasi tutti i discorsi, specialmente nella frase che ripeteva più di ogni altra quando era il caso di ammonire i suoi nipoti o magari sua cognata Menica che essendo rimasta vedova cadeva naturalmente sotto la sua protezione e direzione. La frase dunque era questa: Bisogna essere furbi! È d’uopo dire che l’esempio seguiva dappresso la predicazione e che per le trovate sempre abili dello zio Titta (abile non è precisamente sinonimo di corretto ma — diceva ancora lo zio Titta — non bisogna guardar troppo per il sottile se si vuole conservare la vista) la verità è che gli affari andavano abbastanza bene nella famigliuola di cui lo zio Titta era il capo riconosciuto.
Zitto, fermo, tenendo con una mano la fune a cui era attaccato il vitello, appoggiata l’altra sul fianco, tutta l’anima del vecchio furbo sembrava concentrata nel naso il quale, lungo, ricurvo, tagliente come un rostro, avido e frugatore come un becco, vigile come un faro, nella tensione palpitante di una sentinella avanzata, quasi fosse munito di una pupilla magica all’estremità, trapassava il pugno di Paolo, trapassava l’astuccio, vedeva! Così quando l’astuccio venne aperto il meno meravigliato fu lui.
Appena Paolo fece scattare la molla due orecchini di brillanti scintillarono morbidamente abbracciati da un cuscinetto di velluto celeste.
— Sacr....estia! — esclamò Pietro.
— Questa volta almeno le sardine ci sono, — soggiunse Paolo tutto allegro.
— Purchè sieno buoni, — insinuò Titta allungando la mano agli orecchini che prese e contemplò minuziosamente.
— Non vedi come brillano?
— Eh! brillare non vuol dir nulla. Bisogna essere furbi a questo mondo e sapere le cose come stanno. Si fanno in giornata dei brillanti che rubano gli occhi e che non sono niente affatto brillanti. Questi però se sono falsi convien dire che li hanno falsificati bene.
— Io dico che sono buoni.
— Per dirlo lo dico anch’io. Tutto sta ad essere sicuri.
— Ci vorrebbe uno che se ne intenda, — osservò Pietro.
— Un orefice, — soggiunse Paolo.
Ma l’istintiva diffidenza del contadino fece esclamare allo zio Titta:
— Adagio, adagio. Non andiamo adesso a propalare a tutti i nostri interessi. Bisogna riflettere prima di agire.
Così dicendo si pose in tasca l’astuccio.
— Ehi! dico, zio, — saltò su Paolo, — o veri o falsi questi gingilli sono miei.
— Perchè? — fece il «Bisogna» tranquillamente tirando la fune del vitello.
— Oh! bella, non li ho forse raccolti io?
— Tu?... Tu non ti muovevi neppure, nè tu nè tuo fratello, se non fossi stato io a mettervi sull’attenti.
— Però — interloquì Pietro — noi siamo stati i primi a vedere.
— Neanche questo lo puoi provare. Ho forse visto prima io, ma ero più lontano e non potevo correre.
— Ad ogni modo — borbottò Paolo in tono minaccioso — l’astuccio mi appartiene. Sono pronto a andare in giudizio se occorre.
— Non stiamo a litigare — concluse Titta — prima di sapere se si tratta di brillanti o di cocci di vetro. Del resto fidatevi a me; il fratello di vostro padre non vi vuol tradire.
La frase era bella ma fece poco effetto sui due giovinotti che avrebbero preferito aver loro in tasca l’astuccio. Mogi mogi seguivano lo zio sul cammino della loro casa, tenendogli gli occhi addosso come se potesse volar via; quando furono quasi alla soglia Titta si pose un dito sulle labbra raccomandando:
— E silenzio per ora! Non dite nulla a vostra madre che lo saprebbe tutto il paese.
Oh! questo poi no! protestarono insieme i due fratelli. Che il vecchio sornione si sia messo in tasca l’astuccio e pretenda avervi dei diritti è una cosa che si potrà discutere, ma impedirci di parlarne a nostra madre è troppo.
Infatti non avevano ancor finito di mangiare la zuppa che Paolo schiattò:
— Zio, mostra un po’ alla mamma quello che ho trovato oggi in un campo di ravettone.
