IX. La villa dell'uomo felice

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IX.

La villa dell’uomo felice.


Nell’occasione di un pranzo ospitale io avevo avuto incarico di trovare delle pesche, di quelle così dette cotogne, le quali dovevano servire per un fritto o per una crostata di frutta, non ricordo bene; ma ricordo che l’ingiunzione di portare a casa di quelle pesche era stata perentoria: «e che siano belle, mi raccomando».

Ora in quell’estate, nella nostra regione, il raccolto delle pesche era stato scarsissimo: ma io dovevo trovare di quelle pesche. Potevo bensì tornare a casa a mani vuote dicendo che pesche non c’erano; ma quando una donna ha detto che vuole pesche, pesche bisogna trovare per aver quella pace, che oggi è fra i   d e s i d e r a t a   dei popoli e delle nazioni, ma che pur tuttavia è gran fatica ottenere nelle semplici organizzazioni delle famiglie.

I carretti dei fruttaiuoli, fermi all’ombria, presso la posta, avevano cesti colmi di pere [p. 123 modifica]superbe, di susine ambrate, di uva luglia, di fichi primaticci a prezzi ridicoli; ma pesche non ce ne erano se non piccole e brutte, e care un occhio.

Io spiegai della mia necessita di aver pesche. Ma i fruttaiuoli dicevano che pesche come io volevo non ne avrei trovate a girare anche per tutti i poderi d’intorno. Allora un bel signore che sedeva all’ombria egli pure e ripassava in pace la sua corrispondenza, quando sentì quei rivenditori che affermavano non trovarsi pesche all’intorno, levò la testa e disse ad uno di loro:

— No, carino, nel mio orto, se ci vieni, le pesche ce le trovi.

— Nel suo orto, — fece colui alzando il braccio e movendolo per l’aria, — bella novità che nel suo orto ci sono le persiche! Ma mi dica un poco, signor Isidoro, che cosa le viene a costare quest’anno una persica? — e gli alzò l’indice, indicante una pesca sola, davanti al naso.

— Pezzi d’ignoranti! — e il signore che si chiamava Isidoro, disse ignoranti con quattro «a», quindi procedettero le sue parole dicendo: — Guarda lì, come parla! La volete sempre dal cielo la roba, voi. Lasciano questi villani porci gli alberi da frutta abbandonati a tutti i pidocchi, a tutte le muffe, e poi si [p. 124 modifica]lamentano se non c’è mele, susine, albicocche, pesche, fichi; quando poi ce n’è, vendono la roba a due soldi il chilo; se non la vendono, la danno alla scrofa.

— Se no va a male! Meglio che andare a male, — disse il villano.

— Vanno a male perchè siete più bestie delle bestie, — tuonò il signor Isidoro. — Se non c’è roba, — e si rivolgeva con voce più pacala a noi, — si lamentano; se ce n’è troppa, la rinviliscono a quel modo. Con una terra benedetta come la nostra! E intanto l’Italia importa dalla California per migliaia e migliaia di frutta conservate in cassette, e i nostri soldi vanno in America a comperar frutta. Ah, fate i socialisti, — e si rivolgeva ancora al villano. — Il socialismo ve lo darei io, — e accennava all’atto che fece Ulisse su le spalle di Tersite, — gente infingarda e stupida, che non avete che la prepotenza! E questi qui, — e sbattè con la mano sui fogli dei giornali, — vi danno ragione, e c’è chi dice anche che il contadino italiano è intelligente! Degli ignoranti siete! Pellagra e acqua marcia, vi sta bene. Voi volete il pane fino? la minestra buona con la carne? Guadagnatevela, figli di cani. Quel povero diavolo di...., — fece il nome di un proprietario, — ha speso cinquemila lire a far la casa nuova al suo mezzadro. Dopo [p. 125 modifica]sei mesi era peggio del porcile. Non c’è che la pellagra che vi guarisce.

Dopo questo sfogo il signor Isidoro diede in una bella risata; quelli se ne andarono piuttosto mogi, borbottando, e il signor Isidoro, che indovinò le parole di quel borbottare, mandò dietro il resto del carlino e disse:

— Ah, boia di signori, eh? Boia di villani, dico io!

Riaccese il sigaro e disse a me:

— A quella gente va bene dire quello che va detto, se no alzano la cresta. Infingardi, ignoranti che non hanno di buono se non la prepotenza. Dove trovano il tenero, però; perchè con me non c’è da far niente. E poi si lamentano della miseria! I miei contadini mangiano pane e bevono vino tutto l’anno, però! Lei, se vuole pesche, gliele manderò io a casa; lasci fare a me.

