La fine di un Regno/Parte I/Capitolo XIV
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CAPITOLO XIV
La vita del Regno non era così varia e lieta come a Napoli. Nel capitolo consacrato alle provincie, la vita di queste è narrata ampiamente. L’ultimo decennio fu in verità molto diverso anche per Napoli, dagli anni che precedettero il 1848, quando la Corte vi dimorava e il Re dava frequenti feste e interveniva ai balli privati. Nel 1843, in occasione della inaugurazione della ferrovia che congiunse Napoli al Real Sito, aprì anche la Reggia di Caserta ad una festa, di cui in alcuni de’ nostri vecchi dura ancora il ricordo. Apri egli stesso le danze, essendo allora ballerino agile e instancabile, e la duchessa Teresa Ravaschieri ricorda che, giovanissima, facendo il suo primo ingresso nel mondo, aveva ballato un valtzer col Re, molto galante con le signorine più belle. Vi era allora fra la Corte, l’aristocrazia e l’alta borghesia maggior affiatamento, più facili essendone i contatti. Ma dal 1849 al 1859 le cose andarono altrimenti, come si è veduto. Una delle ultime feste date alla Reggia di Napoli la sera del 26 febbraio 1864, fu quel magnifico ballo in costume, di cui la memoria non si è ancora cancellata. Tutto il servitorame vestiva alla Richelieu e la quadriglia reale, alla Luigi XIII. Il Re indossava un costume di velluto grigio; il conte d’Aquila, di velluto nero; il conte di Trapani, di velluto bleu-celeste; il conte di Montemolino, di velluto marrone chiaro; il principe don Sebastiano, di velluto marrone scurissimo e di scurissimo azzurro era il costume di don Fernando infante di Spagna. Vi convennero ancora alcuni principi tedeschi, coi relativi seguiti, anch’essi in costume, e grande fu la magnificenza dei merletti ed il luccichio delle gemme. A questo ballo, nel quale gl’inviti raggiunsero il migliaio, intervenne Giovannino del Balzo sotto le vesti di brigante calabrese: costume più fantastico che reale. Fu fatto ritirare per comando del Re, che chiamò il maggiore Yungh, degli svizzeri, vestito da mugnaio, e gli disse: "Avvisa Giovannino, che si vada a comporre„. Il Del Balzo usci e più non comparve; e quando, due o tre giorni dopo, andò dal Re a presentargli le scuse, Ferdinando II gli disse: "Ricorda che i briganti alla Reggia non debbono venire, neppure in maschera„. L’ultimo ballo ebbe luogo la sera del 14 gennaio 1856, con due mila invitati. Un altro era stato fissato nel gennaio del 1857, ma non fu potuto dare per una serie di disgrazie sopravvenute, a causa, si disse, dell’invito fatto al duca di Ventignano, jettatore famoso. Caratteristico il colloquio che in quella occasione ebbe il Re col duca d’Ascoli. Questi gli leggeva le vecchie liste degli invitati, cancellando gli assenti, i morti e quelli di non sicura fede politica e proponendone dei nuovi. A un certo punto si fermò sul nome del Ventignano, che aveva sollecitato un invito. Ferdinando II riconobbe la convenienza d’invitarlo, per le buone qualità e la provata fede del duca, consigliere della Corte dei conti, ma disse al D’Ascoli: "Tu sai i pregiudizi che corrono sul suo conto; io non ci credo; invitalo, ma ti annunzio che la festa non si darà„ . Il Re credeva alla jettatura come si è veduto, ma in alcuni casi si studiava di non mostrarlo. Il duca fu compreso nella lista degl’invitati; ma, pochi giorni dopo, avvenne l’attentato di Agesilao Milano e la festa andò in fumo; anzi nelle Reggie di Napoli e di Caserta non vi furono più grandi feste, nè conviti di nessun genere. Due piccole veglio con danze diè il Re a Gaeta ad eletta schiera d’invitati, una la sera del 12 e l’altra del 16 febbraio 1858. L’"eletta schiera„ secondo il linguaggio ufficiale, era formata da militari, da sindaci e personaggi autorevoli dei paesi vicini. Il Re e i principi si divertivano a dar la baia ai "pacchiani„ imbarazzati e confusi. Altre grandi feste si preparavano per le nozze del principe ereditario, ma le sventure sopravvenute le mandarono in fumo. Durante gli agitati quindici mesi di Francesco II, vi furono ricevimenti, baciamani e circoli, ma balli punto. Tutto questo non fece che accrescere il pregiudizio sul conte del povero duca di Ventignano, il quale era uomo di spirito, zio paterno di Federigo, Cesare e Alfonso della Valle di Casanova e sopportava in pace quella specie di odiosa leggenda, che si era formata sul suo nome. Nè era il solo de’ malcapitati, perchè di jettatori, reputati famosi, Napoli ne contava parecchi che ancora si ricordano con comico spavento. Ogni napoletano, più o meno confessandolo, ha sempre creduto al malefico influsso.
Nonostante l’assenza della Corte, furono quelli gli ultimi anni della grande società napoletana. A Napoli erano il corpo diplomatico, i grandi dignitari e i gran signori, men di oggi vogliosi di viaggi all’estero, ne dissestati dai crediti fondiari e dalle cambiali. Correva allora la voce in Europa che le feste da ballo di Napoli vincessero quelle delle Tuileries in eleganza, e le feste dell’Accademia Reale, nelle sale dov’è oggi il casino dell’Unione, si segnalavano per la loro magnificenza. Il club dell’Accademia Reale raccoglieva nobili con quattro quarti e l’ammissione vi era difficile. Pur non essendo un club politico, nove decimi dei suoi soci erano devoti o rassegnati al regime borbonico e temevano più che non stimassero Ferdinando II, il quale aveva ridonata la pace al Regno e garentiva l’ordine. L’Accademia aveva sede nel palazzo Berlo, poi trasportò i suoi penati in piazza San Ferdinando, sul caffè di Europa. Eran qui le sale da giuoco e di conversazione, perchè i balli venivano dati nei locali sopra il San Carlo, che furono poi concessi da Vittorio Emanuele al nuovo Circolo dell’Unione, il quale sorse sul finire del 1860, raccogliendo la doviziosa borghesia e il patriziato liberale. L’Unione ebbe sede, prima al palazzo Ottaiano a Monteoliveto, poi al palazzo Buono a Toledo, poi al palazzo Nunziante, in via della Pace, ma voleva affermarsi in luogo più centrale, forse per atto di ostilità alla vecchia Accademia. Carlo Poerio fu eletto presidente onorario dell’assemblea dei socii; Gennaro de Filippo presidente effettivo e segretario Guglielmo Capitelli. All’autorità del Poerio e alla tenacità del Capitelli deve l’Unione gli splendidi locali, la cui perdita fu cagione di amarezza per l’Accademia, che divenne club ancora più chiuso e seguitò ad essere preseduta dal conte di Montesantangelo.
