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coetanei: se mettono o no in prigione a cantare l’«Inno dei lavoratori». Mi dichiarai incompetente. «Però fate una cosa, bambini miei; quando vedete venire i carabinieri, mettetevi tutti sull’angolo della via a cantare, e così si vedrà».
La proposta, benchè ardita, piacque. Di fatto appena spuntano i pennacchi rossi e turchini, ecco s’alza il coro argentino, squillante: alcune vocine tremano dalla paura; i carabinieri si fanno più grandi; dei due, ce n’è uno così grosso e grasso che nel suo ventre può contenere due almeno di quei piccini. Alcuni di costoro s’appiattano dietro la siepe: da quel nascondiglio, non vedenti e non veduti, la voce ha vibrazioni di gaiezza suprema. E la voluttà dell’estremo rischio: essere acciuffati come nella favola dell’orco! Macchè! i carabinieri non si sono voltati, nè meno un segno di tacere! Parlavano fra loro, e seguitarono a parlare.
Che mortificazione, poveri piccini!
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Col garzone del barbiere, che è un buon figliuolo, mi sono permesso la libertà della critica su la moda della camicia di satino nero che portano i compagni.