La lanterna di Diogene/VIII
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VIII.
L’inno dei Lavoratori.
Non c’è dubbio; è stato il postino a spargere la voce che io sono un «signore».
Quanto dispiacere mi abbia fatto questa rinomanza, non saprei dire: non perchè non vorrei essere un signore, ma perchè non è vero, purtroppo!
Dunque, quando alcuno fra questa brava gente grida: «Guerra ai palazzi e pace alle capanne», si rivolge anche a me? A me? Ma io vi mando dal mio padrone di casa: andatelo a dire a lui! Adesso capisco perchè quei piccoli favori, quello scambio di aiuti che i poveri si fanno tra loro — e rendono così umana la vita — a me non si fanno se non dietro pagamento!
Ho domandato una volta alla moglie del calzolaio, quel calzolaio che tiene circolo aristocratico:
— Mi regala quel bel garofano?
E lei mi rispose:
— Vengo mai a domandar niente a casa sua?
Lo disse per ischerzo, lo so, perchè il garofano me lo diede, però uno scherzo ammonitore per un’altra volta.
(Veramente non tutti questi poveri sono poveri: vi sono tanti che hanno soltanto la truccatura del povero e mangiano sul palmo della mano, perchè ciò è economico e poi illude gli altri con l’aspetto dell’uguaglianza; ma hanno il denaro nascosto, la casetta, il piccolo campo.)
Dunque io sono un signore! E non me n’ero mai accorto!
Anzi io sino a qualche tempo addietro ero convinto di essere uno straordinario lavoratore, e mi addoloravo che ci guadagnassi così poco. Se non che una volta che mi lamentavo di questo con un ricco e colto israelita, ebbi da lui la spiegazione che meritavo.
Egli mi stava ad ascoltare col labbro composto ad un amaro sarcasmo e mi pareva vedere in lui una di quelle severe nere teste bibliche, che io avevo intravisto nei quadri antichi: quella testa, dall’abito orientale, si era spostata sopra un impeccabile stifelius, ma l’espressione era la stessa.
— Ma naturale, — disse alfine, — voi vi ostinate in un lusso che appena i milionari si possono permettere.
— Quale?
— Ma l’arte pura, la filosofia, la poesia! Cose bellissime, ma prima commerciate in stracchini o granaglie.
«Insolentia iudaeorum!» pensai fra me, e:
— «Ars severa, gaudium magnum!» — fu la mia risposta.
Ma l’aveva appena espressa, che mi sovvenni come il filosofo a cui è attribuita questa sentenza era figlio di una regina.
Atteggiò il labbro ad amarezza maggiore e:
— Tenetevi il «gaudium magnum», — disse, — ma non lamentatevi.
Che umiliazione ricevere di queste lezioni alla mia età! che rancura nell’accorgersi che la via è sbagliata quando il sole è già piegato al tramonto.
Oh, gli detti ragione, solamente obbiettai che non era cosa agevole per me cominciare il traffico degli stracchini.
— Più facile che non pensiate, — mi rispose seccamente.
Dal giorno che ebbi quel colloquio involontario col ricco ebreo, io mi ero filosoficamente adattato alla mia povera condizione; e avevo capita tutta la ragionevole antipatia del denaro per le mie tasche.
Ma non avrei mai supposto che mi aspettava l’estremo oltraggio di passare per signore, che mi sarei trovato nella sgradevole condizione che i poveri mi respingevano perchè mi stimavano ricco; come i ricchi mi avevano respinto sentendo in me il non grato profumo della povertà. Dunque un filosofo è condannato alla solitudine?
Del resto il postino è degno di scusa. Egli mi vede sulla sedia a sdraio bere il caffè e gustare il fumo della pipa: egli invece, carico come un alpino e grondante di sudore, deve correre per le dune a distribuire la posta.
Egli fu costretto una volta dalla necessità del suo ufficio a consegnarmi, mentre stavo così sdraiato, una lettera del valore dichiarato di lire trecento.
