Libro quinto

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IV VI
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LIBRO QUINTO.



Te seguitando, o Febo, alle dilette
Del Tessalico Amfriso onde correnti,
Amor della tua Dafne e de’ pastori,
Dirò, siccome intatto il bianco vello
5Serbisi e tonda, e quai colori assuma;
Perocchè dolce ancor memoria suona
Che a la bell’opra un dì le rosee mani
Non isdegnasti, il fatal dì che, tolto
Dai convivj celesti e da le stelle
10Misero esilio, sulla terra andavi
Cercandoti un asilo, onde sottrarti
All’ira, che di Giove uscia tremenda
Per gli spenti Ciclopi. Ramingando
Del buon figlio di Téreo ti accolse
15La casa; e tramutando arco e faretra
In pastoral verghetta, un gregge avesti
A la tua cura; se non che la dolce
Arte del canto e la Deliaca lira
Manifestava Apollo, e la presenza
20Del nume ascoso possedea quel loco.

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Dell’ospite gentile entro gli alberghi,
Meraviglia a veder, sotto al tuo ferro
Candidissimo il vello ognor cadea:
Pari a molle bambagia, ed alle lievi
25Nebbie, che Delia nelle notti estive
Sorgendo imbianca, e l’aura apre e rigira
Per lo vano seren del muto Olimpo.
Te, Nomio Iddio, seguendo, i pregi adunque
Io canterò delle crescenti lane,
30E i begli usi di quelle, e qual convegna
Per tonderle benigno astro aspettarsi.
Se non che molto ancor prima mi avanza
Dell’impreso cammin; chè de’ lattanti
Agnelli, e dello studio onde si parte
35In duo le greggi e la famiglia accresce
Del nuovo anno all’aprirsi, a dir mi resta.
     Quando più presso il sole a la superna
Sfera del Tauro per diritta via
Giù volta i raggi, infin dall’alte cime
40Sciolta la neve arrendesi e si stilla
In rivoletti; e quell’umor che stretto
Da prima in ghiacci inorridì la terra,
Le glebe arse feconda e le rinverde.
Nel maggio al fin lasci la poppa, e vada,

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45Fatto adulto l’agnello a la campagna.
Molte crebbe il terren floride erbette,
E di tenere scorze e di virgulti
Vestì le selve primavera e i monti.
Traviasi il latte e volgesi nel sangue
50Se non lo mungi al terzo dì; la madre
Si rifà dai disagi e si rinfranca
Dell’umor ricorrente, onde alla state
Vigorosa le nuove opre comporta
De’ sortiti imenei. Che se gonfiando
55Va le mammelle ancor turgido e crasso,
E le punge addensandosi e addolora,
Di sottrarlo è mestieri, ove la madre
Patir nol possa; ma votarne affatto
Non ne dovrai le poppe, onde al capace
60Sen non derivi del soverchio umore
Altra copia, che altrove esser dee volta.
E provveder potrai (perchè fin l’uso
Del lattar si dimentichi e il bisogno)
Che lungi dalla madre a pascer vada
65L’agnello, e lei non vegga e non ascolti
Per tutto il corso d’una luna almeno.
Ma ben presto all’amor, che dal bisogno
E dall’utilità prende fra i bruti

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Misura o norma, obblio succede, e i volti
70E la voce e le forme in un confonde.
Degli agnelli partir quindi rimane
La schiera, e statuir nuove dimore;
Acciocchè forse amor questi non coglia
Innanzi tempo, e i semi anco immaturi
75Corrano in disugual lotta commisti.
     E dirò ancor, se la pietà il consente,
Come a tempo adoprar vuolsi l’acuto
Ferro, e scemarne la soverchia e vana
Pendula coda, ed evirarne i maschi.
80Nè parer ti dovrà del taglio atroce
Ignobil l’opra o ingiusta, ov’io ti mostri
L’alta necessità che a ciò ti sforza.
Bastan pochi robusti e generosi
Mariti ad ampio gregge, e pochi ancora
85Fra i molti nati agnelli a te verranno
Atti alle nozze. Alcun nel vello accusa
Del non perfetto genitor la rozza
Ispida lana; alcun debili membra
Sortì nascendo (o che natura avversa
90Gli fosse infin dal matern’alvo, o il latte
Gli sia mancato, o morbo altro il cogliesse.)
Spegni in questi il mal seme; e quello eletto

