La fine di un Regno/Parte I/Capitolo V
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CAPITOLO V
Quando, con decreto del 16 febbraio 1862, Giustino Fortunato fu ritirato dalla carica di presidente del Consiglio dei ministri e di ministro degli affari esteri, per la pubblicazione delle lettere di Guglielmo Gladstone, gli successe nella presidenza del Consiglio don Ferdinando Troja e negli affari esteri, non un ministro, ma un direttore con portafoglio, don Luigi Carafa di Traetto. Il Troja non aveva portafoglio e il Carafa ne aveva l’“incarico provvisorio„ come si diceva allora, ciò che gli dava il diritto di prender parte al Consiglio dei ministri e ai Consigli di Stato: era ministro effettivo, ma senza il titolo e senza lo stipendio. Pietro d’Urso era ministro delle finanze; il maresciallo principe d’Ischitella, della guerra e marina; Giovanni Cassisi, degli affari di Sicilia e il brigadiere Raffaele Carrascosa era anch’egli ministro senza portafoglio. Gli altri dicasteri non avevano ministri, ma direttori con referenda e firma, i quali, secondo il sovrano regolamento del 4 giugno 1822, facevano parte del Consiglio dei ministri e del Consiglio di Stato. Erano direttori: Murena, dei lavori pubblici; Scorza, degli affari ecclesiastici e dell’istruzione pubblica; Mazza, della polizia generale; Pionati, di grazia e giustizia e Bianchini, dell’interno. I pochi ministri titolari erano distinti fra ministri con cartiera e ministri senza cartiera. Cosi il Troja e il Carrascosa, non avendo portafoglio, non avevano cartiera e Carafa era dispensato dal dovere di riferire e conferire in Consiglio di ministri, sulla politica e sulla corrispondenza diplomatica, dovendo solo renderne conto personalmente al Re. Anche al ministro di polizia era concessa questa esenzione, ma per quei casi soltanto, nei quali era necessario conservarsi il segreto con gli stessi ministri segretari di Stato. Solo col presidente del Consiglio il ministro di polizia non doveva aver segreti. Nel Consiglio dei ministri si preparavano tutti gli affari che avevano bisogno della sovrana risoluzione; e poichè non vi era quasi affare che di tale risoluzione non avesse bisogno, ne seguiva che si trattavano le cose più piccine ed inconcludenti, come, ad esempio, la istituzione di una fiera o la promozione di classe di un pretore, che si chiamava "giudice regio„, od altre simili quisquilie. La sovrana risoluzione era data dal Re in Consiglio di Stato, che era il Consiglio dei ministri, preseduto da lui; e, in sua assenza, dal principe ereditario che del Consiglio di Stato faceva parte. Ma i Consigli erano, tranne rari casi, preseduti sempre dal Re, che li convocava ordinariamente a Caserta; di rado a Napoli, dove stette poco negli ultimi anni; spesso a Gaeta; e, qualche volta, ad Ischia o a Portici.
Presidente del Consiglio dei ministri era, dunque, Ferdinando Troja; e segretario, detto "incaricato del protocollo„, il colonnello d’artiglieria Francesco d'Agostino. Dopo il congedo dato nel 1852 a Leopoldo Corsi, che dal 1841 cumulava tale ufficio con quello di segretario particolare del Re, ed era per ciò ritenuto il suddito di maggior potere in tutto il Regno, Ferdinando separò i due ufficii, conferendo quello d’incaricato del protocollo al colonnello D’Agostino e nominando capo della sua segreteria particolare il maggiore d’artiglieria, Agostino Severino, tuttochè lo ritenesse incapace non solo di scrivere, ma di copiare una lettera. Del Corsi non volle più saperne, per quante vie costui tentasse di tornare nelle grazie del Re, del cui cuore pareva che avesse tenuto, per undici anni, ambo le chiavi. Pareva, perchè di quel Federigo nessuno fu mai il Pier delle Vigne. Al Corsi, Ferdinando II usò lo stesso trattamento che aveva usato all’abate Giuseppe Caprioli, suo segretario particolare dal giorno in cui ascese al trono. Nella questione per gli zolfi di Sicilia, caddero in disgrazia il principe di Cassaro, ministro degli affari esteri, e il Caprioli. Questi fu nominato vicepresidente della Consulta e tenne l’ufficio sino al 1848, quando venne collocato in riposo. Il Re non si ricordò più di lui, che si spense a Portici nella più assoluta oscurità. Al Corsi usò soltanto la misericordia di firmargli un decreto, che portava la urbana formola: è promosso a consultore di Stato, mentre col Fortunato fu inesorabile, anche per la forma del decreto, più su riportata. Ricordando le origini giacobine di lui, lo sospettò persino capace di aver tenuto mano alla pubblicazione del Gladstone, tanto gli pareva inverosimile, dopo le confessioni del principe di Castelcicala, che fosse stato così balordo. Congedò il Corsi dopo una tremenda ammonizione che lo fece piangere a singhiozzi, e rifiutò di ricevere il Fortunato, nè volle più vederli.