Interrogai il suo sguardo, e il suo sguardo diceva così:
«Se nel mondo ci fosse giustizia, questa lettera dovrebbe passare nelle mie tasche».
«Aspetta che ti voglio mortificare e convincere che anch’io sono un lavoratore!», pensai allora tra me, e la mattina seguente ho collocato attorno alla sedia a sdraio molti libri e scartafacci, e a pena sentii il suo passo levai il capo da un pesante volume, e fissando il postino con occhio assorto dietro le lenti:
— Gran fatica, mio caro! — dissi, battendo con la palma sulla pagina aperta.
— Più fatica questa! — rispose senza rispetto, e si passò di coltello la palma sulla fronte, e buttò via il sudore raccolto.
*
«Ignorante, — borbottai fra me con mal animo, — tu mi mostri quello che si vede, e mi sbatti quasi in faccia il tuo sudore: io ti vorrei mostrare quello che non si vede: vorrei che tu potessi contemplare la sezione anatomica del cervello di un pensatore e quella del cervello di un pari tuo, e anche i tuoi occhi miopi capirebbero chi ha lavorato di più!»
Se non che per debito di giustizia subito dopo io mi domandai: «Ma sa, questo buon uomo, se io leggo un protocollo di atti emarginati ovvero medito sull’«Immortalità dell’anima» di Platone? E supponendo anche che io potessi fargli capire che al mattino presto c’è un originale che medita sull’«Immortalità dell’anima», potrà egli modificare il suo giudizio su tutti quelli che godono il privilegio di stare in poltrona e sorbire il caffè al fresco, e perciò tengono in riposo, non solo il cervello, ma le braccia e le gambe?»
«E se anche egli sapesse che io medito su una pagina di Platone, non può egli domandarmi: — A vantaggio di chi?»
Già, questo è ozio e non lavoro, otium e non negotium come sapevano anche gli antichi romani. Otium litteratorum!
Che malinconia questo accordo di giudizi tra il ricco ebreo ed il postino!
*
Eppure! Eppure no! Quando voi, lavoratori, cantate:
Su, fratelli, su, compagni |
*
E appunto a questa spiaggia venne una domenica una «fitta schiera» di questo esercito del «Sole dell’Avvenire». Infatti essi inneggiavano al detto Sole.
Questa schiena, come dava a veder l’aspetto, apparteneva nella maggior parte ai lavoratori della terra e del mare, cioè ai lavoratori delle cose necessarie. (Ogni persona assennata sa che vi sono anche i «lavoratori delle cose non necessarie, e i lavoratori delle cose dannose», benchè questi nomi non siano ufficialmente riconosciuti. I lavoratori e le lavoratrici intorno al culto dell’idolo donna, anche non geniale, appartengono, a questa seconda categoria. Io li semplificherei per lo meno; semplificherei gli eserciti mandarineschi degli scribi e dei professionisti, ecc., ecc. Quest’opinione del semplificare è — si intende — una conseguenza della mia grande ignoranza in materia di sociologia. Le persone ignoranti o fanatiche, piantano il chiodo in un’idea, fuori della quale non c’è salute. Il parroco Kneipp vedeva la salvezza del genere umano nell’«acqua fredda»; San Francesco nel buttar via l’orgoglio dal cuore come lo sfarzo dalla persona; io nel verbo «semplificare», il quale verbo è il documento più eloquente della mia inettitudine ad occuparmi di cose sociali, giacchè se esiste una cosa certa nel divenire incerto degli uomini, è appunto il verbo «complicare!» Oimè, come ti annebbi, sole dell’avvenire!)
Questi lavoratori della terra e del mare apparivano molto felici del giorno concesso dal Signore per il riposo.
Venivano in «fitta schiera» con una fanfara alla testa, per inaugurare il vessillo di una Società operaia ed ascoltare, di conseguenza, la predica di un loro oratore d’occasione.
O buono e mite Amintore Galli, la musica del tuo inno non sarà proprio bella, ma è terribile: almeno fa un effetto terribile. Quella nota che cresce e poi si squarcia come un uragano nel verso:
Splende il sol dell’avvenir |
è di un effetto indiscutibile.
