La fine di un Regno (1909)/Parte I/Capitolo IX
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CAPITOLO IX
Ferdinando II spese gli ultimi anni del suo regno nell’accrescere e consolidare l’esercito. Fu questa l’unica opera da lui veramente compiuta. Prima del 1848, l’esercito napoletano contava sessanta mila soldati di nome, ma in realtà esso non giungeva ai quaranta mila. Negli ultimi anni soltanto crebbero le milizie a centomila nomini ed assorbirono più che la metà delle entrate del Regno, le quali raggiungevano appena i trenta milioni di ducati. L’esercito ne costava diciotto. Così per il numero, come per la spesa, l’esercito delle Due Sicilie divenne affatto sproporzionato alla popolazione, alle condizioni economiche dello Stato e ai proventi del bilancio. Esercito essenzialmente dinastico, che prima del 1848 quasi non aveva spirito di corpo. Dopo il 1848, pur continuando tra gli ufficiali superiori le reciproche iperboliche denigrazioni, onde apparivano peggiori della lor fama, un certo spirito di corpo cominciò a manifestarsi, benchè vi entrassero dalle leve contadini e popolani, per i quali nulla rappresentavano i bisogni morali, tutto i materiali. Chiunque poteva, sottrarsi al servizio militare con dugento ducati o cambii di persona, consentiti dalla legge, ma i più se ne sottraevano con infinite malizie. La professione delle armi non apparteneva più alla vecchia nobiltà del sangue, secondo le tradizioni della monarchia napoletana. Le stesse guardie del corpo a cavallo, addette alla persona del re, formate dapprima da giovani, i quali dovevano avere i quattro quarti di nobiltà, ora erano composte da figli di generali, di alti impiegati, o appartenevano a discutibile nobiltà di provincia. I i capi erano più i gloriosi resti delle guerre napoleoniche. Tranne Filangieri, Ischitella, Castelcicala e Carrascosa, i capi dell’esercito erano di fatto i figliuoli dei compagni di Ruffo, o i rampolli di famiglie nobili ridotte al verde, o alcuni di quei vecchi arnesi del tempo di Murat: uomini senza fede politica, servitori dei Borboni, che disprezzavano in segreto, ma temevano per necessità d’impiego. Quest’esercito aveva acquistato un certo spirito di corpo, come ho detto. Era venuto in superbia per aver soffocata la rivoluzione il 15 maggio, domata la Calabria e riconquistata la Sicilia; perchè sentiva di essere l’unico sostegno della dinastia; perchè vedeva tutte le cure del re ad esso rivolte. Persino l' animosità pubblica, da cui si sentiva colpito, contribuiva non poco a stringerlo più dappresso al trono. Inoltre, l’esser cresciuto di numero lo faceva credere più valoroso. Esercito dinastico, anzi personale di Ferdinando II, esso temeva il re, disprezzava il proprio paese e odiava la libertà. La rozzezza e la spavalderia prevalevano nei soldati e nei capi, ma soprattutto nei capi.
Ferdinando II più che vere virtù militari ebbe, contrariamente al padre e all’avo, pronunziate tendenze soldatesche, fin dalla prima gioventù. Si racconta che l’avo, volgarissimo spirito, privo di ogni senso di dignità umana, dicesse un giorno al nipote giovinetto, occupato a studiare alcune modificazioni da introdursi nelle divise dei soldati: "vestili come vuoi, fuggiranno sempre„. Ancora si ricordano in Napoli alcuni versi in dialetto, nei quali Ferdinando I risponde a taluni, che gli consigliavano di affidarsi agli alleati: "Tu che malora dici? fujono chiù de me„.1 A Ferdinando II invece, che indossava tutti i giorni l’uniforme, piaceva assistere a riviste, andar nei quartieri e parlare con ufficiali e soldati familiarmente in dialetto, e chiamandoli per nome. Ogni anno a Sessa, prima del 1848, si formava il campo e si eseguivano evoluzioni tattiche a tema dato, alle quali il re non mancava mai, anzi era egli che comandava uno dei partiti manovranti. Ogni giorno, a Napoli, una brigata per turno andava a far gli esercizi al campo di Marte; e una volta la settimana, tutta la guarnigione. Ferdinando II teneva a mostrare le sue milizie a quanti cospicui personaggi andavano in Napoli.
Nel 1847 venne a lui in mente di fare un simulacro di guerra per istruzione delle sue truppe, e scelse Pozzuoli per campo di battaglia. Il piano era di prendere d’assedio la città, per marciare poi sopra Napoli. Presero parte alla fazione campale ventimila soldati circa, di cui una metà fu disposta lungo la linea da Napoli a Pozzuoli, e l’altra metà imbarcata sovra battelli a vapore. L’armata di terra era comandata dal generale Filangieri, quella di mare dal Re e dal fratello il conte d’Aquila.
Cominciato l’attacco, Ferdinando II tentò di sbarcare a Bagnoli; ma accortosi delle forze nemiche colà appiattate, prese a cannoneggiarle per tutto il littorale, mentre faceva dirigere i piroscafi verso Pozzuoli. Il colpo riuscì vano, perchè Filangieri, in previsione di tale movimento, avea fortificato di artiglierie le alture da Montedolce a Pozzuoli ed impedì lo sbarco. Allora il Re, fingendo di voler concentrare a Baja il suo corpo d’armata, scese a terra con le truppe, a piè di Montenuovo. Però, invece di muovere per Baja, prese la via littoranea per Pozzuoli, come il conte d’Aquila prese quella della collina superiore denominata Luciano, col disegno di stringere Pozzuoli da ambo i lati. Il generale Filangieri, avvedutosi a tempo della diversione delle truppe regie e dell’imminente pericolo di un assalto alla città, con una strategia bene immaginata, comandò alle sue truppe di retrocedere davanti al nemico con finto fuoco di ritirata, e dopo di aver fatto inoltrare il re e la sua soldatesca, già sicuri della vittoria, fino all’abitato verso il palazzo Pollis, fu loro addosso con la truppa nascosta nei pressi del tempio di Serapide e sulla collina di San Francesco li circondò d’ogni parte e li fece tutti prigionieri. La sconfitta del Re formò per molti giorni oggetto di commenti. Sull’imbrunire Ferdinando II, circondato dal suo Stato maggiore, fece riunire tutte le fanfare in piazza della Malva, quella stessa ora ridotta a giardino pubblico ed ivi al tocco dell’Ave Maria, scovrendosi il capo, ordinò che al suono delle musiche, tutte le truppe rendessero in ginocchio ringraziamento a Dio della giornata trascorsa. In tal modo finì la così detta Guerra finta, di cui rimane viva la memoria a Pozzuoli.