E due ore dopo un garzoncello mi portava un cestino di belle pesche cotogne.

Per questa occasione ho conosciuto il signor Isidoro.


*


Il quale è un forte e bell’uomo ancora: e la salute e la lietezza parlano eloquentemente da tutta la sua persona. [p. 126 modifica]

Non si creda però da questo suo squarcio di eloquenza che egli sia iroso: egli è placidissimo. Certe notizie della vita politica che fanno fremere me o mi fanno uscire in sarcasmi, provocano nel signor Isidoro un sorriso pieno di saggezza, che dimostra il perfetto equilibrio del suo sistema nervoso.

Una mattina venne alla borgata a ritirare la posta ed era in compagnia di una leggiadra signorina con le belle ciglia brune modestamente inchinate, e di un’altra signorina con occhiali a stanghetta e capelli di capecchio, tirati su la nuca: tutti e tre erano in bicicletta. Mai più avrei supposto che quella brunettina fosse la sua figliuola, e quasi stavo per congratularmi con lui come di cavaliere galante.

— È mia figlia, veramente, — disse, ma ci volle la presentazione e il sentir lei chiamar «babbo», perchè ogni dubbio scomparisse. L’altra, la compagna, era la governante tedesca, ed allora mi spiegai perchè il signor Isidoro ritirasse regolarmente dalla posta la «Gartenlaube», che, senza aprire, metteva in tasca. Quella governante tedesca non so quanto valesse nell’insegnare ii paterno idioma, nè quanto profitto ne traesse la scolara; bensì valeva molto a far risaltare la grazia della fanciulla. [p. 127 modifica]

— Ma quanti anni ha lei, signor Isidoro? — domandai. — Io, a far molto, glie ne davo quaranta.

— Ce ne aggiunga altri otto: e noti poi che di figliuole ne ho un’altra che ha già marito, perciò sono anche nonno: ho poi due figliuoli: il più grande è già laureato in chimica agraria: l’ultimo fa il liceo ed è con me qui in campagna: mi sono sposato giovane; e non me ne pento: certe cose, se si fanno, bisogna farle presto.


*


Orbene, il signor Isidoro mi fece ripetuti inviti di recarmi a vedere la sua casa al mare: — non dico «villa», — aggiungeva, — perchè si tratta di una fabbrica molto modesta: c’è però qualche cosa che le potrà piacere.

Andai dunque un vespero alla villa di questo uomo felice. Egli mi venne incontro festosamente.

Noi procedemmo per un dritto vialetto di ontani, così folti e alti, che il sole vi feriva appena; e l’occhio riposava in quel silenzioso verde: finchè sboccammo nel piazzale davanti alla villetta.

Dove essa dava ombra, la signorina, da me conosciuta, con alcune sue compagne [p. 128 modifica]attendeva all’elegante giuoco degli archetti. Qui la conversazione e la sosta furono brevi: indi il signor Isidoro mi condusse in giro pel suo tenimento.

Questo piccolo tenimento rappresentava, appunto appunto, quello che io vorrei avere, e non ho. Così è! Spesso io mi sono sognato di possedere presso il mare una casetta adorna: io dico presso il mare, non soltanto perchè molto amo il mare, ma perchè due cose mi piacciono che sono in antitesi: stare fermo e viaggiare. Ora il mare, aperto davanti a me, mi pare una strada la quale conduca in giro per tutto il mondo e conduca anche nell’azzurro del sogno e del cielo. Vorrei avere una casetta adorna e piccola, «parva sed apta mihi», (Oh, felice te, Lodovico Ariosto!), con intorno un po’ di terra coltivata, assai bene, come con religione. Spesso ho sognato di levarmi nel mattino già luminoso, e in cambio dei libri e della penna, ho sognato di prendere il rastrello e la forbice del potatore. Io non ho voluto, nè meno nel sogno, una villa grande e fastosa: un mausoleo di marmi che mi mortifichi col suo lusso, un inutile giardino. Le piante che danno il frutto hanno anch’esse il loro fiore al loro tempo. Tale, come io vagheggiava nell’illusione del sogno, era la villa utile di quell’uomo felice. Il frutteto, [p. 129 modifica]la vigna, il prato avevano il loro posto e si sentiva come la giocondità delle piante che vivevano la loro vita beata e feconda. Le piante sono, in verità, come filtri del veleno dell’aria: ma io le considero ancora come filtri del veleno della vita sociale.

