La fine di un Regno/Parte I/Capitolo XIII
Questo testo è completo. |
◄ | Parte I - Capitolo XII | Parte I - Capitolo XIV | ► |
CAPITOLO XIII
Il Banco delle Due Sicilie, come si chiamava allora il Banco di Napoli, dipendeva dal ministero delle finanze. Eugenio Tortora ha scritto due grossi volumi, narrandone la storia e le vicende, dal 1539, in cui si apri la prima cassa pubblica, in via della Selice, all’ultimo riordinamento del 1863, fatto dal Minghetti, ministro delle finanze e dal Manna, ministro del commercio. Negli anni, dei quali parlo, il Banco delle Due Sicilie era in Napoli diviso in tre casse: la cassa di Corte, che avea sede nell’edificio di San Giacomo; la seconda cassa di Corte, allo Spirito Santo, e la cassa dei privati, posta dove prima era il banco della Pietà. Il direttore generale si chiamava Reggente e presedeva il Consiglio della reggenza, formato da lui, dai presidenti delle tre casse, dal segretario generale e dal razionale contabile. Questo Consiglio si occupava degli affari interni del Banco; nominava e destituiva gli impiegati; provvedeva ai posti vacanti, nonché al servizio delle casse e all’amministrazione del patrimonio. Il Reggente aveva poteri molto estesi e corrispondeva col ministro delle finanze, con i capi delle pubbliche amministrazioni e con tutte le autorità. Ogni cassa aveva un proprio presidente, due governatori e parecchi cassieri, meno la prima cassa di Corte, con un solo governatore. L’archivio generale del Banco era tenuto da un governatore e da un archivista. La Cassa di sconto, istituita nel 1818 da Ferdinando I, aveva una commissione omonima, il cui ufficio era di esaminare gli effetti che si presentavano, composta da sei deputati, dal segretario generale, dal cassiere generale, da un tesoriere, da un sindaco censore, che allora si chiamava "controllo immediato al tesoriere„, e da due agenti di cambio. Tale fu l’organizzazione intema del Banco dal 1816, quando il Medici lo riordinò, sino al 1863.
Alla prima cassa di Corte si scontavano gli effetti commerciali e si pegnoravano gli effetti pubblici. Nel 1858 Ferdinando II autorizzò il Banco a fare ai negozianzi prestiti di somme garantite dalle merci depositate nei magazzini della dogana, con cambiali a tre firme e a cinque mesi; ma l’utile riforma non fu mai tradotta in atto, e se ne attribuì il motivo allo scarso successo delle operazioni di pegno sopra alcune speciali mercanzie, che si depositavano nei locali dell’antica posta, in via di Porto, sul principio. Nella seconda cassa di Corte si pegnoravano gli oggetti preziosi e alla Pietà si ricevevano i pegni dei poveri. Ufficio precipuo del Banco era l’emissione delle così dette fedi di credito, trasferibili per girata e rimborsabili a vista, le quali facilitavano notevolmente i contratti privati. Imperocché, potendosi nella girata inserire un intero contratto, che avesse una relazione qualunque con il pagamento, per cui si cedeva la fede, ne derivava che essa era usata in tutti i contratti, specialmente come quietanza e nei casi, nei quali la legge richiedeva qualche formalità. Si risparmiava tempo e denaro. A Napoli non vi era contratto di affitto, ricevuta di pagamento, compra o vendita di mobili, che non si scrivesse su fedi di credito o su polizze notate, con le quali si disponeva delle somme depositate nel Banco. Proprietarii e commercianti erano provveduti di piccole polizze, sulle quali si distendeva qualunque atto, tanto più che fedi e polizze potevano farsi anche per soli dieci grani. Con tale sistema, potendo ciascuno, come disse lo Scialoja, avere gratuitamente il notaio in saccoccia, la tassa di registro e bollo nel Regno rendeva pochissimo. Vero è, che, anche senza le fedi di credito e le polizze notate, il suo reddito sarebbe stato meschino per l’esiguità delle tariffe. La carta da bollo non costava che 3, 6 o 12 grani.
Reggente del Banco era il barone Francesco Ciccarelli, che occupava quel posto sin dal 1842, e vi rimase fino al 1860. Tanti anni di reggenza lo avevano reso espertissimo nelle cose del Banco. Aveva una debolezza per i titoli nobiliari, e da Pio IX, fuggiasco a Gaeta, ottenne il titolo di marchese di Cesavolpe. Nel 1860 la segreteria della Dittatura lo destituì, nominando in sua vece Giuseppe Libertini. Al Libertini successe Michele Avitabile, il cui marchesato fu posto in dubbio dal Settembrini in una celebre polemica, seguita da un processo, nel quale l’Avitabile dimostrò che il titolo di marchese era stato concesso alla sua famiglia da Carlo III. A Napoli tutti lo chiamavano marchese, ed egli se ne compiaceva. Era vivacissimo e non senza talento. Circa tre anni durò l’Avitabile in quell’ufficio, e nel 1863, per un enorme errore in cui cadde e che tutti ricordano, fu dal ministro Manna dispensato dal servizio e venne eletto deputato a Sansevero, andando naturalmente a sedere a sinistra. Ma negli ultimi anni del Regno era Reggente, ripeto, il vecchio Ciccarelli e funzionava da segretario generale don Giovannino de Marco, famoso per la sua inesauribile partenopea parlantina.