Il re era il capitano generale, cioè il capo supremo dell’esercito, ma più che a ravvivarne lo spirito, studiava di renderselo devoto. Compì alcune riforme più apparenti che reali, più meccaniche che organiche. Non pochi ufficiali superiori erano vecchioni, e chi non ricorda quel tenente generale Massimo Selvaggi che destava quasi la pietà o l’ilarità di quanti lo vedevano nelle parate, reggersi con grande fatica a cavallo? Gli ufficiali venivano in gran parte dalla bassa forza e avanzavano lentamente nella carriera, e solo in età tarda, o quando soverchiamente adiposi, guadagnavano le spalline. Le promozioni erano fatte per anzianità, e su ruolo unico, nelle diverse armi. Altri ufficiali erano forniti dalle guardie reali a cavallo, senza regolari promozioni, ma per semplice grazia sovrana. Buoni ufficiali, ma in troppo scarso numero per la quantità dei soldati, uscivano dal Collegio militare della Nunziatella, dove insegnavano professori come Paolo Tucci e Tommaso Mandoj, e avevano insegnato professori come Basilio Puoti, Francesco de Sanctis. Agli ufficiali il matrimonio era permesso, purchè la dote della sposa non fosse minore di quattromila ducati; e quando era al di sotto di questa somma, non mancava la grazia. E come avrebbe potuto muovere in guerra un esercito, comandato da uno stato maggiore decrepito o vecchio? Ferdinando II non si diede mai pensiero dell’eventualità di una guerra, perchè si credeva sicuro in casa sua.
Egli non si preoccupava che dei moti interni e per reprimere questi, l’esercito soverchiava; e c’erano poi gli svizzeri. Nonostante però il numero esagerato dell’esercito e la devota soggezione di questo, parrà strano, ma Ferdinando II non aveva vera fiducia che nei reggimenti svizzeri. Questi erano quattro, raccolti nei Cantoni principalmente cattolici. Entrarono nel Regno quando ne uscirono gli austriaci, cioè nel 1825, e le capitolazioni furono fatte per trent’anni col governo federale dal ministro di Napoli a Berna, il duca di Calvello, che divenne più noto col titolo di principe di Castelcicala. Gli svizzeri furono dunque destinati a sostituire gli austriaci, cioè ad essere il più sicuro puntello del trono e dell’ordine. E l’origine loro più politica che militare, faceva di essi una milizia affatto dinastica, anzi la più dinastica di tutto l’esercito, e quindi più favorita. Soldato o ufficiale, lo svizzero prendeva uno stipendio maggiore di due terzi del soldato napoletano, il quale aveva cinque grani il giorno, un grosso pane di munizione, carne e maccheroni, ed il venerdì mangiava di magro. Gli svizzeri avevano il letto; i soldati napoletani il pagliericcio; gli svizzeri, ricevendo un vestito nuovo, potevano ritenere il vecchio; il napoletano era obbligato a restituirlo; e quelli, oltre la gran tenuta, portavano ogni giorno un vestito di tela bigia. Erano, insomma, reggimenti privilegiati e costavano più di seicentomila ducati all’anno; spesa la quale, messa in confronto con quella di tutto l’esercito, conduceva alla conclusione che quattro svizzeri costavano quanto sette napoletani. Ma essi rappresentavano la vera forza della dinastia, la quale cadde quando gli svizzeri non ci furono più. Essi si trovavano sempre in prima linea, allorché c’era da menare le mani. Così il 15 maggio nelle vie di Napoli; così in Sicilia nello stesso anno e nel successivo. Dei quattro reggimenti svizzeri, il quarto, reclutato quasi tutto nel cantone di Berna, aveva l’orso cantonale sulla bandiera bianca. Ogni reggimento era diviso in due battaglioni, e ogni battaglione in sei compagnie. Appartenevano ai cacciatori e alla linea; oltre ai quattro reggimenti, vi era uno speciale battaglione di artiglieria. Scadute le capitolazioni nel 1855, Ferdinando II trovando difficoltà a rinnovarle col governo federale, le aveva rinnovate il 9 marzo di quell’anno, per un altro quinquennio, coi singoli comandanti dei reggimenti, per cui non si chiamarono più reggimenti svizzeri, ma battaglioni esteri e seguitarono a portare sulla bandiera lo stemma cantonale e ad avere la nazionalità di origine. Si tenga presente questa circostanza, che servirà a spiegare la loro insurrezione nel luglio del 1859.
Tutto ciò, che era necessario all’esercito, si costruiva o si provvedeva nel Regno. Alla Mongiana si fabbricava il materiale metallurgico per l’artiglieria, a Napoli si fondevano i cannoni, a Torre Annunziata si facevano i fucili, a Pietrarsa le macchine per i legni da guerra, a Scafati le polveri, a Capua c’era un opificio pirotecnico e a Napoli un ufficio topografico, diretto dal colonnello del genio Visconti, matematico di gran valore. A Castelnuovo esisteva una sala d’armi antiche e moderne, abbastanza importante.