Ferdinando Troja era fratello di Carlo, il celebre storico dei Longobardi, che fu presidente del ministero del 3 aprile, caduto il 15 maggio. Questi fratelli avevano indole affatto diversa e studii diversissimi. Ferdinando era ben infarinato di latino e di giurisprudenza e aveva fama di buon magistrato; non credeva a libertà e a progresso; assolutista e municipale, reputava per lui un dovere servire il Sovrano senza discutere, e anzi senza farsi lecito di pensare neanche. Parlava ordinariamente il dialetto, e chiacchierando aveva per intercalare: vuie che dicite? Per lui il mondo si era fermato al 1789, e il Regno delle Due Sicilie non era compreso nell’Italia. Scaltro e forse scettico in fondo, il Troja copriva la scaltrezza con un manto d’ipocrisia untuosa; onde, avendo anche l’abitudine di tenere il capo sempre chino a sinistra, il Re lo chiamava Sant’Alfonso alla smerza, cioè Sant’Alfonso alla rovescia, perchè Sant’Alfonso de’ Liguori, del quale il Re era devotissimo, è dipinto con la testa inclinata sulla spalla destra. Il Troja era ritenuto uomo senza cuore. Ammalatosi di mal di pietra e curato dal chirurgo Leopoldo Chiari, ispirò al marchese di Caccavone questo spietato epigramma:
Soffre di pietra, spasima |
Ferdinando Troja era ministro dall’agosto del 1849, cioè dall’inizio della reazione, quando Ferdinando II, licenziati il principe di Cariati, Bozzelli, Ruggiero, Gigli e Torella, ultime larve di ministri costituzionali, nominò, in loro vece, degli assolutisti senza paura, come il Fortunato, il Longobardi e il Peccheneda, che fu promosso da prefetto a direttore di polizia. Ritenne del ministero Cariati i due militari, Ischitella e Carrascosa, che troviamo al loro posto negli anni dei quali discorro. Allora ministri e direttori duravano quasi a vita. Senza l’incidente di Gladstone. Fortunato sarebbe rimasto, chi sa per quanti anni, presidente del Consiglio e ministro degli esteri, perchè il Re amava poco di vedere facce nuove. La indifferenza più apatica fu la caratteristica di quasi tutti quei ministri e direttori, che governarono Napoli e le provincie negli ultimi dieci anni. Alcuni, pur sapendo che il Re diffidava di loro, non sentivano il dovere di andarsene; anzi rimanevano, lasciando andare le cose per la loro china. Erano in maggior numero i direttori che non i ministri, perchè, sia che la dignità ministeriale gli desse fastidio, sia che lo movesse spirito di economia, Ferdinando preferiva i direttori ai ministri; a lui pareva di averli più soggetti e li pagava meno. Un direttore prendeva 160 ducati il mese e un ministro 500. Un solo de’ primi ebbe la fortuna di diventare ministro, nel febbraio del 1856, e fu il Murena. Nè il Peccheneda, che molto ci teneva, ottenne mai quel posto; nè il mite Bianchini, neppur dopo che successe al Mazza e cumulò, sino alla morte di Ferdinando II, le due direzioni dell’interno e della polizia.
