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I poeti canzonettisti dialettali più stimati e in maggior voga erano Domenico Bolognese, Michelangelo Tancredi ed Ernesto del Preite. Il maestro di musica più fecondo, più melodico e popolare era Pietro Labriola, già alunno del collegio di San Pietro a Majella e tenorino della cappella reale. Sposò la prima figlia del maestro Enrico Petrella ed oggi è povero, mentre altrove sarebbe divenuto milionario. Ogni canzone gli veniva dall’editore Giuseppe Fabricatore pagata appena dieci, dodici, o al più venti carlini. Raramente per qualcuna ne ebbe trenta. Non ostante la trascurata edizione del Fabricatore, quelle canzoni, quando incontravano il favore del pubblico, si vendevano a migliaja. Molte di esse, più popolari in quel tempo, resistono ancora, come I capille ’e Carolina, Tu me vuo’ bene, o no me vuo’ bene? Terè, Parlate a papà e si cantano da’ suonatori ambulanti a Posillipo. Aveva fama di buon compositore popolare anche il Valenza.

Tra i cantanti di quel tempo, il Levassor di Napoli, famosissimo e ricercato, fu il tipico don Ciccillo Cammarano, della famiglia dei Cammarano, artistica in ogni genere. Don Ciccillo faceva notoriamente la professione di impegnatore di gemme, di ori, di tela, di vestiarii ed era facoltoso. Aveva scarsa voce, ma conosceva bene la musica e sottolineava il canto con gusto squisito e grande comicità. Non volea canzoni comuni, ma solo quelle che erano musicate appositamente per lui, per lo più dal Valenza o dal fratello Luigi Cammarano, eccellente compositore. Era una ilarità generale a sentirlo cantare Lo ’mòriaco, ricavata dal bellissimo ditirambo del Piccinni, Lo cucchiere, Canta, cà, Le ffigliole ’nzocietà, e specialmente il Lazzarone, il Masto è scola e la Vajassa, composte appositamente per lui da Michelangelo Tancredi.

Nei salotti della piccola borghesia, se mancava il lusso, abbondava la bonarietà, quella bonarietà caratteristica napoletana, che diviene in breve familiarità e poi degenera in poco misurata confidenza. "Nuie simme gente ’e core„, dicevano i padroni di casa e soffocavano di premure e di profferte gli invitati, specialmente quelli che avevano una posizione superiore e dai quali potevano sperare qualche favore.

C’erano, nel carnevale, veglioni masqués al San Carlo e al Fondo, con i consueti intrighi e scherzi salaci. Una sera, in un