Una ripartizione delle milizie in divisioni territoriali e corpi d’armata non esisteva. Ogni provincia aveva un così detto comandante delle armi, ma le armi mancavano. Il comandante delle armi non disponeva che di una compagnia di gendarmi e di una compagnia di soldati, detti provinciali. Vere guarnigioni di milizie attive si trovavano in Sicilia, a Napoli e in Terra di Lavoro. Tra quei comandanti v’era ancora qualche vecchio e valoroso ufficiale, che non tollerava le esorbitanze poliziesche degli intendenti e perciò cadeva in disgrazia o veniva addirittura messo in riposo. Ricordo il generale Giovanni Rodriguez, comandante della provincia di Siracusa, già colonnello del valoroso decimo reggimento di linea in Lombardia, nel 1848; il generale Tommaso Romano, antico e bravo ufficiale di Murat, ferito più volte in guerra, che nel 1856 si levò animosamente in difesa di monsignor Caputo di Lecce, e il generale Antonio Veltri, comandante negli Abruzzi, che nel 1860 si affrettò a passare armi e bagaglio al nuovo regime, recandosi in Ancona a far atto di sottomissione a Vittorio Emanuele. Le truppe del continente erano concentrate fra Gaeta, Caserta, Capua e Napoli, e i comandi generali divisi in due: uno per i dominii del continente ed un altro per la Sicilia. Il posto del comandante generale per il continente era in quegli anni vacante: ne faceva le veci il brigadiere Gaetano Garofalo, capo dello stato maggiore. Le truppe in Sicilia ubbidivano a don Paolo Ruffo, principe di Castelcicala, maresciallo di campo e luogotenente del Re. Dei fratelli del Re, il conte di Trapani, col grado di brigadiere, figurava fra gli aiutanti generali; maresciallo di campo onorario era il conte di Siracusa e marescialli di campo, effettivi il marchese Del Carretto, quasi decrepito, il conte Luigi Gaetani di Laurenzana, Pietro Vial e Franoesoo Pinto, marchese di San Giuliano e principe d’Ischitella, vecchi anche loro. Francesco Casella, padre dell’illustre avvocato, era intendente generale ed Emanuele de Gaeta comandava la piazza di Napoli. Ispezionava le guardie reali il cadente Selvaggi; comandava la gendarmeria il brigadiere Francesco Antonio Winspeare; Galluzzo dirigeva il servizio dei corpi facoltativi e Gregorio Lubrano, maresciallo di campo, era ispettore dei soldati provinciali o sedentanei.
Tutte le città fortificate avevano un proprio comandante e si dividevano in tre classi. Il maggior Focardi comandava Trapani; il maggiore Cappelli, Milazzo; il capitano Michele Amari, Aquila e il capitano Cecere, l’isola di Capri. Ai tenenti generali si dava il titolo di Eccellenza, agli altri ufficiali il don. I reggimenti di fanteria, eccetto i primi sei, s’intitolavano da una città o da una provincia e si distinguevano per il diverso colore delle mostre. Il primo reggimento si chiamava Re, e portava mostre rosse; e così il secondo, che aveva nome Regina; mostre gialle portavano il terzo ed il quarto. Principe e Principessa; di colore amaranto il quinto ed il sesto, Borbone e Farnese; celesti il settimo e l’ottavo, Napoli e Calabria; Puglia e Abruzzo di color arancio; Palermo e Messina verdi; Lucania e Sannio di rosso cupo e Messapio di color violetto. Splendide le divise, copiate dalle francesi dei tempi di Luigi Filippo. Tornato da Parigi, Ferdinando II cangiò in bleu l’uniforme rossa della guardia reale e le diè il cappellone di peli; ordinò i calzoni di color rosso cupo alla fanteria ed alla cavalleria, chiamò cacciatori i bersaglieri; ed usseri i cavalleggieri.
L’esercito, privo di qualunque sentimento nazionale, aveva invece esagerato spirito religioso, ma più di bigotteria. Soldati e ufficiali portavano addosso amuleti ed avevano immagini sacre nelle giberne e nei sacchi. Nella stessa misura, colla quale in lui si aumentavano gli scrupoli religiosi, Ferdinando II voleva che crescessero le pratiche di devozione nel suo esercito. Ogni arma aveva il suo santo patrono, e nelle città di presidio, per la festa del protettore, gli ufficiali in alta tenuta con lunghe candele accese in mano, seguivano le processioni e dietro loro, una o due compagnie di soldati con musica. A Napoli molti ricordano la processione del Corpusdomini e quella dei Quattro Altari. Le truppe si schieravano lungo le vie, per le quali passava la Corte a piedi, seguendo la processione. Nel giovedì e venerdì santo, i soldati senz’armi e in drappelli si recavano a visitare i sepolcri; e innanzi alla porta maggiore delle chiese come ai lati del sepolcro, si vedevan due sentinelle con i fucili capovolti, in segno di lutto. Nelle feste ciascun reggimento in armi sentiva la messa e all’elevazione la musica intonava l’inno reale. Se suonava l’avemmaria e un reggimento era a manovrare in piazza d’armi, i soldati dovevano inginocchiarsi e rimanere a capo scoperto mentre la musica intuonava l’inno della preghiera. Ferdinando II, in simili casi, dava il segno dell’alt, anche quando un reggimento di cavalleria moveva alla carica. Nel 1855, proclamato il domma dell’Immacolata Concezione, tutto l’esercito in alta tenuta assistè a una messa di ringraziamento, celebrata da monsignor Naselli, cappellano maggiore. E chi non ricorda la spettacolosa parata di Piedigrotta?2