Questo effetto poi era quella domenica moltiplicato per la stranezza del vestire di quella moltitudine. Con quel sole ardente, tutti erano vestiti di saia nera: i più avevano di setino nero anche la camicia, e su quel nero spiccavano i bracciali rossi e le cravatte rosse.
Quella tinta lugubre nella gioia del giorno estivo, mi richiamò alla mente la «Compagnia della morte» con cui si nominò una schiera alla battaglia di Legnano. In quella truce e fiera anche volti miti, come quelli del barbiere e del buon postino — erano anch’essi nella «fitta schiena» — acquistavano una espressione formidabile.
Inoltre, — oh, stranezza per gente che protesta contro la disciplina militare! — essi marciavano con fiero passo militare!
Io mi fermai sul ciglio della via e fissai la schiera che passava: ma lo sguardo del postino si incrociò col mio, e balenò questa domanda:
«Non ti facciamo adesso paura, o ricco?»
Lasciamo stare il «ricco»; quanto alla paura, a me personalmente, no. A che varrebbe leggere Platone in greco per diventare filosofo, se si deve poi aver paura? Un filosofo, o amico, sorpreso da un tacchino, potrà essere spaventato; non mai da una evoluzione dell’esercito umano, che solitamente fa come quello del coro: «Partiam, partiam!», ma in realtà non fa altro che segnare il passo, o, se cammina, ripete il suo giro dietro le scene.
Per fare realmente paura non a me, bada bene, o postino, ma ai veramente ricchi, bisognerebbe che rimaneste sempre «in fitta schiera», ma lo vedi? ecco qualcuno di voi che si stacca, ecco l’individuo che esce dalla collettività anonima e poco dopo appare accampato contro di essa. I transfughi! tu dici, con giusto disdegno. Lo so, i transfughi! Ma essi si sono posti in alto sul piedestallo della ricchezza e sorridono al pugno chiuso e levato della folla.
Rimane, sì, la fitta schiera; ma solo dei miserabili, della materia greggia, la quale elabora, stimola, frusta se stessa, e ne fa venir fuori l’individuo, per fatale necessità di natura, contro ciò che è tassativamente prescritto nell’Inno dei lavoratori!
Per fare paura veramente bisognerebbe che quella specie di furore e di fanatismo non durasse soltanto il tempo che squilla l’inno di Amintore Galli o tuona la voce del catechista, ma durasse più a lungo: informasse ogni atto della vostra vita.
Invece nei giorni che non portate la montura nera con la filettatura rossa, voi subite le necessità della vita come un egoista borghese: tu, onesto lavoratore della barba e della parrucca, fai la parola dolce nel radere il doppio mento del ricco avventore, tu, onesto pescatore, porti di preferenza il tuo cestello di pesce alla casa di quel possidente che ti pagherà senza tirare sul prezzo: tu, placido oste, non hai rimorso di coscienza a preparare, anche per i compagni, le miscele anti-igieniche del tuo vino: tu, postino, sei più gentile nel consegnare le lettere al ricco, che darà in fine di stagione cinque lire di mancia. Persuadetevi, non siete ancora abbastanza evoluti!
*
Io sono entrato umilmente col mio abito bianco fra i vostri abiti neri nella sala dove l’oratore teneva la sua conferenza. Un forte odore umano esalava da quei corpi, come un gas, e quelle parole parevano scoppi di fulminante per accendere quel gas.
Parlava un giovane avvocato civilmente vestito.
Io ascoltai attentamente. Ma come il buon enologo distingue il vino artefatto dal vino sano; come l’acuto critico distingue le onde dello stile commosso per la tempesta della passione, dalla salsa bianca bechamelle, con cui si coprono gli insulsi avanzi del convito intellettuale degli altri; così io sentivo in quel discorso sopratutto la preoccupazione di parlare il linguaggio della passione fino a toccarne il vertice con questa frase risolutiva ed anarchica: «Abolite tutti gli uomini armati di denaro, di scienza e di intelligenza!»