Era sindaco di Napoli, dal primo gennaio 1848, don Antonio Carafa di Noja, che il Re chiamava, per celia, Torquato Tasso, perchè era forse il solo in tutto il Regno, al quale fosse concesso di portare baffi e pizzo, anzi mustacchi e mosca, come si diceva allora. Napoli aveva trenta Decurioni di nomina regia, dodici Eletti, quanti erano i quartieri della città, e ventisette Aggiunti, dei quali ventiquattro per i quartieri e tre per i villaggi. Al Decurionato, detto anche "Corpo di città„, apparteneva di provvedere alla polizia annonaria, alla costruzione e manutenzione delle strade interne ed alla ispezione sulla vendita dei generi soggetti ai regolamenti di annona. Gli Eletti esercitavano nei quartieri le incombenze di ufficiali dello stato civile. Erano chiamati comunemente "cavalieri„ e stavano alla immediata dipendenza del sindaco. Della povera vita municipale di allora ampiamente discorrerò in altro capitolo. Il vero sindaco era il Re, cui nulla importava di bonificamento e risanamento della città, e soprattutto dei bassi quartieri, oh quanto più luridi e malsani che non siano oggi! Di opere pubbliche importanti, compiute da Ferdinando II nella città, non sono da ricordare che la livellazione e il nuovo lastricato di Toledo, che fu finito di costruire nel giugno del 1853, con i marciapiedi e le colonne del gaz, e l’inizio del corso Maria Teresa, ora Vittorio Emanuele. Tranne Toledo, Chiaia e Foria, illuminate a gaz, tutta la città era illuminata ad olio; le lampade scarse e le strade buie, paurose e pericolose. Toledo fu per varii anni un saliscendi. Tre grandi chiaviche si aprivano, una innanzi alla Corsea, l’altra dov’è ora il Gambrinus, a due passi dalla Reggia, un’altra, più grande ancora, al largo della Pignasecca. Foria, per gli acquazzoni non infrequenti di primavera e di autunno, diveniva un torrente impetuoso, che travolgeva persone e bestie, ed era chiamato "lava dei Vergini„ perchè l’acqua veniva giù da quelle colline. Al Re bastò aver consigliato il sindaco a collocare sulla strada un ponte mobile di ferro e uno di legno per passare da una parte all’altra, quando infuriava la piena; e così restarono le cose sino al 1859. Nè fu prima degli albori del nuovo Regno, che furono gettati due ponti nuovi in ferro, ma l’incanalamento non venne compiuto prima del 1869, sotto il sindacato di Guglielmo Capitelli. Le attribuzioni del Decurionato erano determinate dalla legge del 12 dicembre 1816 e dal decreto 22 marzo 1839. La città era un letamaio; e quando fu visitata dal colera, non soltanto la popolazione, ma il Re riteneva non essere il morbo alimentato dal luridume, ma da contagi misteriosi. Ferdinando II aveva comuni con la parte infima del suo popolo i pregiudizii e le paure. In tempo di epidemie, egli colla Corte si rifugiava a Caserta, o si chiudeva a Gaeta, avendo un vivace sentimento di disprezzo per Napoli, che chiamava casalone ed abbandonava a se stessa.
Ricordo fra i Decurioni di quegli anni: Francesco Spinelli, che poi fu sindaco nei nuovi tempi e senatore del Regno; Michele Praus, che fa deputato di sinistra; il barone Carlo Tortora Brayda, insigne magistrato; il principe di Castagneta, Nicola Caracciolo, padre di Gaetano, senatore del Regno; i celebri medici Rosati e Ramaglia; l’ingegnere Maiuri, uomo di molto valore tecnico; don Antonio Fabiani, avvocato, professore di procedura civile e suocero di Agostino Magliani. Era Eletto a San Ferdinando Michele Gaetani d’Aragona, il quale più tardi fu sottointendente, e nel 1860 era a Formia, non essendo raro il caso che gli Eletti fossero chiamati a più alti ufficii amministrativi. Il sindaco e gli Eletti, non il sindaco e i Decurioni, formavano l’"Eccellentissimo Corpo della città di Napoli„. Anche Francesco Dentice d’Accadia, Eletto al quartiere Stella, divenne più tardi sottointendente, e lo era divenuto qualche anno prima il principe di Acquaviva, che nel 1856 successe a Giuseppe Colucci a Città Ducale.1
Sindaco, Decurioni, Eletti ed Aggiunti venivano nominati dal Re ed erano persone di molta probità e nobili quasi tutti; oggi sono invece innalzati dal suffragio popolare, coadiuvato dalle trappolerie dell’urna. Allora, sia detto per la verità, in essi non c’era secondo fine, ma facevano anche meno; o meglio, non prestavano quasi altra opera, che quella di ufficiali dello stato civile.