La disciplina veniva mantenuta con pene severissime, persino crudeli. Tutta la parte morale, che tiene oggi il maggior posto nell’educazione militare, allora non c’era, nè, dato il modo con cui quell’esercito si reclutava, poteva esistere. Non il sentimento del dovere, nè l’onore della divisa rattenevano il soldato dalle indisciplinatezze o dalle cattive azioni, ma la bacchetta e le legnate, pene che raggiungevano l’orrore di una flagellazione. Nell’esercito c’era la piaga della camorra, che non si riuscì a curare mai neppure con quelle terribili pene. Il condannato alle legnate veniva condotto nell’atrio della caserma, dove già il sua reggimento si trovava disposto in quadrato. Là era svestito e con le sole mutande veniva steso bocconi sopra una scranna di legno. Due caporali con un sottile bastone applicavano al disgraziato cinquanta o cento battiture, secondo la condanna, numerando i colpi ad alta voce. La pena della bacchetta era anche più dolorosa. Il colpevole, nudo sino ai fianchi, doveva passare e ripassare tra due file di soldati, i quali a suon di tamburo lo percuotevano sulle spalle, con sottili verghe di salice. Alcuni colonnelli erano così spietati da ordinare simili supplizii per lievi mancanze di disciplina, o per poca correttezza nell’insieme della tenuta. I più piangevano sotto i colpi e invocavano la propria madre o la Madonna, ma i camorristi subivano la flagellazione con coraggio e spesso con aria provocante. Condannati alle legnate, tenevano stretto fra i denti un fazzoletto, per non rompere in grida strappate dal dolore. Dopo il supplizio, divenivano peggiori: la pena subita era per essi nuovo titolo di bravura. Non è quindi a maravigliarsi se, deperendo con tali punizioni il sentimento morale nell’animo del soldato, il bigottismo ed il terrore tenessero il luogo di quelle energie intime e di quell’alto sentimento dell’onore, che formano il carattere dell’uomo di guerra.
Più che una raccolta di uomini d’arme, avidi di gloria e di avventure, l’esercito poteva dirsi una raccolta di frati armati, desiderosi di quieto vivere. Le imprese contro il nemico interno li trovavano disposti a menar le mani. Nelle processioni del Corpusdomini, appena si determinava per qualunque inezia quel panico caratteristicamente napoletano, detto fuie-fuie,3 bisognava vedere con che arditezza le guardie reali si stringevano attorno al re, mentre le truppe allineate sulla via impugnavano le armi; ma andando contro il nemico, di qua o di là dalla frontiera, accadeva il contrario. Non volendo ricordare Antrodoco, nè la famosa ritirata da Roma al principio del secolo, ricordo quella più recente di Velletri, per la quale il generale Roselli scrisse nelle sue Memorie queste parole profetiche: “Il re di Napoli, facendo alle sue truppe eseguire la ritirata nel Regno, suscitava in loro un’idea d’impotenza e quindi una diffidenza nella vittoria, un disgusto e avversione per la guerra, un peggioramento nello spirito insomma„. Che se poi i soldati napoletani, tolti via di pianta da Napoli, anzi dall’Italia, venivano condotti sott’altro cielo e comandati da un capo di riconosciuto valore, si coprivano di gloria. Durante l’impero napoleonico, i napoletani che combattevano in Ispagna, vennero lodati dai marescialli Suchet e Saint Cyr; nel 1812 Murat ne condusse nella campagna di Russia diecimila, i quali fecero prodigi e nella tremenda ritirata di Mosca, Napoleone non ebbe altra scorta che di cavalieri napoletani, comandati da Roccaromana e da Piccolellis, il quale guidava i cavalli della carrozza dov’era l’Imperatore. Questi diecimila napoletani erano comandati da Florestano Pepe, da Rossaroll, da D’Ambrosio, da Cianciulli, da Costa, da Arcovito, da Roccaromana, da Piccolellis e da Campana. Nella famosa ritirata di Mosca il freddo colpì i due colonnelli Campana e Roccaromana e a Florestano Pepe si gelarono i piedi.
Dopo Lutzen, Napoleone pubblicò quest’ordine del giorno: S. M. l’Imperatore dei francesi e Re d’Italia, volendo dare alle truppe napoletane che fanno parte del grande esercito, una pruova della sua soddisfazione, pel coraggio da esse addimostrato nelle battaglie di Lutzen, con decreto del 22 maggio, ha loro conceduto ventisei decorazioni della legion d’onore, da distribuirsi ai militari dei diversi gradi e classi, che si sono maggiormente distinti. Murat ne fece di sua mano la distribuzione. A Danzica le truppe napoletane ebbero elogi dal maresciallo Rapp; e qualche anno dopo combattettero valorosamente, benchè infelicemente, a Modena e a Macerata, condotti dallo stesso Murat. Al ponte San Giorgio il generale Carlo Filangieri, mortalmente ferito, si coprì di gloria. Il decimo di linea si fece molto onore in Lombardia, nel 1848. Strane contraddizioni, da non maravigliare nel paese delle contraddizioni!
Alla mancanza di ogni vera educazione militare si aggiungeva la meschinità del soldo. L’esercito borbonico era il peggio pagato degli eserciti italiani. Mal retribuiti e carichi di debiti, ufficiali e sottufficiali avevano quasi tutti famiglia, che si rimorchiavano appresso nel cambio delle guarnigioni, onde, movendosi un reggimento, pareva che si movesse una tribù. Altra piaga dell’esercito era la clientela. Ufficiali superiori avevano ufficiali inferiori da proteggere; e questi, i sottufficiali; e i sottufficiali, alla loro volta, i soldati; catena di dipendenze, cause ed effetti ad un tempo, d’una situazione moralmente anormale, che spegneva ogni sana energia e manteneva una specie di malessere morboso fra gli ufficiali, e nei soldati un’indomabile disgusto per il mestiere delle armi: disgusto o avversione divisa dal paese, il quale non si era potuto abituare alle leve che rappresentavano un pubblico lutto. Eppure i coscritti non partivano per la guerra, ma per andar ad oziare nelle guarnigioni di Napoli o delle vicinanze. Se se ne eccettui i soldati del genio, non vi era straordinaria occasione o pubblica disgrazia, nella quale venisse adoperato l’esercito. La vita neghittosa contribuiva a deprimerne il carattere.