O lavoratori, vestiti di nero, quando io sentii il disperato, furibondo vostro grido entusiastico, che accolse quelle parole, sorrisi.
«È scoppio di rabbia impotente, — mormorai fra me, — giacchè voi in realtà non avrete mai il coraggio di eseguire quest’ordine. Ci vuole altro che le braccia valide, e l’arma in tasca, o il piccone! E nè anche il vostro oratore oserebbe in caso di vera guerra, dare un tale ordine, perchè non è eseguibile; perchè il primo a saltare in aria sarebbe lui. Perciò egli è un falso profeta».
Questo pensiero soddisfece la mia ragione. Ma subito dopo la stessa ragione insorse e mi disse: «Se quegli è un falso profeta, monta tu su la tribuna e parla. Se i veri profeti si accontentano di sorridere filosoficamente, quale meraviglia se il falso profeta è ascoltato?»
È facile tranquillare la propria coscienza col dire: «Questa massa è bruta e brutta e perciò non darebbe ascolto alle tue egregie parole», come è facile uccidere l’animale dicendo col fisiologo: «esso ha meno sensibilità!» Ma è poi vero?
«Ma non sai tu, o orgoglioso, che chi ha sete, beve anche l’acqua infetta; e chi ha fame, mangia anche le materie luride? E chi sente l’enorme, inafferrabile oppressione sociale applaude a qualunque bestemmia pur che abbia sembianza di mezzo liberatore? Tu critichi e deridi il falso profeta. Ebbene, monta tu sul tavolo e parla: O lavoratori, se il mio abito è bianco mentre il vostro è nero, io non sono un ricco, non sono un privilegiato! Ascoltatemi! Privilegiati sono gli anonimi che voi vedete appena di sfuggita e a cui, pur troppo, fate reverenza! Questi privilegiati sono così potenti e sicuri che di voi non si preoccupano: essi formano il cocchio, il quale è convinto che sarà sempre sopportato dalle ruote; e le ruote siete voi! Noi, che leggiamo Platone in greco — come può attestare il postino — e vestiamo di candore l’anima e le membra, siamo le molle che cerchiamo di attutire gli urti fra il peso crudele del carro e i sobbalzi delle ruote infelici. Otteniamo per ora che gli individui che stanno sul cocchio, siano più umani e pesino meno; togliamo intanto dalla vita i bari che mettono in circolazione i falsi valori; acquistiamo, tutti, migliore coscienza; riformiamo l’inutile scuola dell’alfabeto, semplifichiamo e miglioriamo la vita! Dopo, il resto verrà da sè, quale esso sia: quale voi vorrete».
*
Perchè io non ho parlato così?
Perchè a fare il profeta vero è difficile, e perciò bisogna scusare se vi sono molti falsi profeti.
— È vero che mettono in prigione a cantare:
Su venite in fitta schiera?
così mi chiese un bambino, invocandomi come arbitro in una questione avuta con i suoi coetanei: se mettono o no in prigione a cantare l’«Inno dei lavoratori». Mi dichiarai incompetente. «Però fate una cosa, bambini miei; quando vedete venire i carabinieri, mettetevi tutti sull’angolo della via a cantare, e così si vedrà».
La proposta, benchè ardita, piacque. Di fatto appena spuntano i pennacchi rossi e turchini, ecco s’alza il coro argentino, squillante: alcune vocine tremano dalla paura; i carabinieri si fanno più grandi; dei due, ce n’è uno così grosso e grasso che nel suo ventre può contenere due almeno di quei piccini. Alcuni di costoro s’appiattano dietro la siepe: da quel nascondiglio, non vedenti e non veduti, la voce ha vibrazioni di gaiezza suprema. E la voluttà dell’estremo rischio: essere acciuffati come nella favola dell’orco! Macchè! i carabinieri non si sono voltati, nè meno un segno di tacere! Parlavano fra loro, e seguitarono a parlare.
Che mortificazione, poveri piccini!
*
Col garzone del barbiere, che è un buon figliuolo, mi sono permesso la libertà della critica su la moda della camicia di satino nero che portano i compagni.