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Alle spose novelle, in un confuso
Vada co’ maschi e sue venture apprenda,
95Finchè il mese vigesmo in tutto assodi
La vigorìa nascente e amor gli spiri.
Opra ingrata ad amore, opra nemica
Certo all’alma natura or ti consiglia
Non diritto o ragion, ma l’util solo.
100Perocchè a tutti madre è la natura
Ugualmente benigna, e a tutti assente
I diletti d’amore: e l’uom turbando
Per l’util suo le venerande leggi
Di sì gran madre, a suo poter ne strugge
105Molte, o ricrea come gli pare: e spegno
Ora le schiatte ed or le fa migliori;
E il cieco fato imita, a cui non piacque
Por le sorti dell’uom nel mondo uguali.
E questi fe’ soggetto, e quei signore
110Locò sul trono; e tal nascendo, in fasce
D’auro e di bisso avvolgesi, e per lieta
Splendida via, non per suo merto, il piede
Move fra le dovizie e fra i diletti
Per man della fortuna; e condannato
115Tal altro dall’arcana ira del cielo,

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Servo ti nasce, e suo retaggio fassi
Da prim'anni il disagio e la viltade.
     L’agnel, che padre al gregge un dì fia scelto,
Cresce intero di molli erbe e di vive
120Correnti, e in giuochi ogni suo studio è posto;
Ma quello a cui non perdonò l’atroce
Taglio, in orror della natura è fatto;
D’inglorio adipe avvolgesi, e invilisce
Immemore pe’ campi. Invan per lui
125Tornerà primavera; invan l’agnella
Lussureggiante gli si aggira ai fianchi,
Vaga pur delle nozze e dell’aspetto;
Chè umil la testa reclinando a terra
(Quasi sè stesso accusi e sua sventura)
130Sta privo di baldanza; e quella intanto,
Come l'abbia in dispetto, a lui s’invola
E lasciva si mesce entro al drappello.
     Fra un nodo e l’altro ai nati agnelli or pensa
Di ricider la coda, onde pendendo
135Poi non insozzi, e gran brutture aduni;
Chè dà alle gambe, e stimolando accresce
Delle corse la foga. Come quando
A men degno destrier, perchè nel corso
Altrui prevaglia ed alla meta arrivi,

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140Di ciondoli appuntati e ferree nappe
Armansi i fianchi; e già salta la sbarra
Con impeto, già prende il campo, e sbalza
Di sotto alle fuggenti unghie l’arena;
Nè mai dal corso si ristà, chè svolto
145Pei lombi e per lo petto il fiero ordigno,
Tempestando di punte si dibatte;
E tuttavia lo insanguina ed incalza.
A questo aggiugni ancor, che del soverchio
Scemandone la coda, ognor più mondo
150Sarà l’agnello; e quell’umor che indarno
Deriva a lei dal corpo, i ben tarchiati
Fianchi rallarga e le complesse groppe.
Talora oltre il confin del dritto eccede
L’un corno o l’altro; e questi anco recidi:
155Perchè forte non premano crescendo
Il capo, o che mortali armi non sièno
Cozzando ne’ conflitti. Ho visto ancora
Per rintuzzar lor ire, a la radice
Trapassar delle corna un ferro acuto,
160Come s’arma talor di scabro anello
Dell’indomito verro il grifo immondo;
Ma il foro ampio addolora, a le percosse
Stillando sangue, e dalla testa infrante
Cadono agli urti, e il bel capo si sforma.

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     165Nè men grave ti sia ne’ di festivi
Notar le pecorelle ad una ad una.
Utile è ancor saper qual madre, e quale
De’ montoni fia padre ai nati agnelli;
Qual più dell’agne in latte abbondi, e cresca
170Migliori i figli suoi; onde n’escluda
Quel capo o l’altro, o con più amor lo guardi.
Del chiuso ovil si asside in sulla soglia
Il pastor, rivocando alle sue mani
La madre e il figlio, e in sull’orecchie a intrambi
175Corrispondente il numero v’incide,
Cui nè tempo, nè caso altro potria
La stabil nota scancellar più mai.
Breve dolor da ciò non ti sconforti;
Chè non molto vital senso alla punta
180Dell’orecchio si aggiugne, e il sangue espresso
Ristagna atra fuliggine e sal trito.
     Ma tempo or vien, che al genïal lavoro
Del tondere ti appresti; ecco sorride,
Dalle fecondatrici aure guidata,
185Fiorente primavera alle campagne.
Tosando al maggio, utilità ti viene
Cui spregiar non potresti. Alla nudata
Pecorella non è che la propinqua