Certo non mancavano tra gli ufficiali, soprattutto fra i giovani usciti dal collegio della Nunziatella, con la mente nutrita di buoni studii e appartenenti alle armi dotte, sensi di onor militare, nobili aspirazioni a un avvenire migliore e desiderio di riforme radicali. Le buone tradizioni di quel collegio, dal quale erano usciti Enrico Cosenz, Giacomo Longo e i fratelli Luigi e Carlo Mezzacapo, non erano spente. Aspirazioni individuali, che si perdevano in quel generale e rozzo scetticismo, il quale inquinava l’esercito, devoto al re, ma umiliato da lui, che non senza ostentazione mostrava di riporre maggior fiducia negli svizzeri. Era veramente una milizia senza ideali nazionali e meno di conquista, nè scuola del dovere: ben vestita, mal pagata e votata all’immobilità. Ma per quanto il partito liberale si adoperasse a far proseliti nell’esercito e diffondervi le idee di nazionalità e di patria, non vi riusci finchè visse Ferdinando II. Fu in appresso, quando, lui morto, cominciò a sfasciarsi tutto l’edifizio suo, che la propaganda liberale si fece strada, ma aiutata da due circostanze capitali: l’insurrezione e poi la partenza degli Svizzeri e l’atto sovrano del 25 giugno 1860.
Una compagnia speciale era quella delle Guardie del corpo, ad alcune delle quali, andate da lui a reclamare perchè nello scegliersi fra loro gli ufficiali, si erano usate ingiuste preferenze, Ferdinando II rispose: "Belli figliuò, io ccà aggia fa comm ’u chianchiere, na chiena e na vacante„4. Le guardie del corpo furono istituite nel 1734 da Carlo III, il quale portò a Napoli gli usi e i costumi di quelle di Spagna. Primo capitano delle guardie del corpo fu don Lelio Carosa, marchese di Arienzo. Ferdinando IV, tornato dalla Sicilia, ricostituì la compagnia con un decreto del 1° agosto 1815 e questa rimase così composta: un capitano, un tenente, un secondo tenente, due esenti primi, quattro esenti proprietari, quattro esenti soprannumeri, quattro brigadieri, otto sottobrigadieri, un sottobrigadiere portastendardo, due trombettieri, centoventi guardie! Erano inoltre più i caporali dei soldati. Tutti per esservi ammessi dovevano essere nobili, ma non si andava pel sottile a ricercare la nobiltà. Metà erano guardie a cavallo e metà a piedi, ma per turno, sicchè tutti dovevano essere buoni cavalieri. Erano esenti dal servizio di governo dei cavalli, che veniva fatto da altrettanti garzoni. Dopo questa riforma, il primo capitano fu un tenente generale, il principe di Ruoti, don Giuseppe Capece Minutolo, ed il primo tenente un maresciallo di campo, il principe di Migliano, don Gerardo Loffredo. Ne fecero parte tutti i nobilissimi del Regno, i Tuttavilla, i Carafa di Traetto, i Caracciolo, gli Statella, i Lucchesi, i Del Pezzo, i Del Carretto, i Belgioioso, i Casapesenna, i Paterno, i Mastrilli e via dicendo. L’appartenere alle guardie del corpo, che avevano smaglianti uniformi, era un sogno dei giovani signori napoletani. Di tutti quelli chiamati a comporre la compagnia da Ferdinando IV, nella suddetta riforma del 1815, ne vivevano nel 1882 due soltanto: Achille Paternò e Diego Candida.
Fra le guardie del corpo si mantennero sempre salde le tradizioni di lusso, di giuoco, di debiti e di vita dissipata. Come un giovane era ammesso nel corpo, doveva comprare il cavallo e appena lo presentava, gli veniva pagata la somma di centoventi ducati. L’assegno annuo consisteva in circa quindici ducati al mese, oltre al doppio foraggio per il cavallo. Ma le guardie del corpo dovevano obbligatoriamente assistere alle rappresentazioni del San Carlo e pagare l’ingresso; sicchè si prelevavano dalla massa queste spese, e alla fine dell’anno ciascuna guardia non liquidava sul suo stipendio più di un’ottantina di ducati. Questo misero assegno, del tutto insufficiente al lusso di cui le guardie del corpo si circondavano, le poneva nella necessità di rovinarsi. Guardia del corpo divenne sinonimo di scapestrato, d’indebitato, di prepotente e di volgare spiritoso. Tutti parlavano come il Re il dialetto napoletano coi suoi più plebei idiotismi. Le promozioni nell’alta ufficialità erano piuttosto rare, e quando avvenivano, se ne parlava in vario senso. Le promozioni le faceva direttamente il re, che sovente ne interrogava i suoi aiutanti maggiori o gli ufficiali, che gli erano più dappresso, d’Agostino, Rodrigo Afan de Rivera padre di Achille, De Angelis, Anzani e Schumacher. Nel 1855 furono dati al conte di Siracusa e al generale Caracciolo di Torchiarolo gli onori di tenente generale, e il conte disse, non senza sarcasmo, che avrebbe preferito esserlo effettivo. Furono promossi tenenti generali Del Carretto, Lecca, Vial, Ischitella, Castelcicala e Gaetani. Sedici brigadieri furono fatti marescialli di campo; e venti colonnelli, brigadieri. Fu la maggiore sfornata di quegli anni, e non mancarono banchetti, ricevimenti e ... mormoramenti. Fu notato che Del Carretto, Vial, Torchiarolo e Gaetani erano molto vecchi, e Ischitella, ministro della guerra, aveva promosso sè stesso. Il grado di tenente generale era il più alto, il più retribuito e il più ambito.
