Libro terzo

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II IV
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LIBRO TERZO.



Già le dorate porte apre dell’anno
Rapido il Sol, che disfavilla e scalda
Al celeste Monton gli umidi velli,
Ugual partendo in ciel la luce e l’ombra.
5Sento l’aura d’april; sento commosso
Da per tutto uno spirto errar di germi
Fecondatore, e tutti aprir dell’alma
Natura i parti: e tornar l’erbe ai prati,
E le frondi alle piante, e più sereno
10Far l’aere, e tutta illeggiadrir la terra.
L’accorto zappator l’armi riprende,
E sull’opre che il verno a vil condusse
Riede; e l’esperto vignajuol sui poggi
Trova la sacra vite, e ne accomanda
15Agli olmi i tralci. Per gli ameni campi
E le piagge ridenti e lungo i rivi
E l’ime valli intanto odo il frequente
Suon d’agresti canzoni, e veggo in festa
E in tumulto ai lavori uscir le ville.
20Nè l’ignavo tepor del chiuso ovile

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Più le greggi diletta; ed inusata
Al verno, un’allegrezza, un brio le assale,
E novello un piacer, che fuor le mena
Da le stalle pe’ campi a pascer l’erbe
25Che spuntò primavera. Alto ne’ solchi
Il frumento verdeggia e il molle lino;
Già primaticce sporgonsi le gemme
Sui filar della vite e sugli arbusti,
Cui picciol crollo offende; ogni confine
30È a Cerer sacro ed alle Driadi e a Bacco.
Or che l’armento esser potria molesto
Alla campagna, volontario prenda
Dalla patria diletta e dalla dolce
Consorte esilio, e quanto a lui bisogni
35Nell’estivo cammin seco si tragga
Sollecito il pastor; non meno al gregge,
Che a sè medesmo provvedendo. E prima
Del portatile ovil scelga i graticci
Di vimini contesti, e gli appuntati
40Pali, e l’aste cedevoli, e le maglie,
E secchj, e cave docce, e in piè commessi
Truogoli, e sbarre, e larghe assi, e vincigli;
Onde pei monti errando, agevol opra
Gli sia porre l’ovil, di passo in passo

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45Seguendo ove miglior pasco gli occorra.
Non la Saturnia falce, e non gli gravi
Il ferreo pillo (a tor le frondi adatta
La prima, e in fascio a còr l’erba agli agnelli;
Il secondo a interrar lungo le fila
50Divisate nel suol profondi i pali,
Fiancheggiando l’ovil). Nè il sottil ferro
Dimentichi, onde s’apre al gregge infermo
Talor la vena; e il pingue zolfo, e il crasso
Asfaltico bitume, e il puro sale.
55Segua l’amico delle greggi, il forte
Animoso mastin, di ferree punte
Armato il breve collo: abil difesa
Incontro al lupo assalitor. Robuste
E nervose le membra, e scintillanti
60Abbia gli occhi, e mantel bianco, convolto
Di pelo assai, che dalle acute il salvi
Scane de’ lupi, e sì li cacci e assalti.
Di tutto questo provveduto, ai monti
L’Italico pastor mova le insegne:
65Alle Retiche balze, ai gioghi alpestri
Del pinifero Vesulo, a le falde
Dell’alpi Cozie, all’Appenin selvoso.
    Voi, che i puri lavacri e gli antri e l’ombre

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D’antichissime selve avete in cura,
70Oreadi benigne, il vostro regno
Ne concedete; perocchè, solenne
Ostia votiva, la miglior dell’agne
A voi cadrà sui coronati altari
Devotamente al rinnovar d’ogn’anno.
75Voi dagli estri mortiferi volanti
E dall’orride serpi e da vepraj
E dalle avvelenate erbe guardate
Le pecorelle ai pascoli. Per voi
Stien lunge i lupi: nè al tornar del vespro
80Pianga per voi diserto in sulla soglia
Del caro pecoril (sè stesso indarno
Accusando e i suoi veltri e la fortuna )
Il pastor, che veduto ha dell’armento
Mancar l’un capo o l’altro; onde incitando
85Dispettoso per valli e per foreste
L’animoso mastino, il cammin lungo
Del dì ritesse nella tarda notte,
E i miserandi avanzi seco tragge
Tolti di bocca al rapitor vorace.
     90Dalla città lontane e dai villaggi
Giaccion, quasi deserti alte montagne,
Che, digradanti al piè, più mollemente