Intendente della provincia di Napoli era don Carlo Cianciulli, che il Re soprannominava 'o trommone dell’acquaiuolo,2 perchè dondolava costantemente la testa. L’Intendenza, ora Prefettura, aveva sede a Monteoliveto. Era segretario generale Carlo Colombo, e v’erano dieci consiglieri d’Intendenza, dei quali, quattro titolari e sei soprannumeri. L’intendente non aveva che uffizio amministrativo, nè si mescolava di politica, essendovi per la politica un ministero di polizia, con la prefettura di polizia, affidata quasi sempre a un alto magistrato. In quegli anni vi ere preposto Pasquale Governa, col segretario generale Silvestri; poco prima l’aveva tenuta il Sarlo. Il ministero di polizia aveva quattro ripartimenti ben distinti; e la prefettura tre, con uno sciame di commissarii, ispettori, ispettori-aggiunti e cancellieri.
Dei birri di più sinistra fama, il Morbilli, un nipote del quale era morto il 15 maggio sulle barricate combattendo contro gli Svizzeri, era commissario a Montecalvario; De Spagnolis, all’Avvocata; Campagna, al Mercato e a Porto; Lubrano, alla Vicaria; Condò, a San Ferdinando. Il Morbilli e il Campagna, celebri entrambi ed entrambi calabresi, erano più temuti. L’uno e l’altro erano, come si diceva allora, commissarii di primo rango e onnipotenti nel proprio quartiere. Rileggendo, dopo tanti anni, le attribuzioni della polizia nell’ultimo decennio borbonico, non si può non riconoscere la verità di quanto fu asserito, essere la polizia la maggiore e più potente istituzione del Regno. Gli scavi di antichità, le bande musicali, il corso pubblico, le strade ferrate, il censimento, l’archivio, il telegrafo, il giornale ufficiale, il contrabbando, l’introduzione dei cavalli dall’estero, gli studenti, le scuole e la posta, per quanto concerneva vigilanza e spionaggio, il riconoscimento dei diplomatici e degli agenti consolari, le reali riserve, le guardie d’onore, le prigioni e perfino le farmacie dipendevano dalla polizia. Essa era tutto, e però non è punto maraviglia se degenerasse malamente in una fonte di abusi e di violenze, fra popolazioni paurose e fantastiche. La polizia era la sola amministrazione dello Stato, i cui capi esercitassero l’ufficio loro con passione. Essa aveva la coscienza di essere superiore alle leggi e la sicurezza di godere la protezione del Re; e perciò non temeva nulla, ed era stranamente temuta, anche nelle alte sfere della Corte e del Governo. I commissarii, che ho nominati, erano fra i più capaci; ma il Campagna che faceva tremare la gente, si riconosceva inferiore al Morbilli, al duca, com’egli diceva, perchè il Morbilli apparteneva a famiglia ducale. Erano questi agenti così infatuati del loro potere, che davvero è da ringraziare Dio che non facessero di peggio. Ma bisogna pur dire, in omaggio alla verità, che sul conto del Morbilli, del Campagna e di qualche altro, tra i più famigerati, non si disse mai che prendessero danaro per chiudere un occhio nell’esercizio del loro ufficio; più realisti del Re, ignorantissimi e volgarissimi, vedevano un pericolo politico in ogni fatto insignificante; odiavano i liberali, perchè nemici del Re e giustificavano ogni iniquità contro di loro, come compimento di dovere. " Quando sono entrato in carriera, diceva un giorno il Campagna a Tommaso Sorrentino, già deputato, prendevo dieciassette ducati al mese; ora il Re me ne dà più di cento, e lo devo ai liberali; e se non staranno tranquilli, io li perseguiterò a morte, e il Re mi accrescerà la paga„.
