Libro quarto

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III V
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LIBRO QUARTO.


L’età che gl’imenei giusti comporta,
L’ire gelose, e l’arte onde s’intreccia
L’una specie coll’altra e ne ricrea
Sempre in meglio le schiatte, a cantar prendo.
5Santa madre d’Amor, Venere bella,
Del cui vivo piacer prende incremento
L’umana vita, e con soave impero
Il ciel governi, e sulla terra siedi
Adorata regina; alma nodrice
10Di quanto il mar profondo e l’aër vago
Cape nell’ampio interminabil seno;
Se non men che agli umani, ai bruti ancora
Tocca il poter de’ tuoi pungenti strali,
Onde in bel nodo d’amistà le fere
15Aman pe’ boschi anch’esse e i pinti augelli;
Tu dell’amor gli alti misteri e l’opre
Or mi rivela; ond’io colga alcun fiore
Lungo i rivi del néttare celeste,
Che tu schiudesti il dì che da le ancelle
20Ore guidata, verginella ancora,
Di tue bellezze innamorasti il cielo.

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     Se frenato per leggi amor non fosse
Ond'è il talento alla ragion sommesso,
Tal da natura ebbe poter, che al peggio
25L’armi adoprando, un vasto orror solingo
Fòra la terra. E qual tra selve orrende
Ringhia la tigre immansueta e il pardo,
Mescendo ire e battaglie e stragi e morti,
Dinanzi al cieco istinto ed al bisogno
30N’andrian così gli stupidi mortali
Fra lor discordi, in guerra empia condotti
Da prepotente gelosia. De’ bruti
Al par le razze commischiando, incerta
Saria la prole; nè la fè, nè il casto
35Pudor servato avrebbe alle famiglie
Le crescenti speranze e la dolcezza.
Quello che in noi potea splendido lume
Di natura e di senno, arte procuri
Ne’ bruti ancora, e a miglior fin conduca
40Le forze dell’istinto e dell’amore.
Molti ritrosi ad ogni culto e schivi
Trovi animai per vero, a la foresta
Solo aver d’imenei cura e vaghezza;
E se dal natio clima in servitude
45L’uom li conduce, il natural talento

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Spesesi in lor dell’accoppiarsi; e mesti
Della perduta libertade, a sdegno
In poter d’altri hanno sè stessi e i figli.
Così il Castoro industre a le maremme
50Tolto ed ai patrj fiumi, ed infecondo
Lo Elefante così nelle contrade
Fassi d’Europa; e questi, ed altri ancora
Ch’indole acerba rimovea da noi,
Crescan migliori di per sè, chè indarno
55Fòra ogni studio se natura hai contra.
Ma ben laude è dell’uom, se i nostri campi
Pascon validi tauri, esercitando
Le dure glebe; e se di coppie altere
D’animosi cavalli or lo pulledre
60Vanno superbe, e se l’armento è lieto
Delle capre e dell’agne. In fra le greggi
Schiatta non è che a perfezion non vada
Se la soccorri, e a vile anco non scenda
Se ti rimetti alla ventura. I maschi,
65Cui di vigor difetto e di salute
Estenuava il debil corpo offeso,
Simili a sè producon figli; e questi
Di più misera prole ingenerando
Ognor la terra, falsano le razze.

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70Più infelice così forse la vita
Si fè’ dell’uom, dappoichè vizi e morbi
Contaminàr la prisca età degli avi;
Chè di tempre più vil sortendo i corpi,
I venuti da quelli ingeneraro
75Peggior la prole; nè la forza antica
Più si conobbe delle membra, e corto
Più che natura non lo fea, s’afflisse
Il viver nostro, e d’infinite prede
Innanzi tempo si arricchì la morte.
    80Nel dì che di viventi alme fea bella
Amor la terra, e non per anco uscite
Fra gli animali eran contese e risse,
La mite pecorella in libertade
Pascea l’erbe de’prati, e nella vista
85Tutti accogliea dell’innocenza i vezzi.
Ma poichè, orribil pasto, entro gli artigli
Delle belve cadea, raminga allora
Andò selvaggia nell’orror de’ boschi
A ricovrarsi; e i mal sortiti amori
90E i pascoli insalubri, il primo aspetto
Scambiâr dell’agna, che sì bella apparve.
Debil quindi non varca oltre a duo lustri
L’inferma, e raro e raggruppato e scuro