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Vestonsi d’erbe, e le sorgenti vene
Spongono al chiaro Sol limpidi argenti;
95Indi più a dietro ognor sorgendo altere,
Aspre d’eterno gelo alzan le fronti.
Ma freddi spechi, immensi erbosi piani,
E convalli dolcissime, e recessi
Di quete ombre, e cespugli, e larghe macchie
100Spesseggiano d’intorno; esca all’armento,
E contro alla solar ferza inclemente
Sicuro asilo, ed alle piogge, e all’ira
Delle sassose grandini. Per lungo
Sentier qui giunto alfin (poichè gran tempo
105Sostò pascendo alla pianura, e molto
Per le falde cercò) pace consenta
Ai vagabondi lari; e a le raccolte
Greggi, ai veltri seguaci, ed a sè stesso
Di mezzo a la campagna erga il pastore
110Gli estivi alberghi. Allor, qual tra le piagge
Sorgon di Libia al mandrian Numida
Le paglierecce case, in sul pendio
Levisi un tetto; a cui le travi eccelse
E i frondosi comignoli e le sbarre
115Provvide il vicin bosco. Una capanna
Presso all’amato pecoril ricovri

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Il fido alano; e sotto ampio coperto
D’assi non lunge si raccoglia il fimo,
Perchè la piova oltre nol meni e sperda.
120Seguan congiunte in più filar le siepi
Per diverso sentier, montando in alto,
E per le chine discendendo uguali;
Onde pel monte il gregge in sua balìa
Non si dilunghi dall’ovil pascendo,
125Se il pastor non lo guarda e lo corregge.
Ma tempo è ben, che ad una ad una io canti
L’alme leggi del pascolo e gli avvisi,
Onde intatto di morbi e di sventura
Vada l’armento e si fecondi e cresca.
     130Qual nume, o sante Muse, o de’ morti,
Chi mai rinvenne arti sì belle, e tutti
Gli accorgimenti in chiaro ordine aperse?
Sull’alte del Partenio erme pendici
Ad Arcade pastor ne la foresta
135La miglior dell’agnelle andò perduta;
Per cui cercar (poiché ricorso invano
Avea dal monte al pian quanto può l’occhio
Mirar d’intorno) arditamente il piede
Spinse dappoi nell’intentato bosco,
140Sacro a Pane Tegéo. Segreto un senso

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Di riverenza e di timor lo colse
Sul primo entrar: così del giorno in tutto
L’alma luce vi tace, e ognor più addentro
La negra selva in folte ombre si abbuja.
145Al fremir delle fronde, all’aure, al canto
Di strani augelli, al moversi dell’acque
Per que' muti recessi, e a la selvaggia
Maestà delle dense antiche piante,
Certo, albergo diresti esser d’un nume
150Quel loco, e seggio delle Ninfe amico.
Come indarno cercato ebbe d’intorno
Se gli occorrea l’agnella, oltre si mise
Con destro auspicio i chiusi antri spiando
Della selva, e la grotta appressò ancora
155Dell’Arcadico Dio; che di lucenti
Pomici e scabro tufo e facil musco
Cingesi, e grata spiranvi fragranza
L’odorose ginestre. Ivi per mille
Arcane vie che avvolgonsi sotterra
160Nelle gelide conche onda si versa
Con lungo gemitìo; che percotendo
Nel vòto sen delle spelonche, assorda,
E mette a chi s’appressa orror del loco.
E Pan vide, reggendo il fianco irsuto