Pensiero plebeo, ma che confermava quanto ho detto: a difesa del Re tutto esser lecito, nulla trascurabile. Eppure, nonostante tanto eccesso di potere, la polizia borbonica in quegli anni che furono i maggiori della sua potenza, si rivelò, come polizia politica, inferiore alla sua fama: era in sostanza polizia più vessatrice che abile. Alcune settimane prima dello sbarco di Sapri, Pisacane potè venire a Napoli, prendere accordi coi suoi amici e ripartire per Genova; Agesilao Milano potè entrare nell’esercito in cambio di suo fratello, pur avendo combattuto nelle bande insurrezionali calabresi il 1848; nè la polizia riusci ad arrestare i due che riteneva suoi complici, e molto meno a scoprire gli audaci, che affissero alle cantonate di Toledo un preteso decreto sovrano, che concedeva la Costituzione e accordava piena amnistia ai detenuti politici. Per quanto le cospirazioni politiche fossero inconcludenti, si cospirava; le relazioni fra i liberali e i condannati chiusi a Santo Stefano, a Procida e a Montesarchio e gli emigrati in Piemonte non furono mai interrotte; e nonostante la ridicola sorveglianza sui libri proibiti, questi, con mille astuzie, entravano nel Regno. Se alcuni capi della polizia non si vendevano, gli agenti minori erano però uno sciame di ladroni, e perciò lo zelo dei capi perdeva efficacia, sempre che, per tradursi in atto, occorreva l’opera dei subalterni.
Anche sulla polizia borbonica si fece il romanzo. Come emanazione di governo assoluto, che aveva paura dell’ombra sua, in un paese eccitabile e ciarliero, nel quale le classi infime erano abbandonate ai loro peggiori istinti, e le classi dirigenti, poche eccezioni a parte, erano presso che prive di equilibrio morale; e con a capo un Re, come Ferdinando II, bizzarra contradizione di paura e di coraggio, di tristizia e di bonarietà, napoletano in tutta l’estensione della parola, la polizia concorreva a peggiorare l’ambiente, dal quale era essa medesima resa più triste e corrotta.
C’era poi un commissariato di polizia addetto al ministero, avente a capo il Maddaloni, che aveva grado, soldo ed onori di giudice di Gran Corte Civile. Senza tener conto dei bassi agenti, detti feroci, la città di Napoli contava essa sola, in quegli anni, più di dugento fra commissarii, ispettori, vice-ispettori e cancellieri, non calcolando gl’impiegati del ministero e della prefettura, nè gli agenti dei tre circondarli. Antonio Scialoja, confrontando i bilanci napoletani coi piemontesi, rilevò che, nonostante le cifre minori iscritte in bilancio, la polizia della sola città di Napoli e casali costava all’erario circa 100 000 ducati, somma ben considerevole allora; nè alcuno dei tanti, che scesero in campo a confutarlo, potè mettere in dubbio l’esattezza di tale affermazione. Naturalmente, nei centomila ducati erano comprese le così dette spese segrete per lo spionaggio in ogni classe sociale, specie nella borghesia e fra gli studenti.
Con reale decreto del 23 dicembre 1852, la regia Università degli studii di Napoli fu messa sotto la speciale protezione di San Tommaso d’Aquino, e venne parimente disposto che i suoi professori titolari, non meno che il presidente e i membri del Consiglio generale di pubblica istruzione, dovessero portare sospesa al collo, a guisa di onorificenza, una medaglia dorata sormontata dalla reale corona, avente da una parte l’effigie del santo protettore con l’epigrafe: Divus Thomas Aquinas Regiae Neapolitanae Universitatis professor et patronus, e dall’altra, l’epigrafe: Ferdinandus II Rex P. F. bonarum artium stator. Il nastro di color celeste, simbolo dell’Immacolata, alla quale era sacra la chiesa dell’Università, aveva diverse dimensioni, secondo che serviva per il presidente del Consiglio di pubblica istruzione o per i semplici consiglieri, per il rettore o per i professori.
Era rettore dell’Università don Mario Giardini, professore di fisica sperimentale. Sei le facoltà: teologia, matematica, scienze naturali, giurisprudenza, belle lettere e filosofìa, e medicina. Se abbondavano gl’insegnanti mediocri ed oscuri, non mancavano scienziati di gran valore e alcuni di fama europea. Niccola Nicolini, presidente della Corte Suprema, insegnava diritto e procedura criminale; Michele Tenore, botanica; Luigi Palmieri, logica e metafisica; Filippo Carrillo, leggi civili; Placido de Luca, economia pubblica (la parola politica venne mutata in pubblica); Michele Zannotti, meccanica razionale; Niccola Trudi, calcolo sublime; Annibale de Gasperis, astronomia e geodesia; Arcangelo Scacchi, geognosia; Felice de Renzis, oftalmiatria; Gaetano Lucarelli, fisiologia, e Giuseppe Moyne dirigeva la clinica oftalmica. Professori emeriti, Paolo Tucci e Vincenzo Flauti nella facoltà matematica, e don Franco Rosati in quella di medicina.