Razionale ed agente contabile era Giovanni Amatrioe. Al Banco c’era una tribù di Amatrice, anzi c’erano varie tribù: gli Aulisio, i Salerno, i Gambardella, i Capasso, i Ferraiolo, i Nappa, i Marino, poiché gl’impieghi, per malinteso privilegio, andavano di padre in figlio, e non vi erano ammessi che i figli o i nipoti degl’impiegati. Altra tribù caratteristica era quella dei D’Amore, che avevano l’ufficio di archivisti da quasi un secolo. Era forse una necessità, perche, essendo l’archivista responsabile di ciascuna carta ed immenso l’archivio, solo i figli o gli stretti parenti potevano succedere nella responsabilità di un archivista morto o collocato in riposo. In quegli anni era archivista don Raimondo d’Amore, ricordato con simpatia per le sue facili irritazioni e i suoi bernoccoli sulla testa.
A presidenti delle tre casse si sceglievano ordinariamente gentiluomini, che non avessero assoluto bisogno dello stipendio, perche questo non. era alto. Negli ultimi anni, tre marchesi presedevano alle tre casse: il marchese Serra di Rivadebro alla prima, il marchese Sersale alla seconda e il marchese Da Bisogno alla terza. Governatore della prima cassa di Corte era Natale Sorvillo, reputato e ricco uomo, che teneva banco per suo conto ed era comproprietario delle cartiere meridionali ad Isola del Liri. Razionale era Bartolomeo Fiorentino. Il barone Carbonelli e Niccola Buonanno coprivano il posto di governatori alla seconda cassa di Corte, di cui era razionale Luigi Giovine, tuttora impiegato alla Pietà. Alla cassa dei privati erano governatori il marchese Santasilia e il barone Marinelli; razionale, Francesco Soletta, il cui figlio Luigi fu anche impiegato del Banco, alla sede di Roma. Governatore dell’archivio era don Antonio Degni, uno degli avvocati più reputati d’allora. Appartenevano alla commissione di sconto banchieri o rappresentanti di ditte di prim’ordine: Giacomo Forquet, socio dell’antica ditta Forquet e Giusso, di origine genovese; Gaetano Cavassa, Niccola Buono, commerciante di grani all’ingrosso, e la cui ditta ancora esiste; Gioacchino Ricciardi e Francesco Stella, negoziante di telerie. Tesoriere della cassa di sconto era il marchesino Pasquale del Carretto, morto recentemente quasi in miseria, perchè il vecchio marchese, sia detto a suo onore, non lasciò nessun patrimonio; e venuto il nuovo ordine politico, il figlio perdè l’impiego al Banco ed anche l’altro, più lucroso, di percettore del quartiere San Ferdinando, conferitogli come regalo di battesimo dal Re e che non esercitò mai di persona. Aveva sposata nel 1859 l’unica figliuola di Niccola e Teresa Spada possidenti molto ricchi di Spinazzola, e la giovane marchesa del Carretto, oggi defunta, scriveva graziosi versi.
Il Banco di Napoli non aveva succursali nelle provincie. Ogni tentativo d’istituirle riuscì vano, perchè il Re non volle mai saperne, anzi si narra che egli investisse una deputazione di cittadini di Reggio, i quali andarono a domandargli una succursale del Banco con queste parole: "andate, volete rovinarvi con le cambiali; voi non siete commercianti; voi non capite niente„. Fin dai suoi tempi, il Medici intendeva aprirle in ogni provincia, ma ne egli, ne i suoi successori vi riuscirono mai; ne miglior sorte ebbero i tentativi del D’Andrea e del Murena, quando il Banco aveva trenta milioni di ducati nel suo tesoro, e più di cinquanta milioni di titoli in circolazione. I municipii e alcuni intendenti insistevano, senza frutto. In quasi mezzo secolo, dal 1816 al 1860, non vennero istituite che due casse di Corte a Palermo e a Messina, nel 1843, le quali, più tardi, con decreto 13 agosto 1850, quando la Sicilia acquistò l’autonomia amministrativa, furono staccate dal Banco di Napoli e formarono il Banco regio de’ reali domimi al di là del Faro, e poi l’attuale Banco di Sicilia. Una sede fu aperta a Bari nel 1857. Chieti e Reggio non ebbero che una promessa nei primi mesi del 1860. Al Re bastava che la circolazione delle fedi di credito fosse in tutto il Regno favorita dagli agenti finanziarli del governo, i quali, non solo le accettavano in pagamento delle imposte, ma le cambiavano con valuta metallica, e talvolta pagavano anche un aggio per averle, quando occorreva loro di far versamenti alla tesoreria centrale di Napoli. In tal modo risparmiavano le spese ed evitavano i pericoli dei trasporti di moneta. Eppure, nonostante che la tesoreria, la cassa del Re, le provincie, i comuni, i luoghi pii ed ogni altra pubblica amministrazione, i banchieri, i commercianti e tutti usassero largamente delle fedi di credito, il servizio d’emissione e quelli più importanti di anticipazione e di sconti, esistevano solo in Napoli. Ferdinando II faceva mostra di provvedere, di tanto in tanto, con decreti da burla, ai bisogni del commercio, dell’industria e dell’agricoltura. Dico da burla, perchè rimanevano in asso. Dei suoi ultimi consiglieri, il Murena e il Bianchini si sarebbero spinti più innanzi, ma non osavano far cosa che il Re non volesse; e il Re, temendo sempre che dalle novità economiche si scivolasse nelle politiche, consentiva i decreti, ma poi se ne pentiva e quelli rimanevano lettera morta. Senza avere alcuna cultura bancaria, intuiva gli effetti dell’abuso del credito. In lui la perspicuità meridionale teneva il posto della scienza, e la risposta data alla deputazione di Reggio lo rivela; ma, al solito, non distinguendo perchè incolto, confondeva, in un solo biasimo, uso ed abuso. Dopo tutto però, non fu certo un gran male che mancasse qualunque credito fondiario e con esso banche popolari o elettorali, imposture dei nuovi tempi e cancrene dell’Istituto e della pubblica economia. Anzi c’era un bene: le cambiali servivano al commercio e le ammissioni allo sconto erano severissime, come si può vedere dai regolamenti. Dal 1818 al 1861, cioè in 44 anni, sopra operazioni di sconto e di pegno, che giunsero a 712 milioni di ducati, pari a 3 miliardi di lire italiane, cioè in media a circa 69 milioni all’anno, le perdite o sofferenze, come si dice oggi, per cambiali inesigibili, nonchè le restituzioni di somme indebitamente riscosse e tutte le spese, delle quali non si voleva con chiarezza specificare l’indole, chiamate spese considerevoli, ascesero a 649375 ducati, cioè, in media, a poco più di 60 000 lire all’anno. Bisognerebbe consultare il periodo dal 1861 ad oggi, per constatare la differenza spaventosa tra le perdite di allora e le presenti! Allora però contro i debitori morosi si procedeva con l’arresto personale, nel carcere della Concordia.