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165A immane tronco di selvaggio ulivo,
A cui brevi apparian fra le corone
Dell’edera fioreole ambo le corna.
Cara ed acerba ricordanza ancora,
Dell’amata Siringa, a lui dal collo
170Pendea l’umil zampogna; onde molcendo
L’interno affanno, i gioghi alti e le valli
Di Ménalo felice allegrar suole:
Quando più il Sol riarde i campi, e l’ombra
Grata è all’armento, ed alle Ninfe il bagno
175Di freschissimi rivi, e possedute
D’alti silenzj tacciono le selve.
Quivi descritte in tessere di bianco
Faggio vedea del pastoral contegno
Le nuove leggi: e i dì felici all’opre
180De’ mortali, e gli avversi: e di che forme
Più si pregi il monton, che nuovo armento
Ricreando da madri abbiette e vili,
Di finissimi velli a noi fa dono
Per tale avviso a la seconda prole.
185Quasi in aurei cancelli entro l’obbliquo
Calle vid’egli il sole approssimarsi
Ai divisati segni, avvicendando
Le veloci stagioni; e notar, come

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S’apre al gregge l’ovile, e quando ai paschi
190Lo si radduce in primavera e tonde.
Mentr’egli a tutto avea la mente e il guardo
Cupido inteso, a le divine labbia
Pane appressò la fistola pendente;
E poichè tutte ne cercò le voci
195Divinamente, in Lidio suon compose
Soävissime note. Allor fra i rami
Tacquer gli augelli, il murmure si tacque
De’ rivi, nè spirò vento le fronde;
Veduto avresti allor più bella intorno
200Rinverdirsi ogni pianta, e Fauni e fere
Intrecciar danze, e in fiore uscir le molli
Erbe, e chinarsi i lauri, e dalle scorze
Delle querce materne i verdi capi
Sporger le Ninfe e le plaudenti palme. —
205Salve, caro agli Dei, salve, dicea,
Fortunato pastor, che a le mie soglie
Opportuno condusse un genio amico.
Or ben ti loderai della smarrita
Agnella, che ti porse animo e destra
210Occasïon di penetrar fin dentro
A’ miei recessi; perocchè da questi
Bene istrutto n’andrai, recando in luce

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I miei precetti, onde per nuovo armento
Ti dirà Arcadia venturoso e lieto.
215Tu quelle che vedesti in mente aduna
Rustiche leggi, ed ai pastor le apprendi;
Ch’i’ mi son Dio de’ vostri padri, e l’ampie
Foreste, e i sacri boschi, e l’erme valli,
A me concesse di Saturno il Figlio;
220Quindi son mie le greggi, e de’ pastori
Nume son fatto e tutelar custode.
Poi questa, ch’io medesmo in disuguali
Canne distinsi, pastoral zampogna
Là di Mènalo in vetta anco ricevi.
225Con questa impera a le tue mandrie; e quando
Lento le pasci e che fra lor ti assidi,
Le vôte ore del giorno e i circostanti
Colli e le piagge solitarie allegra;
Di questa al suon tu frenerai le pugne
230Degli arïeti animosi e de’ giovenchi
Quando proterva gelosia li sprona. —
Disse; e al pastor, che in umil atto inteso
Era a que’ detti, alfin la porse. Ei come
Ali avesse, dal sacro orror del bosco
235Riuscendo si tolse, e ne fe’ prova;
Indi i pastor ne istrusse, e miglior crebbe

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Sua greggia ognor pei rivelati avvisi:
Che dall’Arcade suol tornando io primo,
Per le Italiche ville ad altri insegno.
     240Sorga dell’alba coll’incerta luce
Il mandrïano, e il pecoril rivegga.
Se forte il vento per la notte estiva
Spirò sereno, o il ciel di nubi avvolto
La rugiada contese a la campagna,
245Coll’alba esca, ed ai pascoli lontani
Guidi l’armento; ma se largo un nembo
Di rugiadose stille a cader venne
In sull’umida terra, il sole aspetti;
Che saettando d’orïente i raggi,
250L’erbe prima rasciughi, e béa dall’alto
Il vaporoso umor. Condotte al monte
Sdegnan le pecorelle aver pastura
D’erbe annaffiate; e se da stimol cieco
Del notturno digiun tratte si danno
255A farne cibo, il freddo umor nemico
I visceri ne solve. E però il gregge
Quasi dell’erbe immemore, pei colli
Brinati errar tu vedi incerto e lento
Prima che il Sol levi dall’onde; e come
260A traverso le folte ombre crescendo,