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State più gravi, ed alle fresche aurette
190Ricrearsi potrà dall’affannoso
Ardere della terra; e quando il verno
Le foreste dispoglia e l’aere inaspra,
Anco il gregge vestito è nelle membra
Di nuove lane, e il suo rigor nol fiede.
195Or qui s’inforsa in fra parer contrarj
Il dubbio rito. Alcun sui dorsi il vello
Di tergere nell’onda ha per usanza;
Altri il contrario segue, e sì lo assenna
Il timor, che rappreso in su la pelle
200L’umidor de’ lavacri, un qualche danno
Partorisca alla greggia, e così il tonde
Di brutture com’è sordido e crasso.
Ma le sucide lane agevol quindi
Non è il purgar, che molte fila indarno
205Si disperdon ne’ fiumi, e delle ciocche
Il complesso si svolve e perde il lustro.
Cerca limpido rio, cerca d’apriche
Rive bei fonti; e se l’onde van brune
Di loto, o periglioso è l’appressarsi
210Alle sponde dirotte, o cupo è il fondo,
Dentro a tini raccogli e larghe docce
L’acqua, e sì la v’immergi entro e costringi;

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Lieve quindi con man trattando svolvi
Da per tutto le ciocche e le riversa,
215E le tergi bagnandole e spremendo.
Quando immolli il tuo gregge, il dolce aspetta
Dell’aura occidental soffio sereno;
Chè per far bello allora e più ridente
Sulla terra il soggiorno all’alma Clori,
220Zeffiro sgombra di rei nembi il cielo.
Per molti indizj, che fallir non sanno
Chi ben guarda, ti fia chiaro e palese
Quel che il tempo apparecchia al dì venturo;
E se non ch’io ti adoro, e i tuoi vestigi
225Seguo da lunge riverendo, o dolce
Figliol delle Camene, o chiaro spirto,
Onor del Mincio; a cui primo, tornando
Dai Beotici colli, i sacri giochi
D’Alfeo recasti e i trionfali allori:
230Io qui tutti direi gli avvisi e i segni
Che ne dimostra il ciel, la terra, e il mare,
Se la pioggia n’è sopra, onde interrotta
Da rio tempo non sia l’opra, che lunga
Del tosar ti rimane i bianchi velli;
235Ma si sconviene a irondin pellegrina
Certar col bianco cigno, a cui diè Febo

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La fatidica voce e l’ali d’oro.
Sol questo aggiungo, se certezza intera
Di non mutabil tempo aver ti piace:
240Pon mente al vivo argento, che ristretto
Nel cavo vetro, or sale alto, or discende
Pel lungo della tessera notata.
Se in ciel suoi vaporosi atoini aduna
L’Austro piovoso, e lieve l’aere incombe
245Sulla mobil colonna, si restringe,
Ognor più al fondo il liquido metallo;
Ma se dal soprastante etere spinto,
Alto si leva per li gradi, e monta
Verso là dove il vetro si sigilla
250D’insuperabil chiuso, indarno temi
Che te nell’opra lunga pioggia incolga.
Riuscendo dai fiumi, al discoperto
Vadan le agnelle a pascolar l’apriche
Vette, e i campi disgombri, e del merigge
255I caldi raggi accolgano e l’orezzo.
Bello è mirarle biancheggiar sui verdi
Colli adunate, e al Sol crollare i velli,
E liete andar, siccome onor le tocchi
Del candido mantel che le ricopre.
260Come asciutto sia il vello, rivocando

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Seco le pecorelle il buon pastore,
Le sopponga all’acciaro; e dolcemente
Da vincigli mollissimi costrette
Nelle gambe e ne’ capi, in su la pelle
265La bianca lana di tosar consigli.
Ma badi allor che a impaurir non s’abbia
La confidente agnella: o con mal piglio
L’assesti il mandriano, o la costringa
A incomode posture, o mal l’annodi;
270Chè nel divincolarsi inutilmente
Tenta uscirgli di mano, e nello sforzo
Sè offende, e contro al ferro urta e si fiede.
Molti vid’io tra il corpo e le scorrenti
Forbici eburneo pettine frapporre,
275Su cui radendo i velli il timor cessa
Di ferirne la cute. Agevol questa
S’alza col vello, e l’affilato acciaro
Seco la porta; allor del sangue espresso
Si fanno atri i bei fiocchi, e mal lo arresti
280Con medicata polve; il dolor cuoce
La pecorella, e s’agita e si mesce,
E a compir l’interrotta opra non vali.
Seguitando talun le chiare leggi
Del gran Coltivator, che in val di Tebro