I beni dei debitori morosi, poichè era rigorosamente proibito al Banco di possedere immobili, si vendevano all’asta pubblica, ma non si potrebbe affermare che fossero sempre aggiudicati a prezzo giusto. La piaga degl’imbrogli nelle vendite giudiziarie è antica nel paese. Molte case furono acquistate a vii prezzo, da don Antonio Monaco, divenuto, da scrivano pubblico, uomo denaroso e amico del Reggente. Il Monaco, che fu anche impresario del San Carlo, lasciò un cospicuo patrimonio, rappresentato quasi interamente da circa cento palazze ’e case.1 Parecchie case le acquistò pure don Andrea de Rosa, ricco assuntore di opere pubbliche, che compro e ricostruì il gran palazzo al Mercatello, che porta il suo nome. Sul conto del De Rosa correvano curiose dicerie. Egli era di Afragola e da giovine aveva fatto il pettinatore di canape. Si disse che dovesse la rapida fortuna alla bellezza della sua persona, che lo fece entrare nelle grazie di una principessa, la quale aveva autorità in Corte, e per cui ottenne importanti appalti, che in poco tempo lo fecero arricchire. Divenne poi barone, benchè fosse quasi analfabeta. Di lui si raccontava ancora che, dovendo riscuotere una forte somma dal governo, e non potendo ottenerla per l’opposizione del ministro competente, ricorse, dopo altre molte astuzie, a quella di far trovare nella scuderia del ministro una pariglia di cavalli, mentre un’altra pariglia mandò a regalare al Re.
Gli stipendii degl’impiegati erano modesti. I presidenti delle tre casse non avevano che 480 ducati all’anno; i governatori, 240 e il Reggente 1000, meno di quanto prende ora un direttore di succursale o un ispettore. Si cominciava, dopo l’alunnato gratuito, con sedici o venti carlini al mese e occorrevano vent’anni di servizio, per arrivare a venti ducati. E di qui, abusi senza fine. Si tolleravano le assenze; si permetteva di cumulare col proprio ufficio quello di un compagno e si perdonavano debiti e indelicatezze. Udite, come ne parla il Tortora: "i più svelti esercitavano la professione di avvocato, di medico, di notaio; altri facevano i sensali; alcuni giunsero a stabilire il domicilio lontano da Napoli, conservando l’impiego, ed una parte di quelli che venivano in ufficio, o si faceva pagare dai compagni inassistenti, e raggranellava così il necessario per vivere, o si aiutava con le mance e con le indelicatezze. L’ordinamento difettoso degli uffizii, le strane formalità e soprattutto la conoscenza personale degl’individui, con garanzia delle firme, che riohiedevasi anche quando non occorresse, facilitavano queste porcherie. Chi non sapeva perfettamente come fossero congegnate le scritture, e distribuite le funzioni fra varie centinaia d’impiegati, si trovava nella materiale impossibilità di sbrigare qualsivoglia faccenda; e non bastava tale cognizione, perche gli affari del Banco si facevano tutti con carte nominative, le quali dovevano essere firmate da persone di fiducia. La fiducia si meritava, sia con le relazioni personali, sia mediante compenso. Era naturale che l’ufficio di sensale, col suo lucro, toccasse agl’impiegati stessi, che erano pagati così male, ovvero ad individui che spartivano con essi il provento. Dopo tutto ciò, si operavano le promozioni col solo requisito dell’anzianità, mettendosi a capo degli uffizii persone notoriamente disadatte, per vecchiaia o insufficienza„ . A questo quadro è inutile aggiungere alcuna cornice.