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Velocemente invia da tutte parti
Suo dolce raggio, e il cielo e i campi inaura
Di tremuli splendori, allor contente
Pascer vedi le agnelle a quel divino
265Lume del ciel che l’universo allegra.
Nè tutto in preda ad un medesmo tratto
Lascia quanto si stende il pascol pieno;
Ma ben provvedi, e la campagna in molti
Scompartimenti assegna, entro cui stanzj
270Alternando ogni dì la ben guardata
Greggia, se pascol ricco ognor vagheggi;
Chè il vital succo onde la terra è lieta
Nella verde stagion, giunto a le dolci
Fecondatrici piogge e al vivo sole,
275Dagli steli recisi indi a non molto
Le novellizie crescerà seconde.
     Ma prima in tuo pensier le venerande
Ninfe del loco adora, a cui de’ campi
La custodia è commessa e delle selve;
280Perchè se mai per avventura il gregge
Ne turbasse pascendo i bei riposi
Disfiorandone i seggi, aspra vendetta
Non ne prendendo, perdonar lor piaccia.
Chè spesso irriverente, o della prisca

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285Religion dimentico il pastore
(Di cui memoria il tempo esser non lassa)
Pascea l’are de’ numi, e coll’armento
L’onde contaminò, che la rimota
Antichitade e la pietà degli avi
290Santificâro; e vendicando i numi
E la colpa e l’error sull’innocente
Stuolo dell’agne, a crudi morbi in preda
Le abbandonâro, e disertâr gli ovili.
Così fiera d’un nume opra sperdea
295Là tra Volaci le gregge, ove impaluda
Mescendo le cognate acque l’Astura
Col tardissimo Aufente. Ad una diva,
Che Giove ebbe diletta, eran que’ boschi
Devoti e quelle piagge; e le solenni
300Costumanze i pastor dimenticando,
Vi cacciâr l’ampie greggi, e guastâr quanta
Dall’Anzuro al Circéo monte si stende
Bellissima pianura. E allor dai fondi
Dolorosa n’uscìo per quelle rive
305Una mefite, e fe’ deserto il sito,
L’aër corruppe, e gli animali uccise.
Se non che d’ogni danno e dell’ingrata
Dimenticanza e degli onor perduti

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Or si rintègra quella Dea; chè in luce
310Rivocandone il nome e i sacri riti
Nobilissimo Spirto, un nume aggiunge
Alla festante degli Dei famiglia.
Nè pellegrina ignota infra’ mortali
N’andrai, diva Feronia; e dell’avversa
315Giuno le furie, e i rovesciati altari,
E le pene tue molte in sulla terra
Ricordate saranno; ove non sdegni
Te sull’ali Dircee levar sublime
L’inclito Cigno che l’Italia onora.
     320Se guardi all’erbe e a lor natura (o verde
Lussureggi la càrice e il trifolio,
La melica ondeggiante e la gramigna,
E il geranio sanguigno; o che ti nasca
La pimpinella e l’odorata persa,
325La medic’erba, il giunco, o la felice
Cedrangola selvaggia) abbiti quelle
Prescelte ognor, che in fiore aprono i verdi
Calici, e a maturezza il Sol condusse;
Ma non però granose e scolorite
330Pieghino i gambi inariditi e lassi.
La troppo giovin erba i dilicati
Stomachi offende di mortal crudezza;

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E troppo il Sol di nutritivi umori
E di succo bevea dalle già pronte
335A metter frutto, e mal cede lo stelo. —
Al monte, poichè il Sol da tutte parti
Saettò l’ombre, il mandrian conduca
Le fameliche greggi, e lor non vieti
Irne sbrancale e spazïar solette,
340Secondo che più verde e che più lieto
Il pascolo le inviti. In mezzo a queste
Ei segga, e non lontan cantando intessa
Corbe e fiscelle, o con soavi e chiare
Note dalla zampogna il suon risvegli
345D’amorose canzoni. I bruti ancora
Dolce affrena un bel canto, e lega i sensi.
Immote allor le pecorelle dànnosi
A pascer liete, gli agnelletti belano
Mollemente alle madri e si accarezzano,
350E queti i cani dal latrar rimangono.
     Ma se libero va per li felici
Poggi l’armento errando a suo diletto,
Non però molto si dilunghi. Acuto
Sorge talor di spine irto veprajo
355Che di punture insanguina la pelle;
E se move il pastor lungo le spesse