Con un Regno, le cui coste si sviluppavano largamente nel mare che lo bagnava da tre parti, Ferdinando II non dedicò alla marina le stesse cure che dedicò all’esercito, a differenza del suo avo, ai cui tempi la marina napoletana si distinse, combattendo accanto all’inglese. Se Ferdinando II non temeva un’invasione dalla parte di terra, non prevedeva gravi pericoli dal mare. Fu per questo che lasciò le coste indifese. I pochi porti di Calabria, di Sicilia e dello stretto di Messina non erano in grado di opporre resistenza. Sebbene nato in Sicilia, il Re non aveva la passione del mare; dopo il 1848 non passò lo stretto che una volta sola; e dovendo recarsi nelle Puglie per il matrimonio del duca di Calabria, affrontò il viaggio di terra nel cuore dell’inverno; e solo ripassò il Faro nel 1859, colpito dal terribile male che l’uccise tre mesi dopo.
L’organizzazione dell’armata era in apparenza superiore a quella degli altri Stati italiani, tanto che il conte di Cavour, assunto anche al ministero della marina nel gennaio del 1860, ne adottò le ordinanze, le manovre e i segnali di bandiera, che mancavano alla flotta sarda e prescrisse per gli ufficiali la divisa napoletana. L’armata si componeva di due vascelli da 80: uno ad elica, il Monarca; l’altro a vela, il Vesuvio; di tre fregate a vela: la Partenope, l’Amalia e la Regina; di due ad elica: la Farnese e la Borbone, che poi divennero la Garibaldi e l’Italia. V’erano inoltre sei fregate a vapore a ruote: il Guiscardo, l’Ercole, il Tancredi, l’Ettore Fieramosca, il Veloce e il Fulminante; quattro corvette a vapore: il Miseno, la Maria Teresa, il Palinuro e il Ferdinando II; e due a vela: la Cristina e l’Amalia; quattro brigantini a vela: il Valoroso, l’Intrepido, lo Zaffiro e il Principe Carlo, e cinquanta bombarde e barche cannoniere.
La marina mercantile era formata quasi interamente di piccoli legni, buoni al cabotaggio e alla pesca e la montavano più di quaranta mila marinari, numero inadeguato al tonnellaggio delle navi. La navigazione si limitava alle coste dell’Adriatico e del Mediterraneo, e il lento progresso delle forze marittime non consisteva nel diminuire il numero dei legni ed aumentarne la portata, ma nel moltiplicare le piccole navi. La marina mercantile a vapore era scarsissima, non ostante che uno dei primi piroscafi, il quale solcasse le acque del Mediterraneo, fosse costruito a Napoli nel 1818. Essa apparentemente sembrava la maggiore d’Italia, mentre in realtà alla sarda era inferiore, e anche come marina da guerra, era scarsa per un Regno, di cui la terza parte era formata dalla Sicilia e gli altri due terzi formavano alla lor volta un gran molo lanciato verso il Levante. La marina e l’esercito stavano agli antipodi: l’esercito era sproporzionato al paese per esuberanza, la marina per deficienza. Più copiosa era la marina da pesca sulla spiaggia adriatica più che sulla tirrena, e sulla spiaggia pugliese a preferenza. Moffetta contava una vera flotta da pesca con statuti e consuetudini secolari; e Barletta, Treni, Bari e Mola avevano piccole flotte non meno audaci. E oosì nei golfi di Napoli e di Gaeta, e nei porti di Castellamare e di Palermo, di Catania e di Messina. I pescatori pugliesi dividevano con quelli di Chioggia e di Fano la supremazia della pesca nell’Adriatico, e i napoletani facevano la concorrenza ai pescatori della costa pontificia e toscana, da Terracina a Viareggio; più arditi e capaoi di tutti, i pescatori di Molfetta, che si spingevano nell’Egeo, sulle agili “paranze„ e portavano il pesce sino a Costantinopoli.
Il più alto grado nella marina da guerra l’aveva il conte d’Aquila, viceammiraglio e presidente del Consiglio di ammiragliato, al quale appartenevano i viceammiragli, Francesco Saverio Garofalo, Lucio di Palma e i brigadieri Vincenzo Lettieri e Pier Luigi Cavalcante. Oltre a questi, erano ufficiali generali di marina Giovanni Antonio della Spina, primo istruttore del duca di Calabria benohè ignorantissimo, Luigi Jauch, Leopoldo del Re, Antonio Bracco, il marchese Girolamo de Gregorio e Antonio Palumbo. Il brigadiere Cavalcante era pure intendente generale dalla marina. Tra i capitani di vascello, ricordo Francesco e Michele Capecelatro, fratelli di Antonio e di Alfonso, e don Michele d’Urso, più noto per le sue arguzie che per l’ufficio di relatore della Corte marziale marittima. Rammento, tra gli ufficiali superiori, Scrugli, Vacca, Barone, Longo, Brocchetti, Anguissola e tra gli ufficiali più giovani, i fratelli Acton, Civita, D’Amico, Martini, Vitagliano, Persichetti, Accinni, Turi, Libetta, Lubrano, Cottrau, Romano, Palumbo, Sanfelice, Corsi e Serra, i quali entrarono tutti nella marina italiana.