Molti erano davvero questi inconvenienti, ma non tali, in verità, da intaccare il patrimonio dell’istituto, del quale anzi l’aumento patrimoniale fu costante. Banco schiettamente napoletano, aveva fini più modesti di oggi, che, divenuto istituto di emissione e di credito fondiario, aprì sedi non solamente in quasi tutte le provincie continentali dell’antico Regno, ma nelle principali città d’Italia, immobilizzando o distraendo il suo capitale. Governato da un numeroso Consiglio, o meglio da una folla di provenienza elettiva, subì per un pezzo le vicende parlamentari, donde le crisi frequenti dei suoi direttori e le lotte palesi ed occulte fra il direttore di nomina regia e il Consiglio, le inframmettenze del governo, ora provvide e ora nefaste, e la crescente prevalenza di elementi estranei alle provincie napoletane. E da questo Consiglio venivano fuori i delegati delle sedi, i consiglieri di amministrazione e i censori o sindaci: uffici variamente retribuiti, ma retribuiti tutti. Si può imaginare quale spettacolo di avidità e di volgarità presentasse questo Consiglio nella rinnovazione delle cariche, e quali influenze esercitassero questi consiglieri sugli sconti e sulle operazioni nelle rispettive sedi, alla loro vigilanza commesse! Una legge escluse dal Consiglio del Banco i membri del Parlamento: si credette così di epurarlo, ma il livello morale del consesso discese ancora più basso.2
Il Reggente del Banco delle Due Sicilie era contemporaneamente direttore della Zecca, o amministratore delle monete, ufficio che dipendeva anche dal ministero delle finanze e aveva sede in Sant’Agostino. Oltre alle officine di monetazione, c’era la raffineria chimica dell’oro; c’erano gabinetti d’incisione e di garentia, mangani ed argani per i fili d’argento e d’argento dorato. Altri gabinetti di garentia erano nei capoluoghi di provincia. Funzionava da segretario generale di quell’amministrazione Marcello Firrao e n’era razionale il Caropreso, consigliere alla Corte dei conti. La Zecca di Napoli, che aveva pure l’ufficio di fissare il valore delle monete estere, continuò a lavorare mediocremente fino al 1870, ma, colla soppressione delle Zecche di Firenze e di Torino, fu chiusa anch’essa. Da allora non si è mai saputo dove sia andato a finire il suo immenso materiale, e quella stupenda collezione di conii, alla quale lavorarono, negli ultimi anni, due incisori di prim’ordine: l’Arnaud e il Piranesi. La Zecca di Napoli, cui fu annessa nel giugno del 1858, una scuola per l’incisione in acciaio, era forse la prima d’Italia, anche per valore tecnico. Bellissime davvero le monete di argento e di rame. Il Regno aveva un regime monetario monometallico a base d’argento. Monete d’argento e fedi del Banco formavano questo regime, e le fedi del Banco anche all’estero eran tenute in conto di valuta di prim’ordine. Dopo che nel 1835 Ferdinando II fece coniare la bellissima moneta d’oro di trenta ducati, divenuta preziosa per la purezza della lega e il valore intrinseco, monete d’oro non se ne coniarono sino al 1860. E oggi non esiste più neppure la Zecca, che dava da vivere a tanta gente, e non avrebbe dovuto davvero andar travolta in quel grande vortice di distruzione, che segnalò il nuovo regime, ferì e spostò tanti interessi e creò tanto malcontento.
Nella Borsa si accentrava il movimento economico del Regno. Primeggiava tra i valori, la rendita, vera preoccupazione di Stato, e vanità della Corte e d’ogni napoletano. Le contrattazioni passavano per le mani di agenti di cambio di gran credito. Del Pozzo, Marrucco, Spasiano e Zingaropoli erano fra i più rinomati, per la loro lunga ed onesta carriera e per le ricchezze accumulate. Nella rendita negoziavano banchieri, come Rothschild, Forquet, Meuricoffre e Sorvillo, allora uniti, Gundergchein e molti altri. Tutte le divise estere, delle quali il paese abbisognava, erano per questi, e per altri banchieri minori, lavoro attivo e proficuo, ed ogni ramo del commercio di esportazione trovava presso di essi a collocare le sue tratte, con facile metodo. Perciò la Borsa era frequentata da quanti avevano veramente interessi nei traffici, nella navigazione e nell’impiego di capitali. Per parecchie ore, ma più dalle 2 alle 4 pomeridiane, era affollata e febbrilmente agitata; ed era ritenuta una delle più attive ed importanti d’Europa.
L’uso di vendere merce di raccolti, ancora in erba, aveva dato vita in Napoli ad un gran giuoco; ed attorno alle compre ed alle vendite di genere effettivo, si giocava e si scommetteva al rialzo o al ribasso, dando luogo a differenza di prezzo, liquidato mese per mese da appositi agenti o sensali, come oggi usa per i fondi pubblici ed i valori.