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Càrici, e i bronchi di selvagge siepi
Che la greggia appressò, tremolar vede
Tolti a bei fianchi i bioccoli lanosi;
360Come dai fieri triboli si spicca
Talor piumoso il già maturo seme
Dalle scoppiate bocce, e sul terreno
Si disperde e vaneggia. Ai colli in vetta
Di precipizj orrendi anco si schiude
365Mal notata voragine, e dall’alto,
Non la veggendo alcun, l’agna vi cade.
Fuggi balze e torrenti; e ognor vicino
Tienti all’ovil, perchè vi possa a tempo
Riparar, se da lungi romoreggia
370La procella oscurissima, e confonde
Il puro aperto ciel. Nuoce all’armento
La molta piova, e il grandinar frequente
Lo stanca e abbatte. Che se orribil tuona
Di sopra lui la porta ampia del cielo,
375E dalle negre nubi il folgor scroscia,
Esterrefatte a quel fragor si danno
Le pecorelle a subitane fughe;
E cercan gli antri, e pavide si cacciano
Tra le selve più folte, onde poi lunga
380Opra riman dell’adunarle a sera.

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Quando si addensa la procella oscura,
Te non adeschi allor pianta sublime
Nella foresta; perocchè, condotta
Dal negro ciel la folgore veloce,
385Ratta a quella si avvolge, e orribilmente
Ne squarcia il tronco, e di radice schianta;
E il pastor tramortito all’improviso
Fulgor che tutto lo coverse, e vinto
Dal forte impulso nelle membra, atterra.
390Ma diritte al pedal già scendon l’ombre,
E sul caldo merigge in ampia luce
Febo diffonde d’ogni parte i raggi.
Sulle raccolte spiche affaticato
Il mietitor si asside, e il polveroso
395Per lunghe strade vïator s’affanna
Desideroso omai stanco alle fonti.
Te pur la selva al mezzogiorno alberghi
Colle tue greggi, poichè il Sol dall’alto
Le scalda; nè coperto altro di chiuso
400Tu cercherai, stipandovi l’armento.
Sulle ignude campagne abbandonato
Nell’ora in che più il Sol ferve, si resta
Dal pascere agitandosi, nè trova
Loco, nè posa; e vedi insiem le agnelle

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405Stringersi semplicette, e in sul terreno,
Onde salvar dalla gran ferza i capi,
Prone bassarli e farsi ombra del corpo;
A quel modo che presso alle nemiche
Guardate mura, onde venia di strali
410E di macigni orribile ruina,
Il Romano guerrier, levando in alto
Sulla testa gli scudi, iva coperto
Sotto l’aspra testuggine, che stretta
Non si smagliava all’urto e a la tempesta.
415Ma ognor più verso terra, dal cocente
Raggio battuta, l’aëre ribolle,
E nelle sparse nari a depor l’uova
Van ronzando le mosche; onde costrette
Dall’intenso dolor (poichè gran tempo
420Vertiginose e stolte andàr correndo)
Giù dalle rupi perigliar le vedi
Con disperati salti, e fiaccar l’ossa.
Tra le foreste adunque a la fresc’ombra
D’antichissime piante ti raccogli;
425Sotto cui le vaganti aure e i sorgenti
Rigagnoletti avvivan l’erbe ancora,
E bei cespi verdeggiano coperti.
Sorga ivi dritto l’acero, e l’irsuto

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Castagno, e il faggio aperto; altera ai venti
430Sparga in giro le fronde e il suolo adombri
L’antica Erculea quercia, e l’oppio, e il cerro,
L’eschio, l’abete resinoso e il tiglio.
Finchè non verge in vèr l’occaso il sole,
Quindi non esca il gregge: o de’ virgulti
435Cercando intorno, o ruminando posi.
E posi anco il pastor dalle fatiche
Del lungo estivo giorno; e in festa e in gioco
Coronando le tazze in fra i compagni,
Scopo a rapidi strali un tronco accenni,
440O snudi i rozzi corpi a la palestra.
Giunto agli altri pastor, che d’ogni banda
Nell’alta selva convenîr, cercando
In sul merigge refrigerio d’ombra,
Ponga ei le mense, e le di vin ricolme
445Tazze, e vasi di latte spumeggianti.
Da raccolti sarmenti alcun la fiamma
Suscita intanto, rosolando i pingui
Lombi, e cocendo il cereal tritume;
Alcun festeggia i cani, altri in disparte
450Tacitamente in cor volge il desio
Della patria lontana e sta pensoso;
O tal fra lieta e mesta una canzone