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285Trasse dai campi Ocnéi le agresti Muse,
Sui nudi corpi infonde olio d’amare
Bacche ed acerba amurca e trito zolfo; .
Perchè dal morso de’ volanti insetti
E dagli estri mortiferi li salvi;
290Ma purchè intatto sia di tagli, il corpo,
Ti basterà che fredda indi nol coglia
La pioggia, e che non l’arda il Sol diritto.
Dal nuovo esser confusa, a pascer torna
La già nudata pecorella, e degna
295Qui di riso vedrai scena innocente;
Chè non più conosciuta a capo chino
Va fra l’altre compagne; e quelle ignare
Dello scambiato aspetto, le van contra
E dal branco la cacciano cozzando.
    300Se rimonda non l’hai, se pingue ancora
Dell’unto natural sotto all’acciaro
Cadea la lana, all’aria aperta e al sole
Lasciala, infin ch’ogni umidor sia tolto.
Ampia, asciutta la stanza a la tua lana
305Scegli capace: nè calor vi passi
Stipandosi molesto, o presso terra
Non vi morda il cemento umido nitro,
Nè di muffa spiacente intorno olezzi.

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Sovr’alzati graticci a giacer ponla
310In fasci avvolta, e spesso percotendo
Con mangani que’ fiocchi, la rodente
Polve ne scevra; e ad esular costringi
Alle pareti e al sommo i mal cresciuti
Bruchi, che di farfalle hanno sembianza
315Pur mò dal baco uscite; e quei volando
Dall’intime latèbre al discoperto,
Al muro indi si appigliano e agli assíti;
Dove meglio parer li fa la calce
Di che tutto biancheggia il nuovo albergo.
320Con larghe mappe allor li schiaccia e premi,
Commettendole ai pali, e così tutta
La germogliante ognor peste si uccide.
Invan lo zolfo vaporoso incendi
E l’atra pece Idéa v’abbruci, e purghi
325Con suffumigi amari, e il fummo addensi
In ampio sito; al tetro odor s’aúsa
Il vile insetto, e non di men vi pasce,
E dagli arsi bitumi a’ tuoi boldroni
Spiacevole s’apprende il tristo odore.
330Schiaccia pur di tue man quanti vedrai
Malaugurati vermi, e nella notte
Recavi ardenti faci e chiuse lampe

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Di raccolti cammini, a cui ronzando
Spesso e volando, abbrucian l’ale e i corpi.
335Qual se per caso alcun fra le conteste
Compagini talor d’armata nave
S’apprende il foco nella negra polve,
Che di folgore in guisa, il fiammeggiante
Incendio scoppia e tuona la ruina:
340Nella ciurma infelice, orrendo a dirsi!
Cade la strage: e chi, sbarrato il ventre,
Fuor dimostra gli entragni; e chi del capo
Scemo vi giace, e chi d’un braccio è manco,
E chi de’ piedi, e mutilato e guasto
345Nelle misere membra: a quella immago
Vedrai riarsi quegli insetti e morti.
Spettacol miserabile e crudele
Al Samio, liberal d’alma e di senso
Umano ai bruti; a cui per vie mal note
350Tragittava dell’uom la non mortale
Anima, e in disugual sede ponea
Questa diva fiammella, e dagli Eterni
Creata cosa. Ond’empio e disonesto
Fu l’innocuo versar sangue dei bruti;
355Nè all’apprestate mense, a cui tributo
Reca l’ovil di pingui ostie e vivande,

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Ardito era toccar pietoso il figlio;
Chè sospettò negli animai trasfuso
De’ suoi cari parenti il sangue e l’alma.
360Ma sdegnando brutal forma lo spirto
Irrequïeto, e il vile scambio, al cielo
Dalla Prima Cagion sorge, chiamato
Ad abitar le sfere; e dentro ai campi
Della luce si avvolge, e segue il carro
365Cogli altri Iddii del sempiterno Giove.
     Quei che pria di tosar la bianca lana
Ne’ lavacri condotto ha la sua greggia,
Segua, rasa che l’abbia, a rimondarla.
E pria dai groppi la divida, e scevri
370Dalle paglie minute, e ben la scuota
Dell’ingenita polvere, e da quanto
Il lungo uso del gregge la fe’ brutta.
Poi tepid’onda in gran vasi apparecchi
Ove ammollarla; chè il tepor la solve
375D’ogn’unto, in cui la fredda acqua non puote
E via sovresso vaneggiar vedrai
Rigirandosi il crasso olio, condotto
A sommo; e se vi mesci il grave-olente
Pe’ congeniti sali umor che fonde
380Nelle implicate reni l’uman sangue,