Invano Titta si pose a fare gli occhiacci ed a schermirsi fingendo di non comprendere. Premeva troppo ai due fratelli di mettere in chiaro la faccenda, che di quel silenzio non si fidavano affatto ed a prendersi per alleata la madre restavano in tre contro uno. L’astuccio dunque, dopo alcuni tentativi di resistenza, uscì dalle tasche del vecchio ed aperto provocò le più alte esclamazioni ammirative della Menica la quale non finiva di voltare e rivoltare da ogni lato gli splendidi orecchini sentendosi crescere la saliva sotto la lingua per la gran gola che le facevano.
— Forse sono falsi.
Titta non lo credeva, ma buttò là ancora questo dubbio per studiarne l’effetto.
— Ohibò! — fece subito la donna, — sono in tutto simili a quelli della nostra padrona. Io li conosco bene.
— E quanto credi che possano valere? — domandò Pietro a un tratto.
Quattro respiri rallentarono per un istante il loro ritmo; l’attenzione era intensa quando Menica in seguito a certo suo calcolo mentale disse:
— Ma, se sono proprio fini come quelli della padrona, cinque o sei mila lire....
Lo zio Titta saltò in piedi con tutte e due le braccia per aria:
— Sei matta! Sei matta!
Pietro disse:
— È una bella sommetta!
Paolo si pose a ridere fregandosi le mani; ma lo zio Titta seguitava a gridare come un ossesso.
— Non è vero, non è vero. Siete matti!
Per quella sera non si concluse nulla. Solo che avendo lo zio Titta allungato la mano per rimettersi in tasca l’astuccio tutti furono d’accordo a protestare, così che egli trovandosi ad essere la minoranza si scusò facendo un breve discorso sulla sua qualità di capo della famiglia e sul suo affetto di zio.
— Del resto, — soggiunse, — non siamo tutti uniti d’amore e d’accordo? Quello che è dell’uno è pure dell’altro.
— Benissimo, — concluse Paolo, — e per ciò daremo l’astuccio in custodia alla mamma che stando in casa può meglio sorvegliarlo e che lo riporrà ben bene avvoltolato in un paio di calze in fondo al canterano.
Lo zio Titta si rassegnò; ma già subito all’indomani l’argomento fu ripreso e per tutti i giorni dovette essere quello il perno intorno al quale si aggiravano pensieri, parole, progetti, reticenze, piccole congiure occulte, piccole viltà. A nessuno era ancora venuto in mente che l’astuccio si dovesse restituire, tuttavia un vago timore che da un momento all’altro saltasse fuori il proprietario li teneva zitti, in attesa.
Qualche volta, lemme lemme, senza dare nell’occhio, Titta andava a zonzo per il paese a raccogliere notizie sui fatti del giorno; si spinse fino alla stazione dove pure s’avrebbe dovuto sapere qualche cosa, ma nulla mai trapelò dei gioielli perduti al punto che Titta e i nipoti e la cognata li consideravano oramai come gioielli di famiglia. E le dispute ricominciarono. Anzitutto, erano veri? erano falsi? A chi appartenevano? che cosa dovevano farne? La Menica se li era provati per ischerzo convinta immediatamente che non era roba per lei; e neanche se Pietro o Paolo avessero condotta la sposa potevano offrirle un oggetto così fuori della loro condizione. Venderli? Ma a chi per non essere imbrogliati?
Di punto in bianco un bel giorno la Menica si aperse colla padrona la quale osservando i brillanti da conoscitrice assicurò che erano buoni ma disse recisamente che in coscienza non si potevano tenere e occorreva denunciarli subito altrimenti c’era da incorrere nella prigione. Come mai non ci avevano pensato? Questa dichiarazione fu una mazzata per il «Bisogna» e per tutta la sua famiglia abituati come si erano già a ritenere i brillanti loro proprietà assoluta e chi ne andò di mezzo fu la Menica accusata di avere guastato ogni cosa colla sua smania di parlare. Che bisogno c’era di dirlo alla padrona? Bel risultato se ne aveva.
La padrona per calmare un po’ tutte quelle cupidigie inasprite disse che quando avessero trovato il proprietario dell’astuccio sarebbe pure toccata a loro una buona ricompensa; ma non valse a nulla. Erano i brillanti che essi volevano e li volevano con una cocciutaggine fatta di ignoranza e di avidità sulla quale nessuna luce poteva gettare l’idea confusa che essi avevano del diritto.