— Bello! — esclamai.

— Sì, bello, — ripetè il signor Isidoro, — è tanto più se lei considera che pochi anni addietro qui non erano che monti di arena: le pianticelle erano inesorabilmente uccise l’inverno dal vento del mare. Qualunque altro avrebbe disperato di riuscire; ma mio babbo non disperò.

— È suo babbo che ha creato questo giardino?

— Mio babbo, appunto. Egli si era innamorato di questo luogo, e si era messo in testa di ricavarne un giardino: mio padre fu sempre così: messa in testa una cosa, la voleva vedere finita. L’inverno, con dei furiani terribili, attaccava il cavallo e veniva qui a coprire le sue piante con la premura di una madre che ha paura che i figli siano scoperti nel letto. Ma le piante morivano lo stesso. Allora, contro il mare, cominciò a costruire grande bastione di sabbia che vede là, ed a piantarci delle marruche. Anche quelle non volevano vivere, finchè una pianta [p. 130 modifica]cominciò ad aiutare l’altra, e venne su una bella selva alta: eccola.

Era una boscaglia aspra, irta di selvagge marruche, che salivano e coprivano un alto riparo a difesa del mare.

— Quando ci soffia il vento per davvero, — disse il mio ospite, — deve sentire che musica! Bene: (queste piante selvatiche furono la difesa delle piante gentili. Ora noi ricaviamo da quella piccola vigna quasi due castellate d’uva: non è un gran vino, ma sapido, frizzante, proprio fatto per bere qui, l’estate,

— E il suo signor padre, — io chiesi, — è ancora in vita?

— E in gamba, oltre che in vita! Vede quell’uomo là? (nel frutteto c’era un vecchio che io avevo giudicato per il contadino): quello è mio padre!


*


Adunque in quella villa vi erano tre generazioni: esse, dal vecchio che lavorava la terra alla signorina che era abbonata alla «Gartenlaube», bene potevano rappresentare la storia evolutiva di quella famiglia. Questa seconda parte del mio pensiero la ritenni per [p. 131 modifica]me, e non riferii che la prima parte con parole di alto elogio.

— E quando viene il bambino della mia maggiore, allora c’è anche la quarta generazione, — concluse sorridendo il signor Isidoro.


*


Quando uscii dalla villa, mi abbattei in un certo tale che fa da mediatore, e conosce vita e miracoli di tutta la gente che è qui. Gli domandai dunque se quella famiglia del signor Isidoro era ricca.

— Lo sono diventati, — mi rispose. — Quel vecchio che pare ancora un contadino (a me pareva nobile come l’antico Laerte, padre di Ulisse, nel fiorente pometo) quello è il nonno grande. Lui da giovane ne aveva quanto ne ho qui su la mano: ma dormire, dormiva poco; e quando dormiva, sognava quello che doveva fare il giorno. Girava per le fiere, si metteva in mezzo ai contratti, sempre con l’orecchio alzato, chè se c’era un affare buono, il primo a sentirne l’odore era lui. Per le cose della terra, pel bestiame, bravo poi! E così, un po’ per volta, ha fatto fortuna; e cominciò a speculare sul valore di queste arene, che allora si compravano per niente, e oggi lei sa quel che costano. Quando si è fatta [p. 132 modifica]fortuna, può accadere una delle due: o i figli consumano e sciupano quello che il loro padre ha messo da parte, e allora gira la ruota e si comincia da capo; o i figli buttano bene e si diventa signori. Il signor Isidoro è anche più bravo del padre: ha fatto in fretta a mettere insieme le migliaia; il merito più grande però è del vecchio che ha saputo piantarsi coi primi scudi.

Io ho chiesto al mio interlocutore se il vecchio sapeva leggere il libro dell’«Immortalità dell’anima» di Platone.

— Nè leggere, nè scrivere, — rispose. — Anzi per ricordarsi faceva dei segni. Doveva riscuotere da un fabbro? disegnava una tenaglia; doveva trattare con un medico? disegnava una croce; e così via.

Il sensale proseguiva a parlare. Ma io ero assorto in ben altro: «Evidentemente, — pensavo, — per farsi una villa, non pare che sia necessaria la lettura dell’«Immortalità dell’anima» di Platone».