Due sale attigue alla Borsa, a sinistra del gran portone del palazzo di San Giacomo, dalla parte del Largo del Castello, erano riservate alla contrattazione della rendita pubblica, nelle ore, in cui la Borsa stava chiusa. Le riunioni per le contrattazioni dei grani e degli olii, nelle prime ore del mattino e nella sera, si tenevano da molti anni nel primo caffè a due porte, accosto a un estaminet, con sale di bigliardo, dirimpetto al Castelnuovo, all’angolo opposto, dove era il teatrino del Sebeto. Questo estaminet era condotto da uno svizzero. Sentita la necessità di un locale più adatto. Salvatore Ferrara e Michelangelo Tancredi, seniore, regio agente di cambii e trasferimenti, tolsero in fìtto, verso il 1834, presso lo Spedaletto, la vastissima sala dell’antico sedilo de’ nobili di Porto, detta poi Sala di S. Giuseppe, per la vicina chiesa omonima. Nell’alta volta di quella sala era dipinto uno stupendo affresco, rappresentante il martirio di S. Gennaro. Sull’area di quell’unica sala fu poi edificato il presente albergo di Ginevra. La Sala di S. Giuseppe fu decorata con busti e con ornamenti in legno, e non mancavano gabinetti per la lettura dei giornali francesi e inglesi. Dopo qualche anno, avendo il Ferrara e il Tancredi subite gravi perdite, cedettero il locale ad altri. I negozianti veri, i così detti speculatori, cioè scommettitori a scadenza, che giocavano sul vuoto, i sensali patentati, e i moltissimi non patentati, detti marroni, quando non intervenivano alla Borsa a San Giacomo, si riunivano in questa sala, ove trattavasi quasi esclusivamente di grani e di olii, esclusa la rendita.
Gli olii ed i grani, alla Borsa, si contrattavano in un modo speciale, che si adattava meravigliosamente alla condizione economica delle Provincie napoletane. Case di commercio, fornite di grandi capitali, avevano vasti magazzini in alcune città della costa, dove si raccoglievano le mercanzie, e mettevano questi magazzini a disposizione di proprietarii, che avessero voluto depositarvi le loro merci, con facoltà di ottenere anticipazioni di danaro, e stabilirne a loro beneplacito lo ammontare in qualunque tempo: la qual cosa era facile, poiché ogni giorno il listino della Borsa segnava il valore delle derrate. Grandi masse si formavano, con tal metodo, atte ad alimentare il grande commercio, e che ricevevano incremento dai quotidiani acquisti, che ogni Casa faceva, di generi provenienti dall’interno del paese, i quali trovavano in tal modo prezzo sicuro, senza correre il rischio di costoso viaggio, per raggiungere il mercato di consumo. Manfredonia e Barletta erano le maggiori piazze di deposito e dal porto di Manfredonia partivano quei grani duri da far paste, così rinomati, prima che le terre nere di Russia ne producessero tanti, da non farne più sentire il bisogno nel mondo.
Gioia Tauro, in Calabria, e Gallipoli, in Puglia, raccoglievano gli olii, dividendoli ne’ due distinti tipi, de’ quali si compone la produzione napoletana. L’uno e l’altro erano grandemente richiesti in Russia; e, mentre per ardere era preferito quello calabrese; l’Inghilterra, il Belgio e la Francia, per lubrificare macchine, o lavar lana, preferivano il pugliese, il quale, grazie ai progressi tecnici introdotti dal Ravanas, era divenuto olio commestibile di eccellente qualità, e serviva pure per la conservazione delle sardine. Gli olii minerali non si conoscevano; nè le Americhe mandavano olii di lardo. Se ne estraevano dalle sementi, ma in poca quantità, da non far concorrenza agli olii di oliva. Intorno ai tipi di Gioia Tauro e di Gallipoli, s’aggrupparono gli olii comuni di Brindisi e di Taranto, di Catanzaro e Petromarina, che erano negoziati dalla ditta dei fratelli Cricelli. Nella Calabria, Cotrone e Petromarina erano scali spesso richiesti. Cosi si consumava una produzione, che dava all’esportazione da trecento a quattrocentomila quintali circa all’anno, ed allo Stato un introito cospicuo per il dazio d’esportazione.
Queste case di commercio avevano la sede principale a Napoli, e succursali più in questa, che in quella provincia, secondo l’articolo del loro commercio. Le più antiche ed importanti, meglio fornite di capitali, di provata buona fede ed onestà, prendevano facilmente il posto sulle altre; e poichè modo consueto di pagamento erano, come si è detto, le fedi del Banco, che circolavano per tutto il Regno, presto erano conosciute e rispettate ovunque. La larga considerazione, all’interno, le accreditava all’estero; tanto più, che tutta la merce, la quale per l’estero si caricava, usciva dai loro magazzini, ed ogni acquisto, che l’estero faceva, si compiva mediante un ordine di consegna, a presentazione, su una piazza indicata, della mercanzia nell'ordine espressa, con forme e particolari di qualità, di peso e di misura, sagacemente e nettamente designate. Queste case emettevano numerosi ordini, durante l’anno. Erano di mille tomoli ognuno, se si trattava di grano; di cento salme, se di olio di Puglia; di cinquanta botti, se di olio di Calabria: e questi ordini di consegna non tutti andavano ad estinguersi nell’anno; sia perchè veniva via via a cessare la convenienza d’esportarne, sia perchè, chi ne possedeva, preferiva esperimentare, col tempo, un miglior prezzo: sicché essi, passando di mano in mano, costituivano una circolazione fiduciaria, accetta a tutti. E quando la firma della Casa traente, col passare degli anni, aveva il suo credito bene stabilito, di comune e tacito consenso, veniva detta firma di piazza: espressione, che, nel linguaggio generale, sostituisce ancora in queste provincie ciò che gl’inglesi dicono first rate.