Filippo Carrillo, che era anche consultore di Stato, ebbe una moglie col nomignolo di Donna Ciomma, cioè " Donna Girolama„ , la quale salì a grande notorietà, insieme al marito, per avere ostentata, dopo il 1849, gran devozione alla dinastia e raccolte molte firme alla supplica per l’abolizione dello Statuto. Fu in quel tempo, che avendo il Carrillo fatto apporre sull’entrata principale di una sua villa in Portici l’emblema d’una pigna, venne fuori questo epigramma, attribuito anch’esso al Caccavone:
Questa pigna sul portone |
Filippo Carrillo mori nel 1855, e l’anno dopo gli successe nell’insegnamento delle leggi civili don Giuseppe Testa, anzi don Peppe Testa, che veniva da Chieti, nel cui liceo era professore di diritto. Chi della mia generazione non ha conosciuto e non ricorda questo tipo caratteristico di giurista eminente, rimasto chietino nel discorrere, negletto negli abiti e nel patriarcale costume? Chi non ricorda quell’alta, rosea e tabaccosa figura, che portava guanti neri, divenuti, per il lungo uso e per la larghezza della misura, come egli li chiamava, cauzarielli?3 Montando sulla cattedra se li cavava; e, finita la lezione, li rimetteva, senza muover le dita, nè aveva bisogno di adoperar una mano per distendere il guanto sull’altra. La cattedra del Testa fu sempre tra le più affollate. Il professore parlava con la nasale e lamentosa cadenza abruzzese, ma quanta chiarezza e dottrina in quelle lezioni! Gli successe, dopo il 1870, il suo più valoroso discepolo, Diego Colamarino, altro tipo caratteristico, morto non ancora cinquantenne; e quella cattedra, illustrata dal Testa e dal Carrillo, fu poi degnamente occupata da Emanuele Gianturco.
L’Università era per altro deserta, anche prima del 1848. Gli studii privati, tenuti da uomini insigni, raccoglievano allora tutta la gioventù, e primeggiavano quelli di Roberto Savarese, che insegnava diritto romano, diritto e procedura civile; di Luigi Palmieri che insegnava, ad un tempo, chimica sperimentale, filosofia e diritto di natura; di Giuseppe Pisanelli che dettava diritto penale; di don Carlo Cucca, ritenuto somma autorità in diritto canonico. Lo studio di Paolo Tucci e di Salvatore de Angelis, che insegnavano matematiche elementari e sublimi, era frequentato da centinaia di giovani; e così pure quelli di Francesco de Sanctis e di Leopoldo Rodinò, succeduti, nell’insegnamento delle lettere italiane, al benemerito marchese Puoti; e quello dell’ abate Antonio Mirabelli, professore di lettere latine. L’insegnamento universitario era tradizionalmente formale, e lo divenne ancora di più dopo il 1848, per gli eccessi della polizia e le restrizioni del governo. All’Università si facevano gli esami pubblici, ma senza pubblico; e, andati in esilio Savarese, Pisanelli e De Sanctis, gli studii privati non rifiorirono che nel 1859, come sarà appresso notato, e fu l’ultima rifioritura. La nuova Università doveva ammazzare gli studii privati, con quanto maggior profitto della scienza, si è veduto e si vede.
Il numero degli studenti non arrivava al quinto di quello che è oggi, sebbene l’Università di Napoli fosse unica nei reali dominii di qua dal Faro. In quel tempo non vi era iscrizione, e perciò non è possibile una statistica esatta, ma solo approssimativa. Per gli anni 1852-53-54 ho potuto raccogliere le cifre degli studenti, che presero laurea o licenza nelle varie facoltà. Nel 1852 furono rilasciate 1022 cedole in belle lettere; nel 1853 1085, e 904 nel 1854. Negli stessi anni, nella facoltà di legge vi furono, complessivamente, 2433 fra lauree e licenze per notai; nella facoltà di medicina, 1927, fra lauree e licenze per levatrici e flebotomi; e nella facoltà di matematica 698, tra architetti e agrimensori, mentre le cedole di farmacia furono 692. Notevole è il confronto di queste cifre con quelle di oggi. Nè coloro che ottennero lauree, licenze e cedole frequentavano l’Università, poichè, non essendovi iscrizione obbligatoria, come ho detto, la frequenza ai corsi era perfettamente libera. L’insegnamento universitario fu negli ultimi anni, soprattutto per alcune materie, un beneficio semplice per molti professori che non facevano lezioni. Le tasse scolastiche erano minime, in confronto delle presenti, e si pagavano solo per la cedola e per la laurea; mentre se questa non era spedita, non si pagava niente.