Se negli anni dei quali scrivo, non vi erano altri cluhs, viceversa i ricevimenti nelle case signorili si succedevano senza interruzione. In casa Torella si riceveva tutte le sere dopo la mezzanotte, e anima della società cosmopolita che vi si raccoglieva, era la vecchia principessa figliuola di Cristoforo Saliceti, il famoso convenzionale che aveva letta la sentenza di morte a Maria Antonietta ed era stato il terribile ministro di polizia di Giuseppe Bonaparte. Società cosmopolita, perchè non vi era straniero di distinzione che non fosse presentato in casa Torella, ne diplomatico che non la frequentasse. Vi si faceva opposizione moderata, ma costante, al Governo e frequentavano gli eleganti saloni uomini di fede liberale, che erano gli amici di Cammillo. In casa Torella spirò sempre un’aria di Fronda e quando nel 1851 venne Gladstone a Napoli, vi fu presentato da sir William Tempie, che vi era costante commensale; né quell’ambiente contribuì a sconsigliare l’onesto inglese dal pubblicare le celebri lettere. Dei due figli maschi del principe Giuseppe, che fu ministro dopo il 15 maggio nell’ultimo ministero costituzionale, Niccola, divenuto principe di Torella dopo la morte del padre, fu ministro costituzionale di Francesco II, come si vedrà; e Cammillo, marchese di Bella, fu in mezzo alle cospirazioni liberali e poi arrestato e mandato in esilio nei primi mesi del 1860. Riunioni e balli di straordinario splendore furon quelli di casa Bivona e di casa Sclafani. I due fratelli abitavano il loro romantico palazzo alla Ferrandina. Non meno splendidi i ricevimenti di casa Santa Teodora, quando Luigi, duca di Sant’Arpino, prese moglie a Londra e condusse in Napoli la magnifica signora, la cui apparizione nella società napoletana fu un avvenimento. Si riceveva ancora e si ballava in casa Bovino, in casa Sant’Antimo, in casa D’Angri; che anzi in casa D’Angri fu dato, in quegli anni, un ballo in piena estate, sulla terrazza scoperta e la gente si affollava al largo dello Spirito Santo, tanto da impedire la circolazione delle vetture. A questi balli, tranne a due in casa Sant’Antimo, la Corte non intervenne mai e neppure i primi figliuoli del Re; ma intervennero il conte di Siracusa, il conte d’Aquila e il conte di Trapani, quasi sempre. Ricevevano i ministri esteri e si distingueva, fra tutti, il ministro di Francia. Nelle gale del San Carlo questo gran mondo appariva in tutto il suo splendore. Le gale cadevano ogni mese, così per il compleanno come per l’onomastico dei Sovrani e dei principi del sangue; ma le più pompose eran quelle per i compleanni del Re, della Regina e del principe ereditario.
Un centro, dove, conveniva quasi tutta l’aristocrazia più eletta e accorrevano i letterati e gli artisti di maggior grido, era casa Craven, al Chiatamone, che continuava le geniali tradizioni del vecchio Keppel Craven, figlio della margravia di Anspach, stabilitosi in Napoli parecchi anni prima e che aveva un bel palazzo al Chiatamone, una villa a Bosillipo ed anche un castello cinto di bosco a Penta, presso Salerno. Faceva splendidamente gli onori di casa Paolina Lafferronnays, sposata ad Augusto Craven, donna di alto ingegno e di alto animo. La gran sala del palazzo Craven, decorata in istile del primo impero, raccoglieva Giuseppe Campagna, Enrico Catalano, il duca di Campomele, Stanislao Gatti, Gabriele Capuano, Giovanni Barracco, Pietro Laviano Tito, Cammillo Caracciolo, il duca Proto, Alfonso Casanova e il padre Alfonso Capecelatro. Delle signore, ricordo la marchesa di Rende Caracciolo, la principessa di Camporeale, la contessa di Castellana, la marchesa di Bugnano, la contessa di Bray, le sorelle Paolina, Adelaide e Clotilde Capece Minutolo e quella duchessa Ravaschieri, che amò la Craven di ardentissimo afietto ed ha consacrato alla sua memoria un libro che non si legge senza piangere. Fu in una recita di filodrammatici al palazzo Ferraudina, che la duchessa Ravaschieri conobbe la Paolina e ne divenne l’amica intima e diletta. In casa Craven vi era pure un teatrino, costruito dall’architetto Paris, dove si davano rappresentazioni in italiano e in francese. La duchessa Ravaschieri, Augusto Craven, Marcello Mastrilli duca di Gallo, il conte Carlo Lafferronnays, fratello di Paolina ed altri vi recitarono vaudevilles e commedie. Il teatrino di casa Craven era una delle maggiori attrattive della più intellettuale società napoletana, e il più valoroso filodrammatico dell’alta società parigina, il visconte di Magnieux, venne a Napoli a bella posta per recitarvi. Le rappresentazioni avevano quasi sempre uno scapo di beneficenza e i poveri ne ritraevano sollievo. Per il terremoto di Basilicata si rappresentarono due commedie francesi, e la duchessa Ravaschieri declamò il Salmo di Niccola Sole. La commozione fu grandissima quando ella disse:
Signore! I tuoi clementi occhi declina |
Quelle due rappresentazioni fruttarono, come ho detto, oltre quattromila ducati; i posti nella sala non erano che 200, e alcuni furono pagati dieci napoleoni l’uno. Nel 1859 la casa Craven divenne il luogo dove più liberamente e più vibratamente si parlasse delle speranze d’Italia, sull’esempio della padrona di casa, la quale, francese e bonapartista, credeva che Napoleone III fosse il veltro di Dante. Molto frequentati anche i ricevimenti in casa De la Feld. La contessa De la Feld era un vero valore nell’arte del canto, apparteneva alla famiglia Bevere di Ariano e fu educata a Napoli, dove sposò nel 1844 il conte Giuseppe De la Feld, ricco signore inglese, venuto a Napoli per diporto, a bordo del suo Yacht "Esmeralda„ . I ricevimenti di casa De la Feld ebbero importanza politica nel 1860, ma prima di quel tempo erano già celebri, perchè vi si faceva della musica eccellente e ai concerti prendevano parte, oltre ai migliori dilettanti del tempo, i più rinomati artisti di passaggio per Napoli. C’era un teatrino e vi si rappresentò, nell’aprile del 1857, il Don Pasquale di Donizetti. Fu un avvenimento musicale, per l’ottima esecuzione e per la qualità degl’invitati. Cantarono la padrona di casa, il barone Giovanni Genovesi, il barone Eoberto Tortora Brayda e Melchiorre Delfico, dilettanti di prim’ordine. Anche nell’orchestra, insieme ad artisti, erano anche alcuni bravi dilettanti. I De la Feld abitavano al piano nobile del palazzo Partanna, in piazza dei Martiri, che allora si chiamava "Calata santa Caterina a Chiaia„. — Alla rappresentazione del Don Pasquale assistette il Re di Baviera, padre, il quale, sotto il nome di conte di Augusta, viaggiava per diporto e si fermò a Napoli tre giorni. In quello stesso mese di aprile giunse pure a Napoli il Re Massimiliano, sotto il nome di conte di Werdenfels, e fu molto festeggiato nell’alta società.