— Capirà, — mi disse, — che una cravatta rossa sul nero produce altro effetto che sul bianco. E poi una camicia nera fa il suo servizio finchè si vuole.
Erano due buoni argomenti, benchè il secondo poco convenisse ad uno che maneggia il sapone per dovere — almeno — professionale. Gli feci ancora osservare l’effigie dei due santi barbuti e capelluti che egli porta sospesi in forma di grosse medaglie alla catena dell’orologio.
— Trova da dire anche su Carlo Marx e su Enrico Ferri?
— Ma no; soltanto ti faccio notare che sarebbe un bel pericolo per la classe dei barbieri se nella società futura si dovesse adottare questa moda. Anche la classe dei lavandai.... — stavo per soggiungere pensando alle camicie nere.
Ma egli mi osservò che il rasoio poteva servire anche per altri usi oltre a quello di radere la barba. Queste goffe facezie io me le sono permesse col barbiere, perchè è un buon figliuòlo, come ho detto. Invece con un altro suo compagno, che aveva la camicia nera e ci trovammo accanto dal tabaccaio, io non osai fare motto.
Era una figura sbilenca e torva, e domandò al tabaccaio un toscano. Ma per tagliarlo in due egli non si valse della tagliola che era sul banco; ma con calma levò di tasca il coltello, aprì la lunga lama a molla e contemplando il livido acciaio, «Questa sanguisuga ci vuole!» disse con intenzione; e tagliò il toscano.
Il mio sentimento di vero profeta gli aveva preso subito il polso come una tanaglia e fatta cadere l’arma maledetta; ma la mia mano non si era mossa nè meno.
Anche senza ricordare i geniali studi del Lombroso, capii subito che a dirgli una parola come gli andava detta, si correva il rischio di mutare il proprio ventre in un cuscinetto per quello spillo.
E tacqui.
Mi sdegnai col mio silenzio, eppure tacqui. Fare il vero profeta è cosa difficilissima.
*
La domenica, ad ora ben tarda, cessano i canti con sollievo delle Muse, ed i grilli riprendono l’impero della notte serena. I lavoratori ritornano non «alle risaie ed alle miniere» (che qui non sono), ma ai loro campi, ben fertili.
Io, per questi contadini di Romagna, aggiungerei una strofa, all’«Inno dei lavoratori» nella quale fosse raccomandata la solerzia e la passione per i lavori agricoli.
Queste due qualità non sono in eccesso.
Ciò si potrebbe benevolmente spiegare come un’esagerata venerazione per la madre Terra (per quanto essa faccia capire che il colpo di vanga non è per lei un’ingiuria ma una carezza); oppure come una tacita deliberazione che è inutile aumentare il reddito del terreno a vantaggio del proprietario (mentre ad essi, lavoratori, basta quel tanto che la terra produce, senza molta fatica); oppure perchè consumando troppo tempo nel meditare sull’ingiustizia di dovere essi fare il contadino, questa meditazione induce a lavorare di mala voglia.
Certo — mentre queste cose avvengono — la terra si fa dura ed ispida; i buoi dimagrano; le gramigne ingrassano; il letame diventa meno letame, ma tutta la casa si muta in letame.
Ciò mi dispiace perchè io farei cambio tanto volentieri del mio appartamento a Milano con parecchie di quelle case coloniche; e poi perchè sono un entusiasta del lavoro della terra.
«Ah, non volete lavorare con passione, signori lavoratori della terra? Vi leggeremo le «Bucoliche» di Virgilio e «I Giorni e le Opere» di Esiodo, dove quell’antico vate dice al fratello: «lavora, stolto Perse!» Ma non è rimedio efficace. Vi collocheremo un libro sull’aratro, come consigliò un ministro. Peggio, perchè così si legge male e si ara anche più male!
Il rimedio vero è questo: «Vi secca guidare l’aratro? Invertiamo le parti: lo guideremo noi e voi andate negli uffici a tenere in ordine i registri. Quanto a nobiltà di lavoro, essere bravo contadino equivale per lo meno ad un titolo di dottore».