Erano sorti due distinti gruppi di case d’ordini: l’uno per gli olii; l’altro, per i cereali. Primeggiavano i Rocca, la casa di Giacomo e quella di Andrea: amendue legate con quei Bocca di Genova, che avevano piantate le loro filiali a Marsiglia, a Londra, negli scali levantini, ed in quelli dell’Adriatico. Erano i Baring italiani: mercanti, banchieri ed armatori ad un tempo. La pace, che tenne dietro la guerra di Crimea, li colpi. Grande massa di mercanzia, mandata a fornire il campo degli alleati, o tratta di Russia prima del blocco, era rimasta invenduta. Si manteneva bensì intatto il loro credito, ma già don Andrea non più comprava, e Pietro Bocca, erede principale della fortuna di Giacomo, e più dell’avarizia genovese, piuttosto frenava, che allargava gli afiari. Attorno a loro, per gli olii, vi era una pleiade di forti case: Cardinale e Pirla erano le più accreditate, dopo che don Girolamo Maglione erasi ritirato, parendogli che al giocare ed allo scommettere si volgesse, più che agli affari reali, la speculazione. Piena di giovanile baldanza si affermò la casa Minasi e Arlotta, il cui centro di operazione fu specialmente Gallipoli. Questa ditta tenne testa al Rothschild, quando nel 1856, s’invogliò di essere firma di piazza, per l’olio. Giovandosi de’ suoi capitali, Rothschild aveva comprati olii ad alto prezzo; ma l’estero poco volendone, ed essendo scoppiata la crisi americana, i fallimenti si seguirono, e tutt’i prodotti ribassarono. I proprietarii intanto accorrevano da lontano a portare mercanzia ed a richieder danaro in anticipazione. Rothschild, incapace di governare simile operazione, nuova per lui, si perdette d’animo, anche perchè la ditta Minasi e Arlotta non cessava di punzecchiarlo, per mezzo dei suoi sensali e di alti ribassisti, con vendite al ribasso, giustificate dalla splendida apparenza del raccolto futuro. E così Rothschild fu costretto a capitolare, vendendo tutto l’olio comprato, e quant’altro aveva nei magazzini a Gallipoli al prezzo di 23 a 24 ducati la salma. Fuori lui, la casa Minasi e Arlotta divenne la prima casa d’ordini, per gli olii, sulla piazza di Napoli.
Per i grani, in quegli anni, quattro erano le case d’ordini. Pietro Rocca fu Giacomo, Andrea e fratelli Rocca, Raffaele e Pasquale Perfetti e Giuseppe de Martino. Le prime poco operavano; ma le due ultime, tenaci in un duello, cominciato da lunga data, tenevano la Borsa divisa in due campi, ed inasprivano, con astii personali, quella lotta, che già si combatteva per il ribasso o l’aumento. Negli annali della Borsa, erano più antichi i De Martino. Venivano dal piano di Sorrento; armatori e capitani di nave, che, abbandonato il mare, avevano, per conto di case inglesi, molto comprato e molto imbarcato di granaglie. Erano gente larga, dallo spirito elevato, e tenaci nel sostenere una lotta; impressionabili, sposavano simpatia ed odio con facilità; e con pari facilità erano generosi, più che loro non convenisse. Il Perfetti era tutt’altro uomo. Veniva da umile condizione, e se ne faceva vanto; aveva venduti arnesi da magazzino, e vissuto fra sensali e piccoli speculatori, e a poco a poco intuito quanto potevasi trarre di utilità, rappresentando i proprietarii coltivatori, presso i mugnai di Napoli, senza passare per la Borsa. I grani, consegnabili in forza d’ordini, si erano discreditati; per dame all’estero nell’abbondanza richiesta dallo sviluppo crescente del commercio, bisognava raccoglierne di ogni qualità; per la qual cosa, chi aveva produzione bella e scelta, era disperato di doverne cavare prezzo pari a quello delle qualità comuni.
Perfetti, nativo di Terra di Lavoro, cominciò a portar grano con carri, poi con barche, al mercato di Napoli: gli utili gli accrebbero ardire e lavoro, e fece la sua apparizione in Borsa, ne’ ranghi degli aumentisti. Vi portava, contingente prezioso, il sentimento dei proprietarii e quello dei mugnai, due potenti alleati. Perfetti non aveva studii, ma l’ingegno aveva acuto e ne diè prova presto, chiamando intorno a sè la gente più capace e più adatta a quel genere di commercio. Ricercò ed ottenne commissioni dall’estero, e le disimpegnò con lode consegnando qualità migliori, che altre case non facessero: avvedutezza questa, che lo fece salire in eccellente fama a Genova ed a Marsiglia. La situazione economica del Regno in tanto s’avvantaggiava. Le miti imposte permettevano il risparmio; i coloni si erano rifatti e opponevano maggior resistenza ai prezzi ribassanti della Borsa, preferendo tenere ne’ granai la merce, anzi che venderla; ciò che tornava in danno di chi avesse venduto allo scoperto. Le qualità dei grani di Polonia e di Odessa erano migliorate; quelle di Barletta non guadagnavano più la gran differenza, che prima avevano goduto; bisognava quindi che esse, alla loro volta, fossero divenute migliori; e Perfetti, pagando in Puglia prezzi alti, secondo il merito della merce, stimolò a meglio produrre. Capitanando in Borsa gli aumentisti, egli attrasse a sè tutt’i produttori pugliesi; e pigliando da questi la roba migliore, accrebbe all’estero, rapidamente, la sua rinomanza e i suoi guadagni. Gli ordini di sua firma, prima accettati soltanto per caricazione, furono ammessi alla liquidazione mensile; e la sua casa prese posto officiale nella Borsa, come casa d’ordine.