Fra le più belle dame del tempo, brillavano le tre figlie di Carlo Filangieri, chiamate le tre duchesse, cioè la duchessa di Bovino, la duchessa di Cardinale e la duchessa Ravaschieri Fieschi. La duchessa di Bovino aveva richiamata, in una delle feste delle Tuileries, l’attenzione di Napoleone III che volle conoscerla e fu con lei pieno di cortesie, ricordandole il padre e l’avo. Si distingueva anche per bellezza la contessa Latour, una delle figliuole del principe d’Angri e che vive ora a Parigi vita da santa. Suo marito Leopoldo, è stato il fedele cavaliere di compagnia di Francesco II. Una sorella di lei divenne principessa di San Cesario, l’altra, duchessa di Marigliano e una quarta fu principessa di Fondi: tutte parimente bellissime. Questa contessa di Latour non è da confondere con l’altra contessa di Latour, moglie di Francesco colonnello degli usseri, che si disse salvasse la vita a Ferdinando II nell’attentato di Agesilao Milano. Quest’ultima, morta da oltre trent’anni, fu dama della regina Maria Teresa, visse vita ritirata e devota, come tutti di casa Sangro a cui apparteneva. Il marito n’era gelosissimo. Oltre alle Filangieri e alle sorelle d’Angri, splendevano, fiorenti di gioventù e bellezza, la marchesa di Bella moglie di Cammillo Caracciolo, che era russa e aveva splendidi capelli biondi, che in ricci le scendevano graziosamente sulla fronte; e con lei la principessa di Camporeale, Laura Acton, la contessa di Castellana, oggi vedova del senatore Carlo Acquaviva; la principessa di Frasso, morta da poco più di un anno, moglie di Ernesto Dentice, che fu senatore del Regno d’Italia, e madre del presente deputato di Brindisi. La principessa di Frasso, nata contessa Chotek, era boema e alla elegante vaghezza univa una grande bontà. La Frasso, la Castellana, la Sant’Arpino, divorziata dopo il 1870, la marchesa di Bella e la principessa della Scaletta, nata contessa Wrbna di Vienna, dama di Corte e donna ricca di talento e di brio, erano gli astri venuti di oltre Alpi a rifulgere nelFolimpo delle bellezze del tempo. E vanno pur ricordate la contessa Poroinari, nata Santasilia, ora principessa di Piedimonte; la duchessa di Cirella; la Policastro, poi principessa di Gerace; la San Giuliano Ischitella; le due figlie del principe Dentice: la marchesa di Bugnano e la contessa di Bray, maritata al ministro di Baviera a Pietroburgo.
Queste belle dame formavano l’alto mondo dei balli e dei ricevimenti, rendevano il San Carlo una festa, assistevano alle prime rappresentazioni dei Fiorentini e ai più celebri concerti musicali. Furono famosi in quegli anni i concerti di Bottesini e di Sivori. Le abitudini di allora erano su per giù quelle di oggi. Allora le signore dell’aristocrazia andavano in carrozza alla Riviera e villeggiavano a Portici, a Posillipo, a Castellamare e a Sorrento. Erano frequenti le gite in campagna, ma, di rado queste varcavano Sorrento, Caserta, Cava, Lauro e San Paolo presso Nola. La cronaca mondana non aveva lo sviluppo che ha preso oggi, e i nomi delle signore non apparivano mai nei giornali a titolo di vanità.
L’alta borghesia della banca e del commercio aveva anche essa le sue feste e i suoi ricevimenti. Sontuose le feste di casa Wonviller, di casa Meuricoffe e di casa Sorvillo. V’intervenivano i professionisti di maggior grido, alti funzionarli, qualche ministro, quasi tutt’i direttori, i quali, tranne il Carafa, erano borghesi. Sono ugualmente da ricordare le serate non a scopo di divertimento, ma di piacevoli conversazioni, di casa Ferrigni, di casa Ulloa, di casa Baldacchini, dopo che don Saverio sposò la vedova di Luigi Bonghi, la intelligentissima madre di Ruggiero Bonghi. In casa di Leopoldo Tarantini e di Vincenzo Torelli si raccoglievano avvocati, letterati e artisti. Tarantini riceveva il sabato, e Giannina Milli, Niccola Sole e lo stesso padrone di casa improvvisavano versi ai quali, don Raffaele Sacco, il grazioso poeta dialettale, aggiungeva barzellette e aneddoti esilaranti. Vi andavano anche i migliori artisti dei Fiorentini e del San Carlo e i più noti compositori di musica. In queste riunioni si discorreva d’arte, di storia, di letteratura; si faceva buona musica e alle volte, nel teatrino di famiglia si rappresentavano commedie del padrone di casa, o di giovani suoi amici. Tarantini aveva simpatica cultura letteraria, vivace talento e genialità poetica, scriveva versi e drammi pregevoli ed era inoltre, tutti lo ricordano, col Marini Serra, il maggior lume del fôro penale. La borghesia di secondo e terzo grado contava le sue tradizionali periodiche, e poichè in quegli anni il Trovatore aveva fatta perdere la testa ai napoletani, non vi era periodica, dove un qualunque tenore non cantasse:
Di quella pira l’orrendo foco,
e un baritono non urlasse:
È l’amore, l’amore ond’ardo,
e una qualunque signorina sentimentale e un tenorino senza voce non ripetessero, al piano, il duetto fra Manrico e Leonora. Si cantava a tutto andare l’aria del Rigoletto:
e l’altra, non senza malizioso significato:
Questa e quella per me pari sono.
Erano immancabili, nelle periodiche, le canzoni popolari, e Santa Lucia, la Palummella janca, Scetete scè, ’U cardillo, e Fenesta ca lucive risuonavano dappertutto. Fenesta ca lucive conta forse più di un secolo di vita ed è sempre viva, perch’è la canzone di maggiore sentimentalità che abbia avuta la poesia popolare. Te voglio bene assaje, improvvisata dal Sacchi e anteriore al 1840, era morta da un pezzo, e Santa Lucia, a torto attribuita al Cottrau, in quegli anni furoreggiava. La Borghi Mamo faceva andare il pubblico in visibilio, cantandola in dialetto al San Carlo nella scena della lezione di musica del Barbiere di Siviglia, i cui primi versi erano stati così ridotti:
Comma se fricceca |
I poeti canzonettisti dialettali più stimati e in maggior voga erano Domenico Bolognese, Michelangelo Tancredi ed Ernesto del Preite. Il maestro di musica più fecondo, più melodico e popolare era Pietro Labriola, già alunno del collegio di San Pietro a Majella e tenorino della cappella reale. Sposò la prima figlia del maestro Enrico Petrella ed oggi è povero, mentre altrove sarebbe divenuto milionario. Ogni canzone gli veniva dall’editore Giuseppe Fabricatore pagata appena dieci, dodici, o al più venti carlini. Raramente per qualcuna ne ebbe trenta. Non ostante la trascurata edizione del Fabricatore, quelle canzoni, quando incontravano il favore del pubblico, si vendevano a migliaja. Molte di esse, più popolari in quel tempo, resistono ancora, come I capille ’e Carolina, Tu me vuo’ bene, o no me vuo’ bene? Terè, Parlate a papà e si cantano da’ suonatori ambulanti a Posillipo. Aveva fama di buon compositore popolare anche il Valenza.
Tra i cantanti di quel tempo, il Levassor di Napoli, famosissimo e ricercato, fu il tipico don Ciccillo Cammarano, della famiglia dei Cammarano, artistica in ogni genere. Don Ciccillo faceva notoriamente la professione di impegnatore di gemme, di ori, di tela, di vestiarii ed era facoltoso. Aveva scarsa voce, ma conosceva bene la musica e sottolineava il canto con gusto squisito e grande comicità. Non volea canzoni comuni, ma solo quelle che erano musicate appositamente per lui, per lo più dal Valenza o dal fratello Luigi Cammarano, eccellente compositore. Era una ilarità generale a sentirlo cantare Lo ’mòriaco, ricavata dal bellissimo ditirambo del Piccinni, Lo cucchiere, Canta, cà, Le ffigliole ’nzocietà, e specialmente il Lazzarone, il Masto è scola e la Vajassa, composte appositamente per lui da Michelangelo Tancredi.
Nei salotti della piccola borghesia, se mancava il lusso, abbondava la bonarietà, quella bonarietà caratteristica napoletana, che diviene in breve familiarità e poi degenera in poco misurata confidenza. "Nuie simme gente ’e core„, dicevano i padroni di casa e soffocavano di premure e di profferte gli invitati, specialmente quelli che avevano una posizione superiore e dai quali potevano sperare qualche favore.