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Gli spira amor, che il ciel ne gode e l’aura
E l’Eco de le valli abitatrice.
455Chi fia che per cammino aspro e selvaggio
Ivi giugnendo alfin, dove la piaggia
Tacea da prima solitaria e il monte,
Chi fia che non s’allegri, e che non senta
A quella vista risvegliarsi in core
460Un incognito senso, una dolcezza
Che di cari pensier tutto lo ingombra?
Nè perchè in tutto di suo seggio uscisse
L’uom, cui libero diede esser natura,
Non però tace ancora in ben temprate
465Alme quel senso che al miglior le inchina.
E dove sorge un colle, o tra fioriti
Margini fugge un rio, dove riposta
Fra monti un’erma valle ampia si stende,
O bel lago di pure onde lucenti,
470Sè stesso il cor ritrova; e sospirando
A libertà, con fremito soave
Del piacer della vita si risente.
Ma tutte in meriggiar fra’ suoi trastulli
Ozïoso il pastor l’ore non passi;
475Sorga, e vegga d’intorno ove più belle
Crescan l’erbe ne’ pascoli, e disegni

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In suo pensiere a quale il dì venturo
De’ siti il gregge condurrà. Cercando
Talor le selve, d’una pianta in vetta
480Notò bei nidi; e seco tragge e alleva
Il selvaggio colombo, e dalle meste
Querimonie la tortore pietosa;
La domestica pica, e il nero corvo
Lui seguirà col gregge: a la famiglia
485Nuova cura, e trastullo a’ figli suoi.
E corrà pingui ghiande, onde sovvenga
Ai famelici verri; e all’aspra sete
Refrigerio daran di passo in passo
Or minute lambrusche, or dolci pomi;
490Chè dallo spino a lui pendon mature
Le silvestri corbezzole, e fra i dumi
La montanina fragola rosseggia.
     Nè la cura del ber l’ultima sia.
Quando appunto maggior cresce la sete
495L’estiva ora del giorno, a puri fonti
Abbeverar vuoisi l’armento, e gli arsi
Petti irrigar di viva onda lucente.
A suo diletto alcun nelle riviere
Abbandonollo disattento; e quegli
500Seguitando il desio che a ber lo invita,

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Il soverchio umidor nel sangue indusse
Rie di morbo cagioni, enfiando i corpi,
E tumide levando acquose bolle.
Altri dal ber lo rimovea, negando
505Al maggior uopo i desïati rivi;
E pareggiò l’agnello al faticoso
Lento Camel, che sotto a ingiusti carchi
Le fiere solitudini attraversa
Fra le sabbie cocenti, e nel deserto
510Più dì senza toccar onda sostiene
Del cammin la fatica. Il sangue intanto
Torpe addensato nell’agnello, e ferve
Pel concetto calor; debile spunta
Il vello; e mal si cuoce entro a’ riposti
515Stomachi l’esca, e se d’umor lo privi,
Nell’arse fauci al ruminar non torna.
Fuggi i putridi stagni, e le corrotte
Acque a lungo sedenti, entro cui ferve
Popol diverso di minuti insetti,
520E la deforme canna alta dal limo
Sporge, e vi galla il musco; e l’insalubre
Limacciosa ti additi onda lo rezzo
Del salice piangente e del sugoso
Crescione, e la palustre alga natante:

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525Nido a’ rettili schifi ed alle rane;
Che del mal tempo garrule presaghe
Emergono dai fondi. Ingiusta in vero
Ben fu natura, compartendo i dolci
Rivi alla terra. E dove ampie dilagano
530Le correntìe de’ fiumi, e dove indarno,
Se benigna dal ciel pioggia non scende,
Muojono in verde i seminati e l’erbe,
Perchè l’arso terren non si feconda
Di nativi ruscelli. Amare altrove
535Di congeniti sali acque, e di pingue
Zolfo commiste e di diversa gleba
Ritrovi, o male-olenti, o talor fredde
Di montana salvatica crudezza.
Nè si propizio il cielo ebbe ciascuna
540Parte d’Italia mia, quanto la bella
Popolosa contrada, a cui fu padre
Cidno, e il Mella scendendo adorna e bèa;
Nè mai si spose al dì forse più chiara
Vena di quella tua, che di rimoto
545Seggio versando vai, Najade urbana.
Te il muto orror di sterile foresta
Non asconde ai mortali occhi, nè scura
Esce solinga la tua nobil fonte