Napoleone Scrugli, che divenne poi aiutante di campo di Vittorio Emanuele e senatore, era calabrese e comandava nel giugno del 1860 la pirofregata il Tasso, che si arenò alla foce del Tronto. Giovanni Vacca, che fu uno dei tre ammiragli di Lissa e il solo che avesse avuto una felice ispirazione in quella triste giornata, comandava il Valoroso, poi fu promosso e comandò il Monarca fino al 1860. Edoardo d’Amico, che fu prima capo dello stato maggiore della squadra di crociera, la quale non seppe impedire lo sbarco di Garibaldi a Marsala, e poi ebbe lo stesso ufficio col Persano a Lissa e passò con costui dal Re d’Italia sull’Affondatore, comandava la Maria Teresa, ed era stato incaricato, l’anno prima, di gettare il cavo telegrafico fra Otranto e Vallona. Carlo Longo, che nei nuovi tempi comandò il dipartimento marittimo di Genova, era commissario del re presso il tribunale di guerra e marina. Tutti e tre capitani di fregata. Equi è bene notare che allo sbandamento della marina nel 1860 contribuì, più di ogni altra cosa, una singolare leggerezza di carattere, nota caratteristica di quella ufficialità, così intelligente e vivace: leggerezza, che più tardi rivelarono alcuni di loro, saliti a posti politici eminenti: nè leggerezza di carattere soltanto, ma la coscienza della immobilità alla quale la marina era condannata, con un re che soffriva il mal di mare, e con un comandante supremo completamente disadatto al suo ufficio. Nei frequenti contatti con le marine degli altri Stati, e singolarmente della sarda, la marina napoletana aveva acquistato il sentimento della propria inferiorità e rodeva il freno, e nel 1860 lo spezzò ad un tratto, senza altre considerazioni. Dei viceammiragli nessuno passò nella marina italiana e il Lettieri, comandante della piccola squadra che accompagnò a Gaeta Francesco II e il Pasca che comandava la Partenope, tornarono alla vita privata dopo il 1860, senza rimpianto.
V’era nella marina napoletana una classe, che con denominazione un po’ bizzarra, si chiamava dei "brigadieri„ come se la flotta si dividesse in brigate, a somiglianza dell’esercito. Questo grado corrispondeva ai commodori di altre marine militari. Erano allora brigadieri Ferdinando Pucci, che comandava il dipartimento marittimo di Castellammare e i cui figliuoli entrarono nella marina italiana e Carlo Chretien, passato anche lui nella marina italiana, il quale nel 1857 era presidente della commissione per le prede. Vi erano due istituti per la marina: il real Collegio di marina e una scuola per gli alunni marinari e dei grumetti.
Uscivano dal primo ufficiali e ingegneri costruttori, e gli alunni non potevano essere più di quaranta: quindici a piazza gratuita e venticinque a pagamento; uscivano dalla seconda piloti, sottufficiali, cannonieri e marinai e vi erano cinquanta posti, dei quali venti a retta intera. Il brigadiere Federico Roberti era ispettore di questi istituti.
La marina militare sentiva di non godere la predilezione del re. Non marinaro lui, nè marinaro il conte di Aquila; e dei giovani principi nessuno, nessuno avviato alla marina! Non si dava quasi mai il caso di riviste o manovre o di viaggi di istruzione e assai meno, circumnavigazione. Le guardie marine erano a preferenza addette al cantiere di Castellamare, ma non davano esempio di esattezza, nè di zelo, onde si verificavano non infrequenti ruberie. Nel 1855 se ne verificò una piuttosto scandalosa, per questa il re retrocesse alla terza classe il comandante Cataro, e decise di destituire le guardie marine Caracciolo di Torchiarolo, Petrizzi, Andrea Colonna ed Eduardo San Teodoro, per “provata insufficienza e pigrizia nel disimpegno del proprio ufficio„; ma appartenendo tutti e quattro a cospicue famiglie, la grave misura fu sospesa e poi non si verificò. Altre due guardie marine furono mandate per ammonizione in castel dell’Uovo per due mesi, e il Cafaro fu definitivamente esonerato.
L’alta Corte militare, che era comune all’esercito e alla marina, risedeva a Napoli e la componevano ufficiali di terra e di mare. Era una specie di Cassazione e rivedeva le decisioni dei Consigli di guerra, solo per verificare se la legge o la procedura era stata violata. La formavano un presidente, otto giudici ordinarii, quattro dei quali dovevano essere marescialli di campo, e quattro brigadieri e sei giudici straordinarii: la presedeva don Luigi Niccola de Maio, duca di San Pietro.
La Corte Suprema di giustizia aveva per presidente il sommo Niccola Nicolini, avo materno dell’ex guardasigilli Francesco Santamaria, che allora s’iniziava nel fôro, con suo fratello Niccola e chiamato Cicciotto da parenti ed amici. Don Pasquale Jannaccone e il marchese Brancia, padre di Carlo, morto consigliere di Cassazione nel 1896, n’erano i vice-presidenti; procuratore generale don Michele Agresti; e avvocato generale, don Stanislao Falconi, di Capracotta, zio del presente sottosegretario di stato della giustizia e fratello di monsignor Falconi. Era il Falconi ritenuto giurista di valore, e di non minor valore erano, tra i consiglieri, Pietro Ulloa che fu poi ministro di Francesco II, e Niccola Gigli già ministro dell’ultimo gabinetto costituzionale nel 1848. Filippo Angelillo, malamente distintosi come procuratore generale della Corte speciale (la quale condannò Settembrini, Spaventa e Barbarisi a morte, Poerio, Pironti, Braico e Nisco ai ferri, e Scialoja alla reclusione) era anche lui consigliere. Sciolte che furono le corti criminali di rito speciale, i magistrati che le componevano, ebbero destinazione diversa: e così troviamo tra i giudici della Gran corte criminale di Napoli, Lastaria, Giambarba, Amato, Canofari e Juliani; e procuratore generale, Francesco Nicoletti il quale aveva occupato lo stesso posto nella Corte speciale di Cosenza, che condannò, per i fatti del 1848, quattordici liberali a morte e centocinquanta ai ferri! Furono, tra i primi, Vincenzo Morelli, Giuseppe Pace e Stanislao Lamenza, non che il Ricciardi, il Mauro e il Musolino, contumaci. Presidente della Gran corte civile era Vincenzo Niutta che, morto il Nicolini, gli successe nella Corte Suprema. Il posto, gerarchicamente, sarebbe spettato a Jannaccone; anzi vi fu pur nominato, ma poi il Re lo concesse al Niutta, per confortarlo di un grave oltraggio fattogli dal principe d’Ischitella, al quale il dotto magistrato era stato contrario in una lite, e diè a Jannaccone un soprassoldo di quattrocento ducati. Con lo stesso decreto del 1856, insieme ad altri movimenti, fu promosso il Falconi a procuratore generale della Corte Suprema, dopo la morte dell’Agresti. Il Niutta morì senatore del Regno d’Italia, dopo aver proclamato il plebiscito delle Provincie napoletane e dopo essere stato ministro senza portafoglio con Cavour. Uomo di larga cultura giuridica, visse quasi sempre estraneo alla politica. Sedendo alla Camera sui banchi del ministero, si addormentava spesso, e piegando involontariamente il capo, pareva talora che approvasse i discorsi degli oppositori. Le sue sentenze sono monumento di dottrina, ma in politica seguì la massima di sapersi accomodare ai tempi.