C’erano, nel carnevale, veglioni masqués al San Carlo e al Fondo, con i consueti intrighi e scherzi salaci. Una sera, in un veglione al Fondo, Niocola Petra in maschera, accostandosi a Vito Nunziante, tenente degli usseri, gli scaraventò sul viso queste parole: ^Sette sono i peccati mortali, sette furono le piaglie d’Egitto e sette sono i fratelli Nunziante„ . E uditosi rispondere che egli non avrebbe osato ripetere quelle parole a viso scoperto, il Petra si levò la maschera e ne segui uno scambia d’impertinenze, una sfida e infine un duello, nel quale il Petra ferì l’avversario. Egli ebbe per padrino Cesare di Gaeta tenente di artiglieria, che poi divenne suo cognato.
Il ceto che esercitava una vera influenza sopra tutte le classi sociali del Regno, era quello degli avvocati. A Napoli si nasce avvocati. L’acuta penetrazione, il vivace talento, la mutabilità delle impressioni, la facilità della favella e la passione della lite sono requisiti intrinseci delle popolazioni meridionali, per cui in nessun paese del mondo fu mai così numerosa la classe degli avvocati, la quale perfeziona le qualità naturali con lo studio del diritto e l’arte del cavillo. E poichè Napoli è la città dei contrasti, anche il ceto degli avvocati rappresentava questi contrasti, anzi in grado superlativo. Accanto ai sommi, per i quali il diritto era religione e passione e l’integrità norma della vita civile, pullulava una plebe di paglietti, loquaci, romorosi, difensori di ogni causa per amore del compenso, e per i quali era abilità mutare il bianco in nero e il giorno in notte, La facondia inesauribile era la grande arma; tutto si tentava con essa di sostenere, anzi più manifesto appariva il torto, e tanto maggiore doveva parere il valore oratorio dell’avvocato. Nell’ordine morale e nel politico l’influenza dei paglietti fu perniciosa a Napoli in ogni tempo, poichè non portando essi nelle cose umane un’opinione equanime, decisa e costante, non vedendole nel loro insieme ma solo fermandosi sui particolari, infiniti erano i cavilli, che, colla loro parlantina si studiavano di mettere in opera, imbrogliando così le teste e stancando la gente. Ferdinando II aveva un’invincibile antipatia per gli avvocati, e poichè non aveva ingegno atto a distinguere, li confondeva in un solo sentimento di disprezzo e li chiamava tutti paglietti, attribuendo alle loro ciarle e alle loro esagerazioni i fatti del 1848. E forse non aveva torto; anzi il Settembrini che scrisse nell’ergastolo di Santo Stefano le Ricordanze della sua vita, si trovò d’accordo con lui, quando, parlando della catastrofe del 15 maggio, rivolse agli avvocati quella terribile apostrofe: o avvocati, anzi paglietti, voi meritate la servitù!
Il ceto, scarse eccezioni a parte, non aveva coscienza politica. Molti di quelli che avevano più urlato nei giorni della libertà, si chiusero la bocca nei giorni della servitù, anzi i più voltarono casacca. Domenico Capitelli, la cui casa era stata sino al 1848 frequentatissima da una turba, che in lui adulava e corteggiava il principe del fôro e il presidente della Camera dei deputati, non fu più ricercato che da pochi fidi e coraggiosi amici, e lo stesso incolse a Carlo Troja. L’ex presidente del Consiglio dei ministri e l’ex presidente della Camera, amicissimi fin dalla prima giovinezza, abitavano a poca distanza, in via Toledo. Domenico Capitelli lasciò il suo appartamento al palazzo De Lieto e andò in quella via Quercia, che ora porta il suo nome, e poi al palazzo De Sinno a Toledo. Lo visitavano Gabriele Capuano, Innocenzo de Cesare, Raffaele Masi, Saverio e Michele Baldacchini, Leopoldo Tarantini e Vincenzo Sannia, e quando nella notte del 30 agosto 1864 morì a Portici nella villa Pietramelara, si trovarono intorno al suo letto, coi medici Pietro Ramaglia e Alessandro Lopiccoli, i soli amici Masi e Tarantini. I suoi affari professionali dopo il 1848 erano diminuiti; la sua casa, tenuta d’occhio dalla polizia e notate le persone che la frequentavano, per cui erano caratteristiche le paure del Masi, nel quale però l’affetto vinceva la trepidazione.
Con la morte di Domenico Capitelli venne a mancare il maggior astro del fôro napoletano; quello, che, al dire del Pessina, impossessandosi della dottrina storica del Vico, che nella sua mente era congiunta alle dottrine filosofiche dei contemporanei, inquadrò nella storia del diritto il concetto delle tre età, del senso, della fantasia e della ragione; quello che fu con Niccola Nicolini, a dire del Pisanelli, l’interpetre del pensiero di Mario Pagano che entrambi intesero a fecondare. Esempio cosi raro di rettitudine, di disinteresse e di dignità umana che, avendo per oltre quarant’anni esercitata la professione, non lasciò che una modesta sostanza. I suoi inviti non erano superiori alle 20 e alle 30 piastre, e un giorno che il conte Coppola per un’importante causa, gli offerse un invito di 500 ducati, egli se ne maravigliò col cliente, al quale disse che riteneva quella somma non come invito ma come compenso. Dal 1849 al di della sua morte, non rivide il Re che due volte, e fu per l’arresto di suo cognato Alessandro Lopiccoli, il quale era cognato anche di Giacomo Lacaita, sospettato non a torto di aver fornito a Gladstone le notizie per le sue lettere. Lopiccoli fu arrestato e confinato a Piedimonte d’Alife. Il Re era in Ischia. Capitelli vi andò e fu ricevuto con queste parole: "Don Domì, che ghiaie facenne? è da tanto tiempo che non ce gimmo cchiù visto„.2 Ed espostogli dal Capitelli lo scopo della visita, gli domandò: “E a du sta?„3 "A Piedimonte„, rispose il Capitelli; e il Re, cui parve di aver inteso Piemonte: "In Piemonte ? Non Domi, non te pozzo servì» . Ma chiarito l’equivoco, promise che avrebbe preso conto della cosa e lo licenziò con queste parole: "Va bene, non ce pensà„ . Due giorni dopo il Lopiccoli fu fatto tornare a Napoli. E il Capitelli col cognato tornò in Ischia per ringraziare il Re, che si dimostrò quasi affettuoso con l’ex presidente della Camera dei deputati. Naturalmente, neppure un cenno ne’ due colloqui ai fatti del 1848.