A mantenere limitato il numero degli studenti contribuivano, oltre la difficoltà dei mezzi di comunicazione tra Napoli e le Provincie, le vessazioni della polizia, la quale, non contenta di seccarli in tutti i modi, ne ordinava, di tanto in tanto, lo sfratto per timori immaginarii. Erano anzi gli studenti una miniera per la bassa polizia, e le astuzie, alle quali ricorrevano per non essere molestati, meriterebbero una storia umoristica. Non esisteva alcuna garanzia per loro, quando non potevano disporre di danaro o d’influenze. Dovevano essere tutti provveduti della "carta di soggiorno„ che si rinnovava ogni mese, a libito della polizia, mercè regali e mancie, e dovevano essere ascritti alla congregazione di spirito e frequentarla tutte le domeniche, ascoltare la messa e la predica, cantar l’ufficio e confessarsi. Oltre alla congregazione di spirito dell’Università, di cui era prefetto il prete don Antonio d’Amelio, vi era quella di San Domenico Soriano, diretta dal prete don Gennaro Alfano, alla quale erano iscritti più di 500 giovani. Senza il certificato di aver assistito a quelle congregazioni, non si era ammessi agli esami, e si può bene immaginare quante mance, burle e astuzie si adoperassero per ottenere il certificato, senz’assistervi. La polizia teneva d’occhio le case e i caffè degli studenti più in vista. Frequentissime le perquisizioni; e guai se si trovava qualche libro, sul cui frontispizio fosse stampata la parola politica. I nomi di certi autori portavano dritto dritto all’arresto: così Machiavelli, Botta, Giannone, Colletta, Leopardi, Gioberti, Massari, Berchet, Giusti, fra i principali. Quando fu pubblicato il Rinnovamento, parecchi studenti riuscirono ad averne una copia, e per leggerla si riunivano alla chetichella ora in una, ora in altra casa. Una sera, mentre alcuni di loro, in casa di Tommaso Arabia, leggevano questo libro, alcuni agenti e un cancelliere li sorpresero. Fu buttato il libro nel pozzo; e preso un mazzo di carte, gli adunati si disposero in giro ad una tavola, facendo vista di giuocare. Ma non valse quest’astuzia, perchè i feroci, dopo averli maltrattati con villane parole, li trassero in arresto, come colpevoli di giuochi proibiti. Gli studenti ricchi, pochi; ma anche quelli, che appartenevano a famiglie facoltose, erano tenuti a stecchetta. Uno studente ben provvisto veniva segnato a dito fra i compagni. E però vivevano in tre o in quattro, conterranei, comprovinciali o parenti, occupando camere o quartierini della vecchia Napoli, o nel quartiere di Montecalvario, agli ultimi piani. Il letto, una tavola da studio, un cassettone e qualche sedia: ecco la suppellettile che lo studente portava dal paese nativo; e perciò, quando avvenivano gli sfratti, era caratteristico vedere, al Molo, montagne di materassi che si caricavano sul vapore in partenza per Pizzo, perchè erano i calabresi quasi sempre primi ad essere sfrattati. Altri abitavano, come si diceva, in famiglia, cioè erano dozzinanti presso famiglie d’impiegati, di pensionati, di piccoli professionisti, di commessi di negozio; e la padrona di casa, se non proprio vecchia, finiva per essere l’amante di uno dei suoi giovani inquilini; e se aveva figliuole, erano amori, promesse, giuramenti, scene clamorose di gelosia, e . . . . frittata finale. Lo studente, tornando in provincia, narrava con compiacenza i suoi amori di Napoli, e quasi sempre esagerava, lasciando credere più di quanto realmente fosse. Molte volte c’entravano la polizia e il curato, e allora la faccenda finiva con un matrimonio imposto, o con quattrini pagati a titolo .... d’indennizzo.