Tra i consiglieri della Gran Corte civile ricorderò Achille Rosica, già intendente di Basilicata e poi direttore del ministero dell’interno sotto Francesco II; Callisto Rossi, che divenne, col Regno d’Italia, consigliere di Cassazione; il piccolo e nervoso Niccola Rocco, il quale, dopo il 1860, insegnò diritto commerciale all’Università. L’alta magistratura napoletana, anche in tempi tristi, fu modello di sapienza, di dignità e di decoro, specialmente la civile. Apparteneva anche alla Corte Suprema quell’ottimo don Niccola Spaccapietra, che fu presidente della Corte di Cassazione dopo il 1860, e che oggi è tuttora ricordato con rispetto, come si ricordano parecchi di quelli, che ho nominati. Aveva non so quale deformità alle mani, per cui nei conviti ufficiali non si toglieva mai i guanti.
Vincenzo Lomonaco era presidente del tribunale e Gennaro Rocco, fratello di Niccola, procuratore del Re. Questi Rocco, uomini di valore, erano devotissimi ai Borboni; e Niccola che, in materia di diritto commerciale, godeva molta riputazione anche all’estero, fu tra i nove che scesero in campo a confutare lo scritto di Scialoja sui bilanci napoletani. Sedeva, tra i giudici del tribunale. Bernardino Giannuzzi Savelli, il quale aveva un piede in curia ed uno nel mondo galante, e che tutti maravigliava per il suo felice talento, ma ai colleghi riusciva poco gradito, perchè accentuatamente sdegnoso delle volgarità del mestiere. Tra i giudici soprannumeri di allora, alcuni occupano oggi posti eminenti, come il senatore Antonio Nunziante, morto primo presidente della Corte di Cassazione di Napoli; e, se volessi portare le indagini sui giudici soprannumerarii dei tribunali di provincia, troverei Carlo Bussola, che divenne poi un atleta della parola, al tribunale di Santa Maria; Carlo Adinolfi, ad Avellino; Luciano Ciollaro, procuratore del Re a Reggio e Carlo Capomazza al tribunale di Lucera.
Gli stipendii della magistratura collegiale non erano scarsi; anzi, dati i tempi, erano piuttosto lauti. Dopo parecchi anni di alunnato affatto gratuito, e che richiedeva una non spregevole cauzione, si aveva il primo stipendio di giudice di tribunale o di sostituto procuratore del Re, di ducati sessantacinque, poco meno di trecento lire. "La prima volta, che mi portarono lo stipendio, racconta ingenuamente Carlo Bussola, morto nell’ingiustificato, anzi vergognoso oblio del governo, mi sentii ricco. Sessantacinque ducati, e io non ne spendevo più di venti! Ero a Santamaria, e pagavo il fitto di casa per la mia famiglia ducati sei al mese; il pane costava grani tre al rotolo; con due grani si aveva una caraffa di vino; la carne costava dalle nove alle quindici grana il rotolo, e le frutta non avevano prezzo: a buonissimo mercato i maccheroni e gli ortaggi„. Era vero: il buon mercato nelle provincie rasentava l’inverosimile, e a Napoli la vita non costava veramente di più, e i capi delle Corti e molti consiglieri delle Corti e molti consiglieri retribuiti con stipendii, che andavano dai cento ai dugento ducati al mese, avevano carrozza e abitavano signorilmente. Il presidente Jannaccone acquistò un appartamento a Toledo per sedici mila ducati, dove visse e morì. Agiato di suo, aveva in moglie una delle sorelle Antonacci di Trani, le quali erano entrate nelle doviziose famiglie pugliesi dei Beltrani, dei Palombo e dei Martinelli. Solo lo stipendio dei giudici regi (pretori) era abbastanza infelice: diciotto ducati soltanto, e perciò molte volte la giustizia risentiva gli effetti dei magri assegni, anche perchè i giudici regi esercitavano le attribuzioni di ufficiali di polizia nei piccoli centri, e si può bene immaginare quanto fosse il loro potere e quanto frequenti le occasioni di peccare. Però non era raro il caso di trovare fra essi dei galantuomini e giovani di valore; ma non era neppur raro il caso opposto, che resistendo cioè a più forti tentazioni, si lasciassero vincere da regali di commestibili, a preferenza latticini e carni salate, che erano i grandi mezzi di corruzione delle autorità minuscole, soprattutto se avevano famiglia!