Tra gli avvocati, che contavano fra i primissimi, dopo che le vicende politiche avevano mandato in esilio Giuseppe Pisanelli, Pasquale Stanislao Mancini, Roberto Savarese, Raffaele Conforti e Antonio Scialoja, sono da ricordare, fra i civilisti: Antonio Starace, Teodorico Cacace, Vincenzo Villari, Giuseppe Ferrigni, il marchese Perez Navarrete, Giuseppe Lauria e Francesco Correrà e fra i penalisti: Giuseppe Marini Serra, Leopoldo Tarantini, Federico Castriota Scandemberg, Giovanni de Falco, destituito dalla carica di procuratore generale di Corte Criminale, Francesco Bax, Luigi Ciancio, Gennaro de Filippo e tre giovani di grandissimo valore, Enrico Pessina, Emilio Civita e Giuseppe Polignani. Il Castriota, il Pessina, il Tarantini e il De Filippo avevano difeso gl’imputati politici nei due processi del 16 maggio e dell’"Unità italiana„: difesa che non volle assumere il Marini Serra, borbonico convinto, com’era borbonico convinto un altro avvocato di minor conto, don Antonio Fabiani, suocero di Agostino Magliani. E vanno pur ricordati Cesare Marini, civilista e penalista, Luigi Capuano e Luigi Landolfì, gran raccoglitore di notizie sugli avvocati napoletani, Francesco Saverio Arabia, Gherardo Pugnetti, che insegnava diritto romano all’Università e don Guido Guidi. In fatto di quistioni demaniali, avevano fama Michele Giacchi, Raffaele Gigante ed Enrico Cenni, e nelle cause commerciali primeggiavano Tito Cacace ed Enrico Castellano. Molti di questi brillarono dopo il 1860 negli uffizi pubblici; altri morirono prima del 1860; altri tennero fede al vecchio regime: nel complesso il ceto degli avvocati non rappresentava, politicamente, nulla di particolare e, tranne pochi, gli altri amavano il quieto vivere e avevano una paura maledetta della polizia. La loro cultura giuridica era grande, s’intende nei migliori, ma deficiente in ogni altro ramo. Conoscevano il latino, pochissimi, il francese; di scienze politiche e sociali quasi neppur l’abbicì, e la storia era in essi o una reminiscenza della sacra o della romana, così come le avevano apprese nelle scuole, o memoria di fatti ai quali avevano assistito. Il sentimento municipale era comune a tutti; e poichè non avevano veduto altri paesi, essendo il viaggiare allora ben difficile, credevano in buona fede che Napoli fosse l’alfa e l’omega d’ogni bellezza e d’ogni civiltà. L’Italia per essi finiva al Tronto. In casa Starace si raccoglieva il fiore della borghesia e la frequentavano non pochi aristocratici, clienti dell’insigne avvocato; una difesa del Marini Serra era un avvenimento oratorio; un’arringa o un’allegazione di don Antonio Starace, di don Teodorico Cacace e di don Vincenzo Villari, erano argomento de’ pubblici parlari, e quando si discutevano celebri cause in Cassazione o alla Corte Criminale, vi si andava come a pubblico spettacolo. Molti ricordano il Marini Serra, col suo faccione nudo di peli. Egli entrava nelle sale di Castelcapuano con le braccia infilate a quelle di due suoi giovani di studio, offrendo le guancie per farsele baciare dagli amici e dagli ammiratori, perchè un’altra caratteristica degli avvocati di allora ed anche de’ napoletani in generale, era quella di dare e ricevere baci: abitudine che i nuovi tempi hanno un po’ corretta, ma non distrutta.
Malgrado gli epigrammi e le caricature, la crinolina regnò sovrana nella moda in quegli anni. I giornalisti, i poeti dialettali, i comici Altavilla e Petito, come si è visto, non la lasciavano in pace; ma essa trionfò dei suoi oppositori. Le evoluzioni della moda erano allora più lente, e solo le signore di ricco casato le seguivano nei loro capricci. Non è già che la moda fosse più costosa, ma il prezzo del danaro era più alto, le comunicazioni con Parigi più difficili, maggior equilibrio regnava in tutta la vita sociale e meno acuto era il pungolo della vanità e delle fatuità rovinose. Parigi imperava dittatrice della moda, e il Petit Courier pour Dames portava le ultime novità per le signore, e Leveu, il celebre Leveu, forniva pomate, acque odorose e profumerie. Sebbene fossero in Napoli sarte e modiste così parigine come napoletane di gran valore, le toilettes sfarzose per balli, e le acconciature più distinte per teatri e passeggi, si ordinavano a madame Musard, a Parigi. Nell’estate del 1858 fu molto accetta la stoffa popeline ed usata dal bel mondo la coteline, tessuto leggerissimo di lana e seta. Abiti di seta, pochi; più numerosi quelli di moerre antico, a larghi quadri, lucidi e ricchi di fiori colorati su fondo nero. Ma la maggior voga l’ebbe il taffettà scozzese. Le vite degli abiti erano tagliate a più punte e a piccole falde rotonde, e i nastri profusi in gran copia. Le maniche, semiaperte, a grandi pieghe, si dicevano à gigot. I cappelli usavano di velo crespo a forma d’imbuto, con fiori ricamati e con blonde. Gli abiti da passeggio, veramente di ultima moda, erano due. Veste di taffettà gros grain, orlata d’una larga striscia, mantelletto guarnito di merletti a quattro ordini, e cappello di velo crespo con blonde. Le signore che indossavano questo costume, dovevano portare un ombrellino di taffettà, ricoperto di merletto, e stivaletti di pelle inglese a calcagni. L’altro abito di gran moda, e più ricco, fu una veste di mussola di seta, con collaretto di nastri garnitures Desterbecq, vita a quattro punte e mantellina di merletto di Alencon. A quest’abito andava unito un cappello di tulle bouillounè, con penne di gallo di due colori e scarpe à bouffettes.
Teatro dell’ultima moda era, nella stagione dei bagni, l’ampia sala dello stabilimento Manetti, alla Villa: addirittura una platea di giovani signore, dai colori vivaci. Da Gigliano, in fama di liberale, accorrevano la borghesia ricca e gli studenti meglio provvisti. La rivalità fra i due stabilimenti era grandissima, e fra i bagnanti avevano luogo le celebri battaglie d’acqua, alle quali spesso metteva fine la polizia. Manetti era borbonico. Avendo acquistata una casa a Mergellina, che dipinse in rosso, ispirò al D’Urso il noto epigramma:
Arrossisco fino ai tetti |
Personaggio importante della vita balneare di quel tempo era Giuseppe de Meo, detto Don Peppino lo Speziale, percbè aveva una spezieria manuale4 a Santa Maria in Portico, a Chiaja. Era il più forte nuotatore e cacciatore che si conoscesse; maestro di nuoto di tutta la gioventù aristocratica napoletana, era l’anima dei bagni di Manetti e, legato com’era co’ pezzi grossi, la faceva da bravo coi deboli.
Dopo i bagni si andava in villeggiatura e fuori il Regno vi andavano naturalmente i più ricchi. La moda in quegli anni fu di passare l’autunno in Brianza o sul lago di Como, e nel 1858 a Venezia. I giornali erano entusiasti di questa città, ne ricordavano le prische grandezze, lodavano la cortesia degli abitanti e la bellezza delle donne. Furono organizzate anche gite speciali, sbarcando a Genova o a Livorno. L’autunno del 1858 fu uno dei più eleganti. I vestiti di gala sparirono, perchè ritenuti di cattivo gusto. Non si vedevano che abiti, detti di confidenza, da viaggio o da campagna. Ampie casacche di piquet bianco a fiorellini, bournous, alla scozzeze; e vestiti di mussolo color pisello, oppure di stoffa grigia, guarniti di taffettà o di velluto. Tornò in vita per la campagna il genere rococò: gonnelle rialzate sopra sottogonne a colori; stivaletti e scarpe a talloni, che molte signore non potevano tollerare, perchè riuscivano loro stranamente incomode nel cammino, ma che erano in perfetta armonia con la crinolina. In campagna era molto chic per le signore portare di mattino uno scialle bianco di reticella ricamata, e di sera scialli di pizzo bianco. I cappelli erano di crèpe, di tulle, di tarlatà, con pizzi e blonde fra cui s’intrecciavano fiori, specialmente viole. I cappelli di paglia per la campagna si guarnivano di fiori, di frutta, di penne di airone o di gallo, ma soprattutto di spighe. Si ornavano pure di velluto o di nastri di taffettà a mille righe. L’ampio cappello all’inglese, tanto di moda nel 1857 per la campagna, nel 1858 fu smesso.