Sì, tutto ciò è ben detto, ma chi in questa nostra nazione, in cui troppi sono gli aspiranti all’impiego, risponderebbe all’appello?
Lucio Quinzio Cincinnato, d i c t a t o r a b a r a t r o, appartiene alla leggenda; e lo stolto Perse forse era un ozioso perchè invidiava il fratello Esiodo, che faceva il poeta.
Confessiamolo: è facile, meditando su di una poltrona con la pipa in bocca, scrivere la ricetta che curi le disarmonie della vita; e più facile è cogliere il lato ridicolo dei fenomeni umani. La vera filosofia è meglio rappresentata dall’indice posto su le labbra: il silenzio!
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Però la mia ammirazione per un podere, davanti a cui mi avviene di passare sovente, giunge a così alto grado che ne sono commosso. Chi sia il proprietario, non so; ma il contadino dev’essere una persona degna del più grande encomio. Il suo campo non ha bisogno di confine: si distingue come una persona pulita fra gente sudicia. Un filare di viti, erette sul filo metallico, profondamente pampineo, ingemmato di grappoli perlacei ed amaranto, si dilunga accanto all’altro filare del podere confinante, i cui tralci, come braccia stanche ed inerti, cadono a terra. Su la presa del terreno, scuro, profondamente smosso e senza una stoppia, s’erge il candore de’ buoi aranti, nè manca alcuna leggiadra pianta di ornamento attorno alla casa: la siepe è rasa e folta con alberelli di melagrano; l’aia sgombra, i pagliai densi.
*
Sì, io vorrei essere come uno di quei re che si trovano nei racconti, i quali andavano soli, sotto altro sembiante, visitando il loro reame. Essi erano dei veri rappresentanti della Provvidenza, e giungevano sempre in tempo per sorprendere il lupo nell’atto che sta per abbrancare l’agnello; per strappare con mano sicura il sipario della menzogna e mostrare la Verità che gira il suo umile arcolaio, come la Margherita del «Fausto».
Oh, mia anima infantile, come fremevi di gioia quando il re svelava ad un tratto il suo incognito! La giustizia sorrideva presso il trono di Dio, e il diritto divino dei re mi appariva come la cosa più bella e naturale del mondo.
Alla lettura di queste fiabe di re-provvidenza io devo il mio sentimento monarchico. Ma da quando i re non viaggiano più in incognito; da quando non fanno più strage di uomini malvagi; da quando il loro potere è delegato ad una gerarchia di persone dai nomi ignoti, il mio sentimento di fedeltà monarchica si è molto intiepidito.
Ebbene: se non re alla maniera antica, vorrei essere ministro alla maniera moderna. Io credo che un ministro possa decorosamente presentarsi in incognito ed abbia tanta autorità, da distribuire un’onorificenza anche fuori delle consuetudini e delle gerarchie.
Questa splendida idea di fare, ad esempio, «cavaliere del lavoro» il villano, sorrise ieri mattina con giovanile entusiasmo alla mia fantasia.
Ieri la trasparenza azzurra della breve notte di estate non ebbe interruzione di luce, giacchè tra il cadere ed il sorgere del sole, si accese nel cielo la più bella luna che mai l’agosto abbia veduto nascere (dopo quelle descritte da Virgilio).
Conviene sapere che io ero rimasto sino alle tre dopo la mezzanotte alla città vicina, dove è un grande ritrovo mondano, e in esso un casino che porta un titolo molto onorevole e signorile. Nelle ore piccole vi si lavora al macao, al trenta e quaranta e specialmente alla r o u l e t t e.