Obbligati tuttavia a denunciare l’oggetto trovato lo fecero così di mala voglia che ne rimase ad ognuno l’amaro in bocca, e questo amaro si gettarono vicendevolmente l’un l’altro con reciproche accuse per tutto il tempo di attesa prescritto dalla legge. Caso singolarissimo! Per quanto annunciato e propalato dovunque il mistero dell’astuccio lanciato dal carrozzone di un treno in corsa restò un mistero. Furto? capriccio? vendetta? gelosia? Qualunque fosse stato il movente non se ne seppe mai nulla. Colpevole o impotente la mano che aveva tracciato il gesto audace non uscì dall’ombra. Nessuno venne mai a reclamare i brillanti. Per tal modo trascorsi i due anni d’obbligo Titta coi suoi due nipoti rimasero i legittimi padroni dell’astuccio.
Oramai si sono accordati per una equa divisione del bottino, ma non potendosi dividere in tre parti i brillanti che erano solamente due decisero di venderli. Più presto detto che fatto però. La padrona si era offerta lei di rilevarli a prezzo di stima, ma Pietro insinuò che se aveva fatta l'offerta ci stava dentro certo il suo tornaconto. Diffidarono della padrona, diffidarono anche del curato che aveva un fratello orefice e poteva occuparsi dell'affare. A vero dire diffidavano di tutti; se avessero potuto seppellirli quei brillanti indiavolati li avrebbero cacciati cinquanta metri sotto terra. Il guaio era che Paolo voleva prender moglie e Pietro aprire un negozietto, e come si faceva senza denari? La necessità di venderli era evidente ma volevano essere ben sicuri che nessuno potesse specularvi sopra. Avevano pensato tanto alla somma possibile da ricevere che essa era andata crescendo con giri iperbolici nella mente di ognuno dei tre.
Pietro una volta uscì a dire:
— Io so di brillanti che furono pagati dieci mila lire!
La padrona che lo udì e che ne rise gli diede l'indirizzo di un orefice a Bergamo consigliandolo a andare da lui per togliersi ogni dubbio. Pietro andò, ma andarono insieme Paolo e Titta. Non si è furbi per nulla. Con loro grande stupore e dolore l'orefice bergamasco pose la stima dei brillanti a tremila e duecento lire.
— Ci inganna! — disse Pietro, — vuole derubarci.
— È forse d’accordo colla padrona, — soggiunse Paolo.
Lo zio Titta propose di sentirne un altro e l’altro fece il prezzo di tremila e cento ottanta.
Tornarono a casa coll’attitudine dimessa di cani bastonati, nè per un pezzo si parlò più di brillanti.
— Vi credete furbi, — disse una volta la padrona, — ma in questa faccenda la fate proprio da ignoranti. Invece di mettere a frutto il vostro capitaletto ve lo tenete nascosto nelle calze della Menica. Chi lo gode così?
Il «Bisogna» fu il primo ad afferrare la logica di tale ragionamento; forse perchè egli era vecchio sentiva maggiormente la necessità di non perder tempo e propose ancora la vendita.
— Per tremila e duecento? — gridò Pietro indignato.
— Ma se non valgono di più?
— Chi lo sa se non valgono di più!
— Allora facciamo una cosa. Andiamo a Milano. Là orefici ve ne sono in gran copia, la città è ricca, tutti portano brillanti, vedremo se si può vender meglio che a Bergamo.
Eccoli a Milano tutti e tre, indivisibili e guardinghi, sorvegliandosi a vicenda.
— Sopratutto — aveva detto lo zio Titta — stiamo attenti ai ladri. Bisogna avere l’occhio sempre pronto in mezzo a tanta gente che non si conosee.
Pietro e Paolo che vedevano Milano per la prima volta si lasciavano distrarre un poco lanciando occhiate di qua e di là ad ognuna delle quali restava attaccato l’uncino di un desiderio.
— Deve essere bello a vivere a Milano, — osservò Paolo.
— Stai zitto, che quando abbiamo preso la nostra parte dei brillanti verremo qui noi due per una settimana senza dirlo allo zio Titta.
— Benone. E staremo allegri!
Intanto seguivano docilmente lo zio Titta che incominciò a fare il giro dei piccoli orefici di porta Ticinese e di porta Garibaldi ricevendo in parecchi posti un rifinto netto e tondo ad acquistare merce di ignota provenienza. Uno che sembrava disposto a entrare in trattative offerse duemila e cinquecento lire giurando su tutti i santi che non valevano di più.