Nell’inverno si abbandonò la grisaille e regnò sovrano il color marrone. Se le maniche furono meno larghe e le vite accollatissime, non si ebbe mai esempio di gonnelle più ampie; occorrevano non meno di otto teli e la gonnella più distinta era assai poco guarnita od aveva un’orlatura di velluto. Le vite esigevano bottoni larghi e schiacciati sul davanti e lungo i fianchi. Questa moda era più semplice delle precedenti e perciò le sarte incontravano poche difficoltà, e le signore spese minori, potendosi accomodare i vestiti degli anni scorsi.
Usatissime furono le pelliccerie, specialmente sopra i mantelli di velluto ed ebbe gran voga una pelliccia nera, lucida, morbidissima, a pelo lungo, di cui non ricordo il nome. Chi non voleva pelliccerie, guarniva abiti e mantelli di una frangia di ciniglia, in lustrini e seta torta. Fu negli inverni del 1857 e del 1858 che madama Cardon e madama Giroux ebbero più da fare. Esse, venute di Francia a raggiungere i loro mariti, che le aveano in Napoli precedute alcuni anni prima, rappresentavano il non plus ultra dell’eleganza femminile, singolarmente in quegli anni ed accumularono una fortuna. Fu da loro che tutte le sarte e modiste presero nome di madame e madamine. La erede di Pietro Cardon sposò il signor Pilavoine, commesso del negozio, e l’unica figlia del Pilavoine sposò Giustino Fiocca. I Giroux si ritirarono dal commercio dopo il 1860, né la ditta fu continuata. Ai Cardon successe madama Jourdan, che tuttora tien negozio nello stesso palazzo in via di Chiaia. Al palazzo Calabritto, prima del 1860, era un’altra casa di moda importante, quella di madame Fass. Modiste e sarte napoletane non mancavano, per la ricca borghesia e per le ricche signore di provincia, che non osavano ricorrere a madama Giroux o a madama Cardon, per il caro dei prezzi; le men ricche signore di provincia e quelle dei paesi intomo Napoli, si servivano poi ai Guantai Vecchi e Nuovi. Eccelse in quegli anni, fra le sarte napoletane di primo rango, donna Margherita Cepparulo, la quale aveva il negozio a Toledo, nel palazzo dove ora ha sede la compagnia inglese Gutteridge. Fra le sarte di seconda linea ricordo madama Bellet, madama Nethery, madama Caputo e, negli ultimi tempi, madama Grazini.
La moda per gli uomini non si può dire che abbia fatte radicali mutazioni, da allora. Napoli è il paese di Europa dove forse gli uomini han vestito sempre bene, conciliando la grazia francese con la proprietà del gusto inglese. Erano sarti di prim’ordine e di rigoroso taglio inglese Lennon, Taylor e Mackenzie; Plassenell di taglio francese e Trifari, Casamassima, Diaco e Franzi erano sarti napoletani, che la moda inglese e francese adattavono, con talento, al gusto locale. Diaco vestiva quel Poppino Fernandez, che fu uno dei lions più alla moda. Luigi Caracciolo di Sant’Arpino, Moliterno, Policastro, Sansevero, Maurizio Baracco facevano testo in fatto di moda inglese. La loro eleganza era semplice e propria. Il desiderio del vestir bene ha rasentato a Napoli, in ogni tempo, quasi la frenesia. Anche allora un numero piuttosto considerevole di giovani non dava alla propria esistenza che lo scopo del vestir bene, e i sarti facevano guadagni profumati. Dopo la guerra di Crimea vennero di moda, per l’inverno, il raglan, cui diè nome e celebrità lord Raglan morto in quella campagna, e il talmà, una specie di mantella abbottonata in avanti. Era chic portare il raglan, il talmà o la chemise corta, in guisa da far uscire, di sotto, le punte della marsina. E questa si portava piuttosto chiusa, con duplice bottoniera e senza mostre di seta. Il gilet, non molto aperto, lasciava vedere i caratteristici chabots o camicie a pieghe sottilissime, accuratamente amidate. Colletti alti, molto alti, con pizzi sporgenti in avanti, e cravatte piuttosto larghe, dette rabats, fermate da spilli di corallo o di perle o di malachita. Il corallo rosa era molto elegante.
Sarti di qualche fama, ma di secondo rango, erano Panarello, Romito e quel Russo, specialista dei pantaloni, che aveva bottega di rimpetto al teatro San Carlo e serviva gli ufficiali di marina. Per ogni taglio e cucitura di pantalone prendeva una piastra. Se i pantaloni variavano di larghezza, nell’alto o nel basso, viceversa il tait, lo storico tait napoletano, non variò di taglio: soltanto variò il modo di abbottonarlo. Era pure molto adoperato il soprabito o soprabitino a due petti, molto chiuso sul davanti, più della moderna redingote, o addirittura aperto. L’antipatico kraus non venne di moda che dopo il 1860. Il tait era abito di rito nelle passeggiate alla Villa, nelle periodiche borghesi e nelle rappresentazioni ai Fiorentini. Non vi era esempio che nei teatri principali comparisse spettatore in giacca e senza guanti. Proibiti dalla polizia i cappelli a cencio, -erano più frequenti quelli a cilindro, lunghi e dalle falde strette. Cappellai di moda erano De Francesco, Scalise e Apa, ma i cappelli di fabbrica napoletana non si adoperavano molto dagli eleganti, ed erano l’Inghilterra e la Francia che fornivano a preferenza cappelli e cravatte. Erano calzolai di prim’ordine Finoja, Spina e De Notaris; i migliori guanti vendevano Bossi, Cremonese e Pratico a Toledo, e Amendola a Chiaja. A Toledo e a Ghiaia erano le botteghe dei parrucchieri più celebri: Raison, Paolucci, Carafa e Aubry; e a Chiaja, il gioielliere più alla moda che serviva la Corte, era il Vigliarolo. A Toledo stavano i fratelli Del Prato e don Felice Tafuri, gioielliere e orologiaio famosissimo. Questi portava lunghi i cappelli, che gli davano un aspetto da mago ed era intimo di molti liberali. Noto camiciaio, in via di Chiaja, il Della Croce, sulla stessa linea del negozio di Picardi, negozio di chincaglieria finissima e di genere francese. Picardi era un curioso tipo; quasi analfabeta, aveva modi burberi, anzi ruvidi, quando intuiva che l’avventore era provinciale e spilorcio. In origine fu legatore di libri, con meschina botteguccia al Monte di Dio, ma per l’eccellenza del lavoro, fu proclamato il primo legatore di libri di Napoli e seppe acquistar fama e guadagnarsi la ricca clientela di tutta l’aristocrazia che popolava quel rione. Aprì negozio a Chiaja, prima presso il Ponte, con la scritta: Miscellanea — Prezzi fissi, a lettere cubitali; poi passò più in su, dopo i Gradoni di Chiaja. Ivi la legatoria divenne l’ultima parte e la più trascurata del suo negozio. La bottega formava un elegantissimo Bazar, con un cachet proprio. Vi si trovavano le più eleganti novità di Parigi, di Londra, di Vienna, nelle quali città il Picardi recavasi ogni anno a fare incetta dei migliori oggetti in bronzo, in porcellana, in biscuit, in legno scolpito e in bulgaro. Intimo coi principi reali, faceva venire al loro indirizzo e col loro consenso, la mercanzia, la quale andava esente dal dazio! I principi prendevano per loro il meglio, spesso gratuitamente. Il Picardi, divenuto poi ricco, si ritirò dal commercio.