Il duello divenne lotta accanita. Al caffè de’ commercianti, là dove sorge il nuovo grandioso palazzo del presente albergo di Londra, dal mattino sino a mezzogiorno, e nelle ore pomeridiane, sotto i platani della spianata, gruppi di sensali e di speculatori si adunavano e si disfacevano a vista d’occhio: avvisaglie queste, che finivano alla Borsa con lotte, dalle quali le fortune rapidamente venivano intaccate, o rapidamente si accumulavano: onde poi la gente di Borsa andava notata come la più spendereccia della città.
Era un correre di sensali, ed un agitarsi di gente a far premii o affari a fermo; lottatori esercitati a tener conto di ogni piccola variazione di mercato, d’ogni possibile circostanza, di ogni qualsiasi accenno a variazioni future. Le nuvole e il variare dei venti erano seguiti con maggior cura, che non avesse mai fatto astronomo, per cavarne prognostici circa l’approdare dei navigli, e le condizioni favorevoli o meno alle raccolte. Notizie, staffette, gherminelle, agitazioni effimere e falsi allarmi erano, con combinazioni infinite, messi in movimento. Compari numerosi e commessi seguivano i sensali più in vista, notati e sospettati quale fosse sostenuto, quale combattuto da De Martino o da Perfetti. Era un tal Noviello, il primo sensale di Perfetti; ma don Nicola Stella e Savini, detto California, Porzio, Ricciardi, Imperato, Amendola, i fratelli di Pompeo ed altri componevano lo stato maggiore, che le operazioni del Perfètti accompagnavano con le proprie. De Martino aveva Vincenzo Mollo, quel Luigi Sgrugli, simpatico a tutti ed il romoroso Vincenzo Russo, cambiavalute a San Giacomo con grandi capitali; e con questi speculatori non meno potenti che arditi, combattevasi, sperando che una liquidazione o l’altra s’avesse a fare a dieci carlini il tomolo, e che i pugliesi ne dovessero fallire. Ricordo anche fra le case commerciali quella dei Fratelli Rogers, inglesi, i quali negoziavano molto in cambii, in rendite e anche in grani ed olii.
Ma l’Impero in Francia, con la sua politica doganale, favoriva lo sviluppo industriale; i traffici aumentavano, stimolando, con l’aumentato lavoro, l’incremento della popolazione e de’ consumi: i grani seguivano, come gli altri articoli, questo moto, e quello non meno efficace dell’arrivo in Europa delle masse del nuovo oro dalla California. Perciò era facile prevedere che ogni nuova lotta era una sconfitta per i ribassisti ed il loro capo; quantunque questi avesse trovato nel suo associato, Federico Pavoncelli, una nuova forza ed un uomo capace di riprendere la situazione in Puglia ed abbattere l’influenza di Perfetti, migliorare le qualità dei grani, coordinare il lavoro, e fare brillantemente la campagna del 1856, quando fu concessa l’esportazione dei grani, non creduta possibile da De Martino, il quale si trovò ribassista, e solo a sostenere l’urto di seicentomila tomoli di grano, da consegnare in pochi mesi. Perfetti mori nell’autunno del 1857. Nella primavera del 1856 manovrò con tanta abilità, da indurre il suo rivale De Martino a vendergli molti e molti grani, per consegna alla nuova raccolta, a prezzi di lire 1,65 e 1,70 il tomolo. Quando venne l’agosto, il grano valeva 2,10 e 2,20 ond’egli fece un grossissimo guadagno.
Federico Pavoncelli, rimasto arbitro del mercato dei grani nel 1860 e negli anni posteriori, mori vecchio, lasciando una cospicua sostanza. Uomo di talento commerciale non comune, egli creò dal nulla il suo patrimonio in circa mezzo secolo di lavoro perseverante e sagace, e di economia rigorosa. Era nato per eccellere dovunque rivolgesse la sua attività e il suo ingegno; e se invece di svolgere la sua azione nell’antico Regno, e più nella piccola Cerignola, centro delle sue operazioni nelle Puglie, avesse avuto per campo l’Inghilterra o l’Olanda, avrebbe accumulata una sostanza anche più cospicua. Io conobbi questo singolare vecchio un anno prima della sua morte. Giuseppe Pavoncelli, deputato al Parlamento, e già ministro de’ Lavori Pubblici, fu il braccio destro del padre; da giovane, fece il sovrastante ai magazzini di grano a Barletta, e s’arricchì da sè stesso della geniale cultura onde è dotato. Il più grande impulso alla trasformazione agricola in Puglia è merito del padre e del figlio. Quando videro che, per le mutate condizioni del mercato dei grani, la Russia, l’India e l’America, riversavano nell’Europa torrenti di cereali, e che perciò il commercio di questi era finito, si volsero allo acquisto di terreni; e duemila ettari di terra trasformarono in un solo vigneto, con stabilimenti enologici, come non ne ho visti in Francia. Oggi la casa Pavoncelli è la maggiore produttrice di vini nel mondo.