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Riuscir da’ tini la vedrai, siccome
Mai non si fosse d’unto alcun macchiata.
Indi in corrente rio dentro a’ graticci
Di larghe maglie la porrai divisa;
385E sozzopra mescendola, a fior d’acqua
Vada gran tempo, nè però s’affondi.
Così vedi talor ne’ ben contesti
Vimini il pesce a lungo uso serbarsi,
Cui fe’ già prigionier rete commessa
390E non vista ne’ gorghi ampj del fiume:
Vive laggiù, chè ne’ vincigli passa
L’onda natia; ma non però da quelli
Dato gli è uscir, chè in serbo ivi l’aduna
Il pescatore alla città lontana.
395Quindi la togli, e a disseccar disponi
Dove che sia; purchè rimondo il sito
Abbia da prima, e il vago aere vi corra
Libero, e più che il Sol, l’ombra l’asciughi.
Quindi a tinger la reca entro le gravi
400Officine del guado ridolenti,
Pria che l’industre artier l’avvolga in fila
E all’ordigno versatile accomandi.
Tal lana il suo candor serbi intessuta,
E tal de’ suoi colori Iri dipinga.

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405Bello è certo mirar, come vi splenda
Il murice di Tiro, il nitid’ostro,
E la rosa vermiglia, e l’odorato
Croco, il chiaro lichène, e lo smeraldo.
Tal della notte lo stellante azzurro
410Copia in sè stessa e in molto guado imbruna;
Tal di vivo cilestro almo colore
Ride, o imperla festiva, e il latte agguaglia;
Or della mammoletta nel pudico
Pallor si tinge, a verginelle caro,
415Ed ora in vedovil bruno si ammorta;
Se non che la natia porpora e il succo
Del sanguigno Nopallo a lei prepara
Con più vivi color la Messicana
Cocciniglia, crescendo in tra le foglie
420Del barbarico Cacto. Uscita appena
Dall’uovo minutissimo, s'apprende
All’indigeno fusto, e sì vi pasce
Immobile; e a quel modo, onde tramuta
Il polipo nell’onda ogni sostanza
425Nel color di che a noi splende il Corallo,
Converte ella quel succo. Ogni virgulto,
Ogni stelo, ogni foglia di viventi
Salme va carca, poichè amor le accoppia

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E ne prospera i parti e li feconda;
430E come i figliolin novellamente
Uscîro in vita, ecco le madri in breve
Trasmutarsi e morir; che poi raccolte
Per mano industre dalle frondi, e ai vivi
Raggi opposte del sole, aride spoglie
435Vengon d’Europa fortunata ai lidi.
    Di studio altro argomento e di diletto,
Resta che vegga dell’ordir la molta
Fatica, e l’edifizio: all'arti belle
Caro, e al bisogno, ed al commercio, e al lusso
440Ritrovatore, che dell’arti è padre.
Non senza alto stupor maravigliando
N’andrai dove la ricca Anglia, e il rivale
Fiamingo, e il Gallo industrïoso aduna
Le bianche lane a lavorio diverso.
445Mille braccia vedresti affaccendarsi
Nel vario ufficio; e svolgere dai nodi
Le colorate fila: altri in matasse
Addoppiarle, imponendole ai girevoli
Rocchetti, e poi da questi, altri ai sonori
450Telaj recarle ed intrecciarne al subbio
I raggruppati licci; e fra le alterne
Mobili tratte scorrere veloce

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La ferrea spola, e il pettine addensarle,
Premendole più sempre: e de’ versati
455Naspi, e all’intenso fremere de’ perni
E delle rote, ed al picchiar frequente
De’ bossoli patenti, un indistinto
Tumulto, un suono, un murmure si mesce,
Qual se pesante e rara in ampio lago
460Scenda crosciando, o il duro suol percuota,
Senza interruzïon la pioggia estiva.