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L’avvolge un pel che a vili opre destini.
95Tralignando così dall’esser primo,
Giacque, qual la veggiam tra le infeconde
Glebe errar dell’Orobia, e le propinque
Balze, intra cui scendendo il Mella freme.
A cento madri allor delle men tristi
100(Sceverandone i maschi) di fatticce
Membra valenti e in bianca lana avvolti
Duo mariti scerrai del gregge Ibero.
Come la sesta luna in ciel ripiglia
Suo moltiforme aspetto, avrai da quelle
105Altrettanto di femine e di maschi,
Che la finezza del paterno vello
Somiglieranno. A più matura etade
Serba l’agne, e sopponi al taglio crudo
Pria che all’ottavo mese il maschio aggiunga;
110Perchè tra quelle, di natura il nuovo
Ordin non turbi con vietati amori.
Fatte grandi al secondo anno le agnelle,
La metà delle prime esule vada
Fuor dell’ovile, e in lor vece si resti
115La giovinetta, e già d’amor capace
Tenera prole. Cento nati ogn’anno
Avrai tra maschi e femine, e scegliendo

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Quelli da queste, di novelle madri
Accrescerai lo stuolo. Il generoso
120Monton, che tutta omai vede rifarsi
La soggetta famiglia in sua balìa,
Alla dolce d’amore opra condotto,
Si fa più lieto, chè se stesso vede
Palesemente ripredur ne’ figli.
125Questo o non più, se ben ti adopri e vedi,
Chiede a te di natura il facil corso;
La qual, poichè tu prima a miglior via
Ne drizzasti il poter, securamente
Oltre procede, e vince ogni speranza.
     130Già del maschio risponde a la bellezza
Ciascuna delle madri, e con più certa
E men difficil legge ora le nozze
S’adempiranno quando amor le scaldi.
L’ottava luna appo le dieci in tutto
135Ne confermò le forze; e sovrabbonda
Il sangue, e bolle fervido, e le incita
All’ignoto piacer. Vigoreggiando
L’arïete lussureggia; un inquïeto
Tremor lo invade, una dolcezza, un brio
140Che a saltellar pe’ campi, e a prender corse
Rapidissime il tragge entro ai ricinti:

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E se dell’agne ode il belar frequente,
Immemore de’ paschi e di sè stesso
Allor tu il vedi irresoluto, immoto
145Starsi mesto, e rispondere belando,
O feroce cozzar contro a la sbarra
Che dall’agnelle innamorate il parte.
Cedi ad amor, chè il contrastar più a lungo
Rifinisce l’arïete, e invan consuma.
150Strugge della sua vista a poco a poco
La femina e le forze al maschio emunge
Se conteso è il piacer, come si strugge
Tenera neve al Sol. Con tal misura
Governa anco i mortali amor tiranno,
155E l’uom fa vile, e di ragion lo tragge.
Per lui fra l’arme a certa morte incontro
Va cieco, o le virili opre obblïando
In pigro ozio dimentico si cela.
Vigilando alla notte, il mar turbato
160Di subite procelle, a nuoto ei passa;
L’onda coll’onda invan si mesce, e tuona
Il nimbifero Giove, e mugghian l’acque
Orribilmente infrante agli ardui scogli.
Nè men fa prodi le donzelle amore.
165Molte a crudi perigli il petto imbelle

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Profferîr per l’amante, e il fato avverso
Ne seguitàro generose;, e quando
Alfin soggiace, e la speranza in tutto
Muor di radice nella mente afflitta,
170La solitaria vergine si chiude
Ad ogni sguardo, e le ghirlande e i panni
Lieti e le danze e le compagne obblia,
Chè per forza di tempo o di fortuna
Mai non si spegne amore in cor gentile.
175Tu dalle fiere istrutto opre del nume,
Da lui non ti contendi; e se t’incresce
Dar l’arïete all’agnella (o che l’etade
Non lo ti assenta, o la stagion nemica)
Nè la stanza comune abbia, nè il pasco;
180Chè il vedersi e il ristar d’entrambi è morte.
     Ma dagli astri Ledéi partendo il sole
Sfolgorando si move invèr gli alberghi
Dell’infesto animal che punse Alcide;
E già lo scalda, e a desïar lo stringe
185Le gelide di Lerna acque fatali.
Sciogli i maschi tu allor, chè a mezzo giugno
Le pecorelle in amor vanno, e l’aura
Seminal nei capaci aditi corra.
Più che non pensi, utilitadi assai