— Ci vogliono truffare, — disse serio serio lo zio Titta, — ma bisogna mostrar loro che non siamo gonzi. Dovessimo fare il giro di tutti gli orefici che vi sono in Milano non dobbiamo darci per vinti.
Andavano, andavano i tre villici pazienti e intontiti, urtando i passeggieri, col rischio continuo di farsi prendere sotto le ruote dei tram, stanchi della stanchezza speciale che provano gli abitatori della campagna quando si recano in una grande città. Pietro non tardò molto ad accusare un forte mal di capo; Paolo vedeva doppio; lo zio Titta non diceva verbo ma il naso gli si affilava di minuto in minuto. La necessità di concludere si imponeva.
Oramai avevano offerto dovunque i sciagurati brillanti e fra tutti la somma maggiore era stata proposta loro in un negozio elegante del centro: tremila e cento ottanta. Memore però dell’orefice bergamasco che li aveva valutati tremila e duecento lo zia Titta non volle accettare subito. Solamente al calare del giorno, scorati, stucchi, frolli, furono tutti e tre d’accordo di farla finita e ritornarono nel negozio elegante.
— Veda — disse il «Bisogna» piagnucolando — di darmi almeno tremila e cento novantacinque. Sono cinque lire che ci rimetto come è vero Dio!
Sollevando gli occhi al cielo per accompagnare degnamente l’invocazione, vide nella traiettoria del suo sguardo qualcuno che gli sorrideva benevolmente; era un signore che stava guardando i gioielli della vetrina, e parve al «Bisogna» che con quel sorriso tacitamente lo incoraggiasse.
Lunga fu la disputa, fermo l’orefice, cocciuti i villani; finalmente l’affare venne concluso per tremila cento novanta lire, più un gran sospiro del «Bisogna» che rimpiangeva le tremila e duecento offerte tanto tempo prima dall’orefice di Bergamo.
— Via, — dissero i due giovinotti ridiventati allegri alla vista dei bei bigliettoni, — quel che è stato è stato. Dieci lire non ci fanno nè più ricchi nè più poveri. Badate piuttosto a metter via bene il denaro.
Per questo lo zio Titta non aveva bisogno di consigli. Cacciò la somma nelle ampie tasche di un portafoglio che sembrava quello di un ministro, tolto l’unto e lo sdruscito del lungo uso, ed allogato il portafoglio nelle profondità interne della giacchetta lo andava ancora spianando colla mano per diminuire il troppo appariscente volume.
Si presero tutti e tre sotto braccio, lo zio Titta nel mezzo per salvaguardare il gruzzolo, e s’avviarono alla stazione sperando di fare in tempo a prendere un treno prima che sopraggiungesse la notte. Erano stanchi, avevano fame, ma al pari dei cavalli affrettavano il passo fiutando di lontano l’odore della stalla.
A un tratto un gentile signore, vestito con eleganza e dai modi urbanissimi esclamò alle loro spalle:
— Temevo di non riuscire a raggiungerli, che gamba! Prego, prego, abbiano la compiacenza di fermarsi un momento.
I tre contadini rimasero dubbiosi, presi subito da diffidenza; ma l’altro continuò con una amabilità che avrebbe sedotto una roccia:
— C’è stato un piccolo sbaglio, scusino, le tremila e cento novanta....
Lo zio Titta fece un salto da lepre:
— Che sbaglio! che sbaglio! Chi è lei? Noi non la conosciamo, ci lasci in pace.
— Sicuro, sicuro, — riprese il garbatissimo incognito, — lei ha pienamente ragione, ma anch’io voglio mettermi in pace colla mia coscienza. L’onestà innanzi tutto. C’è qualcuno che dice: bisogna essere furbi. Il mio motto è: bisogna essere onesti.
— Ma infine che cosa vuole?
— Niente altro che consegnarle queste cento lire, se permette.
Da una busta rettangolare lo sconosciuto trasse un biglietto da cento e lo agitò nell’aria. Lo zio Titta credette di avere le traveggole e si appoggiò sulle braccia di Pietro e di Paolo non meno intontiti e rimminchioniti. Finalmente mormorò:
— Non capisco nulla.
— Ecco, — riprese il signore sorridendo colla sua inesauribile buona grazia, — io sono il socio dell’orefice al quale ella ha venduto i brillanti. Non mi ha visto in bottega? Non mi riconosce?...