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Di scosceso dirupo; o in mille rivi
550Te medesma partendo, inonorato
Piano ti accoglie d’infeconde arene;
Ma dell’aperto ciel godi, e il sereno
Aere di largo moto a te concede
Eterna primavera. Argento è l’acqua
555Che purissima volvi, e per lo calle
Di rigente macigno, onda perenne,
A dissetar la mia patria cammini.
Perch’io, se dal cammin lungo che avanza
Non ricogliessi omai stanco le vele,
560Io canterei di te, fonte gentile;
Che togli il vanto a quanti uscian famosi
Nelle Sicule piagge, e nella sacra
Terra de’ numi un dì, Tempe beata.
Ma il lungo tema oltre mi sforza, e reca
565A parlar degli armenti; e sì bell’opra
Lascerò intatta a qualche egregio spirto,
Onde la patria mia gloria n’acquisti.
     Poichè il merigge declinò, sicuro
Fin presso al vespro da molesti assilli
570E da tafani, pascerai; poi quando
L’occidente rosseggia, e a la sorella
Il governo del cielo il Sol concede,

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Lo sparso gregge d’ogni parte aduna;
E lui garrendo, ed incitando i cani
575Animosi ti avvia; chè come all’alba,
Così alla tarda sera umido scende
Su la verzura il vespertino umore.
Adunato lo stuol, lento proceda
Su per la via, mentre a traverso i campi
580E le folte boscaglie e l’alte siepi
Vanno correndo i veltri, disnidando
L’astuta volpe e il lupo, che s’è posto
Nelle insidie notturne. Alta si leva
Sovra i monti la luna, e ai campi arride
585Di lieta amabil luce e il ciel fa bello;
Solo dai nudi tronchi l’importuna
Upupa e il gufo con feral lamento
Ne accusa il dolce raggio; e all’improviso
Romor che sente a la campagna e al lume,
590Torna a celarsi. Con alpestri note
“Ogni gravezza dal suo petto sgombra„
Il buon pastore; o si ristà dal canto
Per udir come dolce intra le siepi
Natie si stempri l’usignuol d’amore;
595O lo azzuffarsi ode de’ veltri, e il molto
Latrar che fanno ai lupi, ed alle vane
Ombre de’ tronchi, ed agli augei notturni.

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Nè tacerò siccome al discoperto
Cielo ristarsi ha per usanza ancora
600Talor l’armento e far de’ paschi ovile.
L’alpestre Anglia così, fiera d’intorno
Di bianchi scogli e in mezzo al mar sicura,
Sui mesti campi errar lascia tra il bujo
Delle nebbie ingratissime l’armento:
605Così senz’altro ovil peregrinando
Ne’ piani immensi dell’Arabia vive
Il Nomade pastor, nè tetto il copre;
Chè gliel consente il ciel sempre di nubi
Scarco, e il clima dolcissimo. Fidando
610Ne’ vigili mastini, a la campagna
Giace la notte, e gli occhi al sonno chiude;
Od affisando in ciel su’ acuto sguardo,
Andar vede pel queto aere celeste
Le stelle scintillanti: e la corona
615Di Gnosso, e il Carro, e la divina prole
Di Licaòne; e sa quando la luna
Rimette in ciel l’inargentate corna,
E per quai giri il chiaro Astro Cillenio
Si volga, e il rubicondo Espero, e Giove.
620Nè armata ancor d’ottico tubo, ai seggi
Vòlto de’ numi avea l’occhio e l’ingegno

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L’Itala Urania; e sì degli astri in tutto
Era il loco palese e la sembianza
Agli antichi pastori, a cui la notte
625Rivelava dal ciel l’opre segrete
Del magno Olimpo e dell’eterne stelle.