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190Verranti, se a quel tempo i maschi ammetti
A fecondar l’armento. Ugual ti nasce
La prole; e come al quinto mese i parti
Spongon le madri, nel decembre avrai
Senza molto indugiar tutti gli agnelli.
195Quindi nascendo nell’ovil, che il freddo
Verno consiglia, apparecchiar t’è dato
Quanto alle madri in partorir si chiede,
Ed alla prole pargoletta. A tutti
Uno stesso alimento ed una cura
200Apparterrà; chè molto ne le stalle
Disconviene al pastor norma diversa,
Se con varia misura escono i parti
Con disagio pe’ monti. Ove le doglie
Colgan la pecorella allo scoperto,
205E Giuno gli annodati arti disleghi,
Sull’ignudo terren molto premendo
E dolorando, alfin senza soccorso
Depon l’amato peso; e il gregge intanto
Dimenticando, il mandrian s’affretta
210D’aitar la meschina, e trova scarso
Ogni partito, e sè medesmo accusa;
Chè la dolente genitrice, stanca
Dalla fatica, e il figlio in su le spalle

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Mal può recarsi, e in salvo al tetto addursi
215215Arrogi, che nascendoti nel verno,
Nè uscendo che all'april, quando la sposa
Di Zeffiro rimena i dì sereni,
L’agnello è pingue, e dal materno latte
Alla pastura si traduce; e l'agna
220220Nuovo assume vigor, che le seconde
Nozze fa liete di robusti figli.
     Ne’ guardati ricinti entri il lascivo
Marito a’ giorni estivi, e le consorti
Vegga, e innamori, e tragga in sua balia.
225225Prima incerto il vedrai moversi lento
Con intenti occhi e palpito segreto
Fra le compagne; e vezzeggiarsi, e molto
Guardar d’intorno, ancor del sito ignaro
E della scelta; ed imitar l'altero
230230Per bende al capo avvolte e tremolanti
Piume, dell'Asia Regnator tiranno,
Quando là di Bisanzio entro le soglie
Del geloso riserbo a Vener caro
Move a diporto, e il guardo intanto e l’alma
235235Nelle amale sembianze avido ei pasce.
Ma come pria s’arrende alla palese
Intelligenza e ne sortì le prove,

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Non più frequente a dissetar la terra
Scende la pioggia in primavera, e tutti
240Del suol ravviva i germi e il verde onore,
Di quel che il prode arïete con folta
Schiera d’amori e d’imenei si volga
A tutte quante, e le fecondi insieme.
E Borea imita, che di ghiacci irsuto
245Vola, sperdendo i nembi e le procelle;
Lieve da pria sorge e il deserto scorre,
Aura leggiera; e cresce indi, e piegarsi
Primamente e ondeggiar vedi le biade
E i sommi rami, e per le quete selve
250Moversi intenso un mormorio s’ascolta,
E si spingon da lunge i flutti al lido;
Poi vïolento ognor più infuria, e l’alte
Cime flagella delle querce, e i campi
Sgomina e mesce, e cielo e mar confonde.
     255Nè più d’uno al lavor dolce consenti
De’ tuoi Merini; e come stanca il primo
L’uso soverchio, dell’agnella, un altro
Poderoso ne manda, e quel ritraggi.
E permetti che a lui pingui pasture
260Ne’ tuoi campi verdeggino, e il fiorente
Citiso, e il salcio amaro, e l’aspra avena,

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Che al ber spesso lo adeschi, e lo ricrei
Di nuove forze; e quando egro il combatte
Un qualche morbo, o lo travaglia, quella
265Che de’ mali è il peggior, morte vicina,
Dall’agnelle il rimovi, e al generoso
Ozio del prode e al suo invecchiar perdona.
Più d’un, diss’io, non vada ad acooppiarsi
De’ tuoi Merini; perocchè feroci,
270D’umili e queti, gelosia li rende;
E a battagliar fra loro orribilmente
Amor li porta e in vane ire consuma.
Se molti sono i maschi, indarno speri
Esser pace tra quelli: allor turbata
275Sarà l’opra di amor. Fiero l’un l’altro
Guata e incalza, e i rivali abbandonando
Le contese consorti, a la battaglia
Chinano i duri capi e si van contra
Resistendo superbi; e ai disperati
280Alterni colpi tremano le selve.
Certo al furor che li trasporta, al suono
Delle percosse, al sangue atro che gronda,
Tu diresti mortale esser la pugna,
E che all’urto e agli scontri o l’uno o l’altro
285De’ concorrenti arïeti soccomba;