Quella notte funzionava la r o u l e t t e. Anche in questo esercizio del giuoco il sesso femminile era in soprannumero. E mentre l’uomo — una fila rigida di grandi sparati — serbava una impassibilità che parea compostezza; la donna invece appariva incomposta. I monili, le carni, le chiare lievi vesti, le pupille brillavano di un fascino ardente e divoratore, contro cui la virtù ha bisogno di tutte le sue corazze. Ogni tanto una di quelle mani che pareano scolpite nel pallido corallo s’avanzava per deporre o ritirare la pila dei gettoni. Oh, fragile essere insaziabile e bellissimo! Io mi meravigliai che tutta quella gente non si vergognasse di essere sorpresa da me in quella operazione del giuocare, perchè molti erano a me noti, molti erano professionisti, cavalieri e funzionari pubblici. Ma la loro pupilla, che s’abbattè con la mia per un attimo, si meravigliò specialmente per la mia meraviglia.
Quest’orgia notturna era celebrata nel più religioso silenzio, interrotto ogni tanto dalle lente solenni parole del biscazziere: — «Messieurs, faites votre jeu. Rien ne va plus. Le jeu est fait!» — e sempre così; la pallina corre, scende, si ferma: un soffio impercettibile di sospiro represso, che usciva alfine, era la sola manifestazione dell’angoscia o della gioia.
Il rastrelletto raccoglie, con la rapidità di una mano rapace, i gettoni: ricca messe, più ricca di quella che la terra può maturare in un anno nel campicello del pio colono. Indi si comincia da capo con voce monotona: — «Messieurs, faites votre jeu,» ecc.; e gli occhi talora spiavano con paura se dalle vetrate appariva la luce di Febo Apolline.
Ebbene, è così: nella vita sono molte camere segrete, ove bari e biscazzieri di ben altra natura che questi qui alla r o u l e t t e, mettono in circolazione i falsi valori. Oh, schiera nera coi bracciali rossi, qui appari, ed invadi!
Macchè! gli uni e gli altri si inseguono perennemente, come i fantocci delle giostre, senza toccarsi.
*
Lasciai dopo breve ora quel ritrovo, e mutati gli abiti e toltomi con abbondante acqua — come una purificazione — il contatto di quel luogo, montai in bicicletta e ripresi la via del bianco, caro mio romitaggio. L’alba rugiadosa già elevava in oriente i padiglioni di porpora.
Ma dopo un’ora di corsa, ecco io ero davanti al podere di quel villano solerte. In fondo al campo dilungavano i bianchi, enormi buoi ruminanti. Gli umili tamarischi, allineati in siepe, parevano al lento osservatore muoversi a ritmo alla brezza mattutina: leggiadrissima pianta nostra del mare. E la chioma tonda di un eccelso pino parea che si incendiasse di sole come se le resine che gemono dalle sue vene avessero più di ogni altra pianta sentito la fiamma e la virtù del sole.
Un podere così ben tenuto è cosa nobile come un’opera d’arte, è inspiratore come un canto di nobile poeta.
«Vieni, uomo veramente utile, che io ti fregi dell’onorificenza di cavaliere!»
Ma forse questo è scarso premio e giustizia inadeguata. Se fra quei giocatori notturni ci fosse il tuo padrone, oh, come un antico favoloso re-provvidenza rivolgerebbe volentieri le sorti di entrambi!
Manifestai questa bella idea di fare cavaliere del lavoro il contadino valente al signor Pasqualino, uomo di molta pratica mondana e che ha un bel posto nel giornalismo politico, ma egli si affrettò a smorzare il mio entusiasmo con un discorso molto assennato: io intanto non sarei riuscito mai ministro (questo lo sapevo da un pezzo), secondariamente una simile nomina sarebbe stata contraria alla p r a t i c i t à. Questo pure io sapevo, ma conservo le mie idee in proposito, cioè che è necessario rompere il cerchio fatale della così detta p r a t i c i t à. Se no ripeteremo in eterno il motto di Tiberio, imperatore.
L’imperatore Tiberio, ogni volta che usciva dalla curia — che sarebbe come dire il Parlamento dei nostri tempi — era solito esprimersi così ai senatori prosternati davanti a lui: «Oh, homines ad servitutem paratos!» Lo diceva in greco, che era la lingua elegante di quei tempi. Egli proferiva una feroce verità garbatamente, ed essi potevano fingere di non comprendere.