Il Peirce, con bottega a Toledo, smerciava il genere inglese, in quella sua specie di bazar elegante. Altro tipo di bazar era quello di mosieur Germain in piazza San Ferdinando, famoso pei cappelli e per le maschere di carnevale. Sulla medesima linea era la Boulangerie française, che rappresentava la finezza del gusto del palato rispetto al tradizionale Pintauro; come la vicina bottega, la tabaccheria di eccezione, rappresentava il lusso del fumo, rispetto alle sudicie tabacchiere di quel tempo.
Una casa importante per i generi di addobbo era quella dei fratelli Savarese, la quale occupava gran parte dei locali dell’attuale Gambrinus. Era messa con grande sfarzo e la Corte vi faceva grosse compere, dai ricchi bronzi ai famosi giocattoli di lusso. Il Re in persona inaugurò questo negozio, ove soleva ogni anno, nella passeggiata del venerdì santo (lo struscio), fermarsi ed accettare i rinfreschi che il Savarese gli offriva. Altra ricca casa commerciale era quella del Tesorone, una specie di emporium, ove si trovava di tutto, dagli oggetti di vestiario, ai tappeti, alle stoffe per mobili, agli scialli orientali, alle oreficerie, alla profumeria, ai bastoni, agli ombrelli. Occupava un grande appartamento al primo piano del palazzo Stigliano a Toledo, addobbato con lusso signorile, sin dal tempo in cui Toledo era tutt’altro che una via elegante. Anche questa casa, che per i soli generi di gran lusso e di prezzo stravagante, preludiava ai grandiosi emporium moderni dei Bocconi, dei Mele, dei Miccio e degli Spinèlli fu inaugurata dalla Corte, la quale vi si fornì sempre, sino agli ultimi tempi. Fu il primo appartamento di Napoli illuminato a gaz. Il ricco scaffale in mogano di una delle sale, ora fa parte della biblioteca della regia Scuola degli ingegneri.
Al Tesorone, abruzzese di origine e di carattere intraprendente, arrise la fortuna. Fu il primo negoziante napoletano, che facesse viaggi all’estero, in Francia, in Inghilterra, nei Paesi Bassi ed in Germania, sin dal 1836, quando il viaggiare esponeva a mille disagi e pericoli. Col gusto della moda e col seguire tutte le esposizioni mondiali, dalla prima di Londra del 1851, egli attinse in quei paesi la passione dell’arte. A questo devesi l’essere stato lui fra i primi raccoglitori napoletani di oggetti antichi e l’averne messa assieme una bella raccolta, di cui ha ornata la sua casa al palazzo Cariati. Altri collezionisti di quel tempo erano Antonio Franchi, anoh’egli abruzzese, e Diego Bonghi (zio di Ruggero Bonghi), la cui bellissima raccolta ora ammirasi nel museo di San Martino. Seguirono il principe Filangieri, creatore dello splendido museo al palazzo Como; il duca di Martina, il cui ricco museo ora appartiene al nipote; Placido Sangro e molti altri. Pasquale Tesorone era fratello del celebre chirurgo don Federico, e padre di Giovanni Tesorone, oggi direttore tecnico del Museo artistico industriale, giovane di rara cultura, stato già il braccio destro di Gaetano Filangieri nella fondazione di quel magnifico istituto, di cui è uno dei più forti puntelli.
Altra casa di prim’ordine per addobbo di appartamenti, era quella della ditta Solei, Hebert e Inz, a Santa Brigida, dove erano depositate le ricche stoffe della manifattura Solei di Torino, casa sopravvissuta alla rivoluzione del 1860.
Fra le memorie di Napoli non bisogna lasciar perdere quella di una modesta, ma storica bottega, in via Chiaja, accosto al moderno teatro Sannazaro. Sull’insegna era scritto: Bottega del bello Gasparre, e basta così. Parecchi anni prima del 1860, vi si vedevano ancora due vecchi cadenti, rammendatori di calze, di quelle calze, che, decadute coi pomposi costumi del 1700, vivevano ancora nelle uniformi civili dei gentiluomini di camera, dei maggiordomi di settimana e dei valletti di Corte. Uno dei due vecchi era il bello Gasparre, un gobbo, che fu in gioventù bellissimo di viso; audace e fortunato corteggiatore di donne e famoso spadaccino. Il basta così era l’affermazione del suo valore di operaio e del suo carattere violento, che non ammetteva repliche. Intorno a lui si era creata una vera leggenda. Si diceva eh© un giorno, per non so quali avventure amorose, egli fu assalito sulla via, che menava a San Niccola Tolentino, ove ora è il corso Vittorio Emanuele, e allora era un posto deserto, dove sorgeva una grande croce con un immenso Cristo, noto col nome di Cristo grande. Il bello Gasparre pronto a ricevere l’assalto dei due avversarli, tirò fuori lo stocco, si pose in guardia e, rivoltosi all’immagine del Cristo, esclamo: "Gran Dio, ti raccomando l’anima di questi due moribondi„. I moribondi se la dettero a gambe. La bottega del bello Gasparre, esercitata da quei due vecchi, non viveva che di un resto di vecchia clientela, la quale serbava per le calze vistose il culto di altri tempi.5
Le Accademie più illustri erano la Società Reale e la Pontaniana. Bozzelli presedeva la Reale e il marchese di Pietracatella la Pontaniana. L’Accademia Reale, fondata da Giuseppe Napoleone, si chiamò nell’ottobre del 1816 Società Reale Borbonica, e fa divisa in tre Accademie speciali: una di archeologia, l’altra di scienze, la terza di belle arti. Aveva settanta soci: venti per la prima, trenta per la seconda, dieci per la terza. Fino al 1848 la Società Reale dipese amministrativamente dal ministero dell’interno, e solo nel 1848 passò alla dipendenza di quello dell’istruzione, quando, su proposta del ministro Paolo Emilio Imbriani, Ferdinando II ne nominò presidente perpetuo il Bozzelli, che vi rimase sino al 1861, con un assegno personale di 2000 ducati all’anno. Le rendite annuali della Società ammontavano a circa sedicimila ducati. Malgrado però il gran numero de' suoi soci ordinari, onorari e corrispondenti, nazionali e stranieri, non si può dire che la scienza e la cultura ricevessero un grande incremento. Vi appartenevano uomini illustri nel campo delle lettere, delle scienze e dell’arte, ma vi apparteneva pure una turba di ignoti, la cui presenza non era punto giustificata. Carlo Troja non fu mai accademico, ma lo erano monsignor Apuzzo e monsignor Cocle i ministri e alti dignitari dello Stato e della Corte, quasi tutti spostati in un consesso di persone dotte. La nomina accademica alle volte era dovuta ad una lettera dedicatoria, a commendatizie di eccelsi personaggi, o a benemerenze politiche, mentre ne eran tenuti fuori scienziati di valore, come il Pilla, il Ferrarese, il Gasparrini e Giuseppe Fiorelli. Qual meraviglia che l’opera della Società Reale fosse così sterile? Nell’ultimo mezzo secolo l’Accademia delle scienze non aveva pubblicati che cinque volumi dei suoi atti. Tutto ciò fu messo in luce nell’aprile del 1861, da Paolo Emilio Imbriani in una violenta relazione, da lui scritta e che precede il decreto del 30 aprile di quell’anno, col quale il principe di Carignano, luogotenente, sciolse l’Accademia. Tal fatto suscitò un vespaio. Ricciardi e Romano ne mossero interpellanza alla Camera in Torino: quello stesso Ricciardi che nel 1834 aveva inveito nel giornale Il Progresso contro la Società Reale.