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Questa tanta di posse iuntil mostra
E così periglioso aspro conflitto
Cansar potrai se d’un monton ti vali.
     Ma poichè tocca il Sol l’aurate spighe
290Della celeste Erigone, dividi
L’agne feconde dall’arïete; e vada
Questi altrove a cercar novelle spose,
Ed invilite greggi a far migliori.
Quelle, già madri, e del crescente germe
295Teso il candido fianco, a pascer guida
In più guardato campo, e le raccogli
Con più cura ed amor lungo gli erbosi
E tremolanti rivi a dissetarsi.
Or qui s’addoppia ogni tuo studio, e nuova
300Arte conviensi e provveder più assai;
Perchè, invocata all’opera, non manchi
Indi Lucina, e di periglio fuore
Ciascuna delle madri a fin maturi
La concetta sua prole. Anco l’agnella
305Con riserbo maggior le vie misura,
E dal saltar si tempera, chè vede
Già col desio l’agnel che sente il ventre.
E poichè al terzo mese i pieni fianchi
Si tendono, e più scarse a mezzo autunno

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310Appajon l’erbe, la ritrar dai paschi
In tutto è meglio; chè perigli assai
Schifar t’è dato nell’ovil. La molle
Di notturna rugiada e fredde piove
Erba le nuoce; subite paure
315Le danno i visti lupi, e terror vano
Gli augei che di repente escon volando
Fuor dalle macchie, e il fiammeggiar de’ lampi,
E il correr greve di vicini tuoni
Che ne le valli in suon cupo si perdono.
320Per non molto cammin soavemente
Da te fia scorta; e non t’incresca ir lento
Innanzi, e soffermarti ove la via
Difficil monti, o fra burroni e sterpi
Rapida si disserri e discoscesa.
325Quando la sesta luna al moribondo
Raggio s’inaura del fratel, che mesto
Nel freddo albergo di Chiron s’accoglie,
Del prossimo travaglio manifesti
Eccoti i segni alle fattrici: e il sangue
330Turge, enfiando le poppe, e si fa latte,
Che provvidente la natura in serbo
Ai nascituri agnelli ivi condensa.
Ai figli che verranno e alle nodrici

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Madri novello appresterai lo albergo
335Nell’ampio ovile; e le ingegnose imita
Api che ai figliolin, che il ventre omai
Patir non puote, in primavera assestano
Lineando lor celle, e fan tesoro
D’ogni fior ricogliendo e d’ogni stelo.
340Giovi intanto recar dentro ai presepj
Col disseccato fien molli farine
In tepid’onda, se il dicembre è crudo.
Poi le pendenti intorno a le mammelle
Sordide lane di ricider pensa;
345Che lo stupido agnel spesso, in iscambio
De’ capezzoli, afferra avido, e molto
Succiando inghiotte, misero! e perisce
Di fame; chè i vitali aditi empiendo
L’avvolta lana, anéla tosse move
350Dai precordj insanabile, e le vie
Oppíla e chiude onde tragitto ha il cibo.
     Veneranda Ilittia, che dell’Amniso
Regni la sponda e dell’Asteria Delo:
Tu di Giove figliola, a cui le madri
355Gravi, condotte nel travaglio, pregano
Di soccorso: tu lieta di fanciulle
Servatrice prudente, o Dea Lucina,