Ah! sì. Quel sorriso fu un lampo nella mente ottenebrata del «Bisogna». Egli riconobbe il signore che ispezionava la vetrina e che gli aveva sorriso appunto così amabilmente.
— Devo dire anche che il proprietario del negozio sono io; il mio socio non vi mette che l’opera. Io lo lascio fare ma lo sorveglio.... capisce? Fu a questo modo che mi parve di accorgermi che egli si sbagliava nell’apprezzamento dei brillanti. Naturalmente non volli mortificarlo in loro presenza.... mi piace essere delicato; ma appena usciti loro abbiamo fatto insieme i conti e risultò precisamente quello che avevo sospettato, cioè che il valore reale di quei gioielli è di tremila trecento lire o poco meno. Da galantuomo mi affretto a portarle la differenza.
La sorpresa, il piacere, la commozione paralizzarono talmente ogni facoltà di quei contadini avidi ed astuti, ma ignoranti, che balbettando a stento lo zio Titta riuscì a mettere insieme qualche parola di gratitudine intanto che toglieva fuori dal gabbano il voluminoso portafoglio per introdurvi il nuovo ospite tanto gradito quanto inaspettato.
— Come! — esclamò l’amabile signore, — ella tiene i denari in quell’enorme portafoglio che le fa gobba sotto la giacca e lo addita da lontano ai borsaiuoli? Non sa che Milano ne è piena?
— Ma noi partiamo subito, — rispose lo zio Titta un po’ confuso.
— Devono pure attraversare tutta la città e quando bene siano giunti alla stazione è quello il posto preferito dai cavalieri di industria. Non parliamo poi del viaggio in ferrovia; le ferrovie sono diventate più malsicure di un bosco. Pochi giorni or sono un mio cugino è stato derubato dell’orologio e del portamonete, così, in un attimo, senza manco accorgersene. È un’imprudenza caro mio, una grave imprudenza!
Terrorizzato il vecchio esclamò:
— Ma come faccio allora?
— Se crede, — insinuò dolcemente il socio dell’orefice, — posso mandarle il denaro per la posta. È più sicuro.
Le tre teste di Titta di Pietro e di Paolo come fossero una testa sola risposero energicamente di no. L’idea di separarsi, fosse pure per un giorno, da quella somma tanto agognata e faticosamente raggiunta irritava troppo la loro nativa diffidenza.
— Bene, — soggiunse l’altro colla sùbita remissione di chi non ha alcun interesse in giuoco, — fàcciano come credono. Accetti però almeno questa busta, — così dicendo lo sconosciuto si pose in modo da voltare le spalle ai due giovinotti protendendosi verso il «Bisogna». — È di carta pergamenata, solidissima; io non mi servo mai d’altro per trasportare i valori. La busta è molto più pratica del portafoglio; sopratutto un portafoglio di quelle dimensioni!
Non vi era nessuna ragione da opporre e poichè aveva già rifiutata la prima offerta il vecchio si credette obbligato, almeno per cortesia, a non rifiutare anche la seconda. Prese dunque la busta dalle mani del compiacente signore e tentò di farvi entrare la valuta, ma siccome era un po’ impacciato nei movimenti l’amico con una mossa lesta e dicendo: — Lasci fare a me che sono pratico: — infilò le tremila trecento lire nella busta, vi appose rapidamente la lingua, la chiuse e la restituì con un inchino.
— Servo suo signore e buon viaggio!
Il «Bisogna» si voltò per ringraziare ancora una volta il servizievole sconosciuto ma non lo vide più. Egli era già scomparso, nè a dire il vero si diede troppa premura di farne ricerca poichè oramai tutti e tre non avevano che un solo ardente desiderio: quello di trovarsi a casa.
La Menica che li aspettava con impazienza avendo già fatto per suo conto una quantità non indifferente di castelli in aria volle subito sapere a quale cifra era giunta la vendita dei brillanti. Il cognato e i figliuoli ridendo sotto i baffi della meraviglia che ella avrebbe provato dinanzi alla somma non mai vista apersero con grande sussiego la busta pergamenata e.... la trovarono piena di biglietti dell’amido Banfi. Uno solo, messo da parte, era il biglietto da cento offerto dal generoso sconosciuto; ma quando vollero spenderlo si accorsero che era falso.