Ho potuto avere in mano gli appunti che servirono all’Imbriani per la sua relazione. Vi sono rivelazioni curiose. Dovendosi nominare un socio, il presidente Bozzelli e i due segretarii, il generale e il perpetuo, ponevano il posto a disposizione dei principi reali o di altri personaggi, specialmente ecclesiastici, i quali avevano trasformato l’Accademia Ercolanense quasi in un capitolo di canonici. Si mantenevano costantemente vuoti alcuni posti, per riparare al dissipamento dei fondi. Sarebbe di certo un’imprudenza il pubblicare le caratteristiche di alcuni accademici, le ragioni delle nomine loro e i giudizi, che su di essi portava l’Imbriani, esagerati forse per alcuni, ma giusti per altri. Per ricordare le più lievi, al colonnello D’Agostino, segretario particolare del Re, egli rimproverava di non aver mai pagato i sei carlini da lui perduti in casa di don Michele Fabiani, dove usava andare ogni sera a giocare il tresette. Di Domenico Spinelli, altro accademico, riferiva aver detto un giorno nella sala delle adunanze, che se Ferdinando II gli avesse comandato di scopare le scale di Palazzo e le regie stalle, egli avrebbe adempiuto il sovrano comando con la faccia per terra; e Bernardo Quaranta era dipinto come il più untuoso adulatore del suo tempo, che ai preti baciava la mano, ai canonici faceva un profondo inchino, ai vescovi andava incontro con la testa piegata, dinanzi ai principi s’inginocchiava e dinanzi al Re si prostrava lungo per terra. Si aggiungeva in lui, a dire dell’Imbriani, un’avidità insaziabile, per cui cumulava parecchi uffici, tanto che il Santangelo diceva, che se il boja fosse morto, il Quaranta avrebbe chiesto di succedergli. La nomina di Raffaele Napoli si affermava dovuta al D’Agostino; quella di Gaetano Barbati all’aver egli compilato il processo di canonizzazione di Maria Cristina e alla benevolenza del Re, e quella del canonico Scherillo all’aver educato il figlio del ministro Murena. Insomma, fu un’infinità di abusi e di favoritismi e un po’ anche di pettegolezzi, che l’Imbriani mise in luce, ma che del resto, più o meno, accadono in ogni tempo e in tutte le Accademie del mondo.
La Pontaniana e l’Accademia medico-chirurgica, di cui era presidente il Lucarelli e vicepresidente Felice de Renzis, lavoravano con maggior frutto. L’Accademia medica fu riformata dal Re nel luglio 1868, ebbe il titolo di Reale e buon numero di soci.
Più attiva di tutte, la Pontaniana raccoglieva quanto allora vi era di più eletto in Napoli per ingegno e cultura. Non avano anche in essa gl’ignoti, ma erano in minor numero, che non all’Accademia Reale. Giovanni Manna, Luigi Tosti, Vito Fornari, Paolo Tucci, Michele Zannotti, Ernesto Capocci, Annibale de Gasparis, Michele Baldacchini, Costantino Baer, Luigi Palmieri, Marino Turchi, Giuseppe Campagna, Luigi Blanc, Giuseppe Ferrigni, Achille Costa, Scipione Volpiciella, Niccola Trudi, erano accademici residenti. Antonio Rosmini, Carlo Troja, Niccola Nicolini, Saverio Baldacchini, e più tardi Giannina Milli e Laura Mancini, ne furono soci onorarii. Angelo Brofferio, il padre Secchi, Giuseppe Regaldi, Paolo Volpicelli, Pietro Visconti, Salvatore Betti, Caterina Ferrucci, Giuseppe Maffei, il conte di Reumont, erano fra i soci corrispondenti, fuori di Napoli. La Pontaniana, la più antica fra le Accademie italiane, bandiva concorsi ed aggiudicava premii, alternando temi letterarii con temi scientifici.
Nel settembre del 1858 tenne seduta solenne, per il conferimento del premio istituito da Michele Tenore, sopra un tema d’indole sociale ed economica. I concorrenti dovevano esporre le condizioni economiche e morali delle popolazioni agricole di tutta una regione del Regno, nei loro rapporti colla proprietà e coi diversi generi di coltura. Il premio consisteva in una medaglia d’oro e 160 ducati. Su relazione del Manna, presidente della commissione giudicatrice, il premio fu conferito a Carlo de Cesare, che aveva compiuto uno studio accuratissimo sulle tre provincie di Puglia, indicando tutto un piano di riforme economiche e sociali.
Nella stessa tornata lessero interessanti memorie i soci Costa, Miuervini, Volpicella e De Gasparis. Quintino Guanciali recitò un epigramma latino sul trasporto delle ceneri di Lablache da Napoli a Parigi; Domenico Bolognese, un sonetto e Carlo de Ferrariis uno stornello. A questa seduta assistette il socio don Sebastiano di Spagna il quale era un artista e viveva fra artisti, e nella intimità di Filippo Palizzi. Aveva una lunga barba, vestiva con eleganza e poteva dirsi un bell’uomo, pur avendo l’occhio sinistro guercio. Erano pontaniani il re Oscar di Svezia e il conte di Siracusa.
Le così dette accademie poetiche e musicali erano all’ordine del giorno e con esse, i saggi degli istituti privati con articoli nei giornali, quasi sempre compiacenti. Rifritture rettoriche, con musica, sonetti ed odi. Prosatori, poeti e dilettanti di musica, specialisti di queste accademie, erano molti. Anche dalle provincie giungevano ai fogli notizie di saggi e di accademie; e come, in un giorno del 1858, si lesse nei giornali, che nel collegio Vibonese di Monteleone vi era stato un pubblico saggio, nel quale si erano distinti i due giovanetti Bruno Chimirri e Michele Francica, così in un altro giorno dello stesso anno fu stampato l’inno, che la compagnia Rizzuti cantò nel regio teatro Borbone di Vasto, per il genetliaco di Ferdinando II, e che cominciava cosi:
Coro: | Questo giorno andiam festando |
Prima voce: | Pure un di squassar funeste |
Seconda voce: | Ma la voce del perdono |
Poeta don Giambattista Cely Colajanni, cavaliere costantiniano, e musicista il maestro Dermino dei conti Maio. L’inno dà la misura di quella comica letteratura politica, della quale si ebbero copiosi saggi dopo il 1848 e più tardi per il matrimonio del duca di Calabria, per la morte di Ferdinando II e l’avvento al trono di Francesco.
Note
- ↑ Niccola Sole, preceduti da una prefazione ch’è un atto di giustizia alla memoria del simpatico poeta, il quale, non ostante l’ultima sua incoerenza, quella di avere composta la celebre cantata per l’assunzione al trono di Francesco II, lascia, dice lo Zumbini, non solo brani, ma interi e ampi e numerosi documenti di vera poesia, degni di essere ricordati per sempre. ha raccolto in un bel volume, edito dai Lemonnier, i canti di
- ↑ Don Domenico, che andate facendo? È da tanto tempo che non ci siamo più veduti.
- ↑ E dove sta?
- ↑ Pasticceria.
- ↑ Salvatore di Giacomo ha consacrato nelle sue graziose Celebrità Napoletane (Trani, Vecchi, 1896) un breve capitolo al Bello Gasparre.