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Non isdegnar d’un tuo sguardo benigno
Anco le greggi; e coronando il capo
360Dell’odoroso dittamo, t’avvia
Visitando le madri ad una ad una,
E la prole ad uscir cauta disponi.
Quando s’aprono i parti, e notte e giorno
Fra le mandrie il pastor vegli, nè all’uopo
365Ricusi egli la man, dove il richiegga
Necessitade. Imperciocchè non uno,
Nè agevol sempre è il modo ond’esce il parto.
Agevol fia, se colla punta il muso
Ti si presenta, e in un con esso i piedi:
370Breve è il travaglio allor, nè indarno affanna
Fiera pena di premiti la madre.
Ma spesso il sommo della fronte appare,
E il volume all’uscir del figlio addoppia;
Or mal le gambe anterior s’intrecciano
375Sul collo, o vòlte indietro, uguali pontano
Co’ ginocchi l’uscita; ora fra quelle
Del bellíco la corda s’attortiglia;
Or co’ pie deretani inutilmente
Si spone, e tra l’ambascia e il premer lungo
380La pecorella invano urta e si sforza.
Con ostetrica man tornando il parto

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Al cessar delle doglie entro il capace
Seno, lo svolgi lievemente e avvia
A miglior modo. Ove all’uscir sia lento,
385D’aitarlo è mestieri: e infranger anco
Potrai la corda, se raggruppa e stringe
Il corpo, o annoda, o intrica. E come tolta
Sarà d’impaccio e d’ogni brutto incarco
Sgombra la pecorella, ogni sozzura
390Ne togli, e in un col figlio a giacer pònla
Sopra molli di fieno aridi fasci.
Già per lattarlo, in vago atto d’amore
Su lui tutta si china, e gli appresenta
Le piene poppe; e come dell’informe
395Orsa narra la fama, che i suoi crudi
Nati figuri colla lingua, anch’ella
Tutto il vezzeggia, e l’umidor ne stingue.
Che se per nuova a lei materna cura
Non avvertisse a questo, e tu lo spargi
400Di trito sal, che la vi adeschi; e spremi
Da’ capezzoli il latte ancor ristretti,
Acciò s’ausi a quel sapor l’agnello.
Non però fia che l’agna a la sua prole
Disattenta non badi, o le ricusi
405Anco le poppe, ed il crudele imiti

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E snaturato delle madri esemplo:
Che, perchè intatta a voluttà si serbi
Del sen la colma nitidezza, il latte
Negano ai figli del materno petto.
410Ed è per ciò, se disprezzati e vili
Fra poveri tugurj in rozze lane.
Crescono avvolti; e il gel li offende, e il sole
Arde ne’ solchi abbandonati, e gridano
Ne’ penetrali indarno all’indiscreta
415Mercenaria nodrice, a cui la messe
Preme lungi nel campo, ed alla madre
Gridano ancor, che non gli ascolta; e i molli
Sonni produce ne’ palagi accolta;
E in lieti ozj si vive, e sè medesma
420Tenta alle danze libero ed al canto.
Ma quel vitale umor, che nodrimento
Formò natura ai pargoletti infanti,
Costretto a rifluir per li negati
Aditi al sangue, vendica l’oltraggio;
425E di punture armato e d’aspre doglie,
Assidera le membra, e ne scommette
E piega l’ossa, o mal protende i nervi.
Volonterosa, ogni qual volta il figlio
La cerchi, ecco l’agnella a lui si arrende;

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430Lui solo ama e carezza. Il vigilante
Fervido amor non somiglianza inganna
D’altro agnel che smarrito abbia la madre;
E avrai di questo esperienza intera,
Quando confusamente entro a l’ovile
435Dai pascoli tornando, a nodrir corre
Il dolce parto. Da per tutto movesi
Un belar misto di pietosi gemiti,
Un intenso rispondersi; un subbuglio
Per tutto vedi, un ricercarsi, un premere;
440Finchè ciascuna delle madri, accortasi
Del proprio figlio, a lui tutta abbandonasi.
Del pingue latte si fa bella intanto
La prole, che al tornar di primavera
Ai pascoli uscirà fatta robusta.
445Quindi s’addoppia prosperando il gregge,
E il falso pel dispogliasi, e sottentra
La finissima lana, e così abbonda
Col numero il guadagno. A questo modo,
Della vil povertade il fiero stato
450Schifando e i danni, si fa ricco e lieto
Il buon pastore; e le cittadi e i regni
Crescono; e Pale ai popoli guidando
Per man l’aurea abbondanza, i dì beati