Nella gran dogana si accentrava tutto il movimento delle mercanzie; al "Molo piccolo„ si negoziavano le frutta; al Mercato, al Carmine, le frutta secche ed i legumi; a Portanolana, la crusca e le carrubbe — sciuscelle — e si negoziavano pure i grani provenienti per via di terra, e perciò detti "della Vatica„. Interessante era il commercio dei carboni, per massima parte provenienti dalla costa romana, insieme alle fascine, che anche oggi occorrono largamente per provvedere ai numerosi forni della città. Questo commercio era nelle mani di un tal Papaccio, nel quale si raccoglievano tutte le furberie del mestiere. Le fascine venivano con legnetti da cabottaggio, che caricavano sulla costa, da Terracina a Orbetello, ogni derrata, dal carbone all’olio. I facchini si chiamavano "scaricanti„ e tra essi la camorra reclutava i suoi migliori aggregati. Questi però costituivano la plebe, perchè la classe aristocratica dei facchini era quella, che scaricava merce al Mandracchio e carbon fossile al "Molo grande„; e stimavasi buon posto e miglior fortuna il farne parte. Il commercio del carbone s’andava sempre più sviluppando, per il lavoro più attivo di Pietrarsa, e per gli opificii, che aumentavano di numero. La casa Volpicelli teneva il primo posto in questo traffico, ed è ad essa che si ascrisse il De Sauna, la cui casa, in poco tempo, divenne importantissima. Ma era la gran dogana l’ambizione di tutti: colà si raccoglieva il commercio di minerali, manifatture, droghe, coloniali. Imbert, Aimè, e Leriche trattavano specialmente i prodotti chimici; Radice, le profumerie, e la haut du pavè era tenuto da’ Ceolini, da Jesu, da Caprile, da De Angelis: tutti grossi e ricchi importatori di coloniali. Essi poi li spandevano nelle provincie ai numerosi loro clienti; e questi, alla loro volta, vendevano al minuto, con lucroso vantaggio, nelle piccole città, insieme alle candele votive, la cannella, il pepe, il rosolio, lo stomatico, la cera ed i confetti di Sulmona, duri come pietre.
Seguivano i mercanti di tessuti, fra i quali eccellevano Cosenza, Cilento, i fratelli Galante, Maresca, e i fratelli Palomba; e nell’articolo cotone, allora, come oggi, dominava la più vecchia e rinomata casa estera forse del Regno, Wonviller, ora Asselmeyer. In lana negoziavano Porzio, Langensee, Buonanno, ed un tempo pure i fratelli Buono; Cosenza, Giovanni Porzio, ed altri parecchi tessitori del Salernitano, depositavano ne’ magazzini della vecchia Napoli, dove maggiore era il concorso de* compratori dei vicini paesi, i tessuti più adatti ai loro bisogni ed alle non raffinate esigenze del mercato. Flescher forniva i legnami provenienti dal Nord, usati specialmente per antenne alle navi; ed insieme a questo, era reputato buon commercio quello del legno da ebanista. Tali commerci, insieme a quelli della canapa, del lino, della robbia, allora si ricercata, erano appoggiati a tradizione antica, con clientela fatta fra grossisti, gente sobria e di spirito acuto, che traeva gran profitto del suo capitale, con la vendita al minuto.
Erano ultimi i tradizionali mercatanti, che ingombravano le straduccie della Napoli d’altro tempo e specialmente i quartieri di Porto, di Pendino e di Mercato, con le caratteristiche botteghe, povere di reclame e di luce, ma ricche di merce e di quattrini contanti. Era celebre la via dei Mercanti, fra Porto e Pendino, ora mezzo distrutta dai lavori del Risanamento. Cosi, essendo vari i canali, per i quali si dispensava il credito e lento, ma sicuro, il modo del suo sviluppo, pochi erano gli sbalzi, difficili le crisi, quando non le provocava un decreto del principe, il che non accadeva facilmente. Basta ricordare il commercio delle cuoia. Si compravano all’estero, e si rivendevano ad otto mesi di termine, nè erano rari i contratti ad un anno, o a diciotto mesi. Alcuni rammentano ancora la vecchia ditta Tramontano. Sulla porta della bottega, modesto e tranquillo, il capo della ditta trattava i suoi affari. Pronto all’inchino, appena si vedeva dinanzi un negoziante straniero, acquistava tutta la sua fierezza di mercante, quando era innanzi alla sua Madonna del Carmine, tempestata di ricche gemme, protettrice del negozio e guardiana della cassa di legno, larga quanto un grosso letto di stile spagnuolo. Non firmava mai promesse di pagamento. Per quei vecchi era vergogna rilasciar cambiali; e dalla sua cassa pagava invece in oro, in argento o in fedi di credito, cento e anche dugento mila ducati all’occorrenza.
Note
- ↑ A Napoli, nel linguaggio dialettale, per dare maggiore importanza alla proprietà edilizia, si suole far precedere la parola palazzo alla parola casa, per far meglio intendere che il palazzo contiene parecchie case, ed è tutto posseduto da un proprietario: al contrario di chi possiede, in un palazzo, un quartiere o quartierino, o piano, o bottega di esso.
- ↑ Col nuovo ordinamento del ministro Sonnino, a parecchi di questi mali si portò rimedio, abolendo censori e consiglieri di amministrazione presso le sedi, riducendo il numero dei consiglieri, rendendo questi ufficii interamente gratuiti; e con l’ultima riforma si fece ancora meglio, iniziando la liquidazione del credito fondiario e riducendo l’interesse delle cartelle, mettendo a profitto una parte delle riserve, diminuendo lo stipendio degl’impiegati e dando al Banco un direttore, quale forse non ebbe mai: un uomo come Niccola Miraglia, il quale salverà l’Istituto, se gliene lasceranno il tempo