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Di Saturno rimena e il viver dolce.
455Di tanto ben, di tal dovizia un nume
Privilegia la terra, che l’armento
Lieto pasce dell’agne; e così Giove
Fermò nel suo consiglio, allorchè Frisso
Scampando di sventura, al sacro lido
460Venne di Colco, e l’aureo vello appese
Nella selva di Marte: alle venture
Età fatica e glorïosa meta.
     Pe’ medicati germi al suol commessi
Dall’empia Ino, moriano alle Tebane
465Genti ne’ solchi le sperate indarno
Fallaci biade: e cruda era la fame
D’ogn’intorno, e le ville erano in pianto;
Deserti i campi, e stanca de’ cultori
La speranza. Feroce allor dall’alta
470Cadméa rocca parlò degli adirati
Numi la voce; e promettea, che tolta
Saria l’orribil fame, ov’Elle e Frisso,
I miseri fratelli, al re figlioli,
Cadessero alle patrie are trafitti.
475Così della madrigna Ino l’acerba
Vendetta s’adempìa contro la prole
D’Atamante, e l’oracolo bugiardo

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De’ compri vati assecondò quell’ira.
Fra il compianto di Tebe e gli arsi aromi,
480E i singhiozzi e i votivi inni funèbri
Io non dirò, come di negre bende
Cinti all’ara n’andassero, congiunti
Strettamente per mano ambo i fratelli;
Nè del padre dirò, che dell’irato
485Nume accusando la mortal risposta
E la vita soverchia, tutto chiuso
Nel manto, e stretto dall’affanno, all’ara
Muto scorgea que’ giovanetti; e come
Pietà n’avendo il sacerdote, ascoso
490Tra i fiori e le corone il sacro ferro
Celasse al padre misero e ai fanciulli;
Che già chinando le ginocchia, e alzando
Le mani supplichevoli, a la scure
Porgean le teste. Se non che repente,
495Opra d’un Dio, gli avvolse entro al suo cavo
Seno candida nube; e levò al cielo,
E li sostenne un arïete, a cui
D’auro splendeano i velli; e come l’ale
Avesse, le sottili aure trattando
500Con bifid’unghia, infino al mar che suona
Fra il Tracio lido e la Sigea contrada

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Salvi li addusse. E qui, degna di molta
Pietade, una sventura all’infelice
Verginella cogliea; che dal frastuono
505Esterrefatta de’ sonanti flutti.
Lo sguardo alla soggetta onda converse
Palpitando e tremando; e a sè medesma
Di mente uscita (nè le valse, ahi lassa!
Il favor d’alcun Dio, nè del fratello,
510A cui da tergo si stringea, l’aita)
Indietro abbandonandosi di tutta
La persona, nel mar cadde, che il nome
Tolse da lei che vi morì sommersa.
Ma ben dappoichè l’onda inghiottì avara
515La bella spoglia, dai rimoti seggi
Le marittime Ninfe alzâro un pianto
Miserabile, e tolto il freddo corpo
De la fanciulla ai dispietati mostri
Ch’avidi intorno se gli fean danzando,
520Non patìr che insepolto il caro spirto
Lungo la morta Stige errando andasse,
Di pace escluso; e a fior d’acqua recando
La vaga Elle, compièro i mesti uffici
Sulle piagge Atamantidi, e pietose
525Poser la tomba tra i funerei pini.

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Velocissimo intanto oltre correa
L’aureo monton, recandosi sul dorso
Il vedovo fratello; e dalla vista
Perduto era l’Egèo con le natanti
530Sparse isolette, e del sonante Eusino
Apriasi il vasto flutto ai mesti sguardi
Del volatore. Allor come a secura
Stanza ed asilo, la divina belva
Primamente calò, lo stranio corso
535Dell’etra abbandonando, alle felici
Glebe di Colco; e in securtà dall’ire
Della cruda madrigna, e di periglio
Salvo, il carco depose. E come i numi
Dell’ignota adorava ospital terra
540Il giovinetto, e pianto ebbe gran tempo
La perduta sorella, in sagrificio
Menò l’arïete a Giove; e ne le belle
Del Fasi onde correnti il vello d’oro
Purificando, in voto indi l’appese.
545E sì della devota opra si piacque
Giove, che in fior d’ogni dovizia pose
La terra, che del vello aureo serbava
Il sacrato tesoro: armenti e messi
Quindi abbondàro a Colco, e mille prodi
550Si volser quindi al generoso acquisto.