Anche ai miei tempi, studente era per i napoletani qualità dispregiativa e voleva dire zotico, sfrontato, spiantato, arruzzuto. Gli studenti, in genere, erano detti calavrisi, perchè, cosa davvero strana, i provinciali meno riducibili e più temuti dalla polizia, erano, non i pugliesi o gli abruzzesi, ma quelli di Calabria; e difatti quei giovani, i quali scendevano dalle native montagne del Cosentino e del Catanzarese, erano i meno atti a rifarsi nelle apparenze e nelle abitudini, al contrario dei giovani di Puglia, per i quali, appena giunti a Napoli, il sarto e il barbiere erano la principal cura. Gli studenti più poveri, e ve n’erano di quelli che ricevevano dalle famiglie non più di sette o otto ducati al mese, pranzavano in piccole osterie della vecchia Napoli, con pochi grani al giorno. Era celebre, e tuttora esiste, l’osteria di monzù Testa, in via dei Tribunali. E vi erano bettole ancora più economiche, dove la sera si poteva sfamarsi con pizze, castagne e olive. Oggi uno studente non costa alla sua famiglia meno di 150 lire al mese; ha la sua camera mobiliata, pranza al restaurant o alla pensione, ed è generalmente un politicante fastidioso, il quale non ha paura di nessuno, essendo convinto che con la violenza riesce a farsi nome e a bucare leggi e regolamenti scolastici. Allora, ruvidi e poveri, avevano elevate idealità, che li rendevano simpatici, nè a torto la polizia li temeva; oggi, coi loro eccessi calcolati e le tendenze realistiche, delle quali menano vanto, riescono, tutto compreso, un tipo antipatico. A11ora riportavano da Napoli la goffaggine partenopea del dialetto e degli scherzi; oggi vi aggiungono le perfezionate trappolerie elettorali, le ambizioncelle precoci e le amicizie coi peggiori giornalisti.
L’autorità vedeva di mal occhio l’agglomerarsi degli studenti in Napoli, e perciò non erano tollerati che quelli già muniti della licenza professionale, che si otteneva nei licei di provincia. A Napoli bisognava rimanere il tempo strettamente necessario per dare gli esami di laurea; anzi non si rilasciavano passaporti negli ultimi anni a studenti privi della licenza professionale. Però si trovava modo d’aggiustar tutto con pecunia e neppur molta. Non era permesso venire dalla Sicilia a studiare in Napoli. Se di qua dal Faro non v’erano altre Università, presso i principali licei delle provincie esistevano cattedre di diritto e procedura civile, di diritto e procedura penale, di diritto romano, di anatomia e fisiologia, di chirurgia teorica e pratica, di medicina pratica, di chimica farmaceutica e di storia naturale; e in qualcuno, come in Aquila, di medicina legale e materia medica, di mineralogia e geologia. I reali licei o collegi, avevano un convitto, diretto dai gesuiti o dagli scolopii, i quali insegnavano generalmente lettere, filosofia, scienze fisiche e matematiche. Gli altri professori erano laici. Cosi, a Lecce insegnava diritto ei procedura civile, don Vitantonio Pizzolante, che fu deputato di Manduria nel 1876; Luigi Grimaldi, padre di Bernardino, insegnava nel liceo di Catanzaro le stesse materie, nonchè il diritto romano; e Francesco Fiorentino, giovanotto a ventiquattro anni, aveva già acquistato tal nome negli studii teologici e filosofici, che dava private lezioni di teologia ai giovani padri scolopii del liceo di Catanzaro, e di filosofia del diritto a una numerosa studentesca laica, e teneva aperti su di lui gli occhi della polizia, che lo vigilava senza tregua, finchè un giorno l’esiliò addirittura a Monteleone. I licei, con gl’insegnamenti più completi, erano quelli di Salerno, Bari, Catanzaro e Aquila.
Il collegio di Chieti era diretto dai padri delle scuole pie, ed ebbe insegnanti valorosi, tra i quali, nelle scuole universitarie, il Testa, finchè non fu chiamato a Napoli, e quel canonico De Giacomo, professore di diritto romano che, concorrendo più tardi, alla stessa cattedra nell’Università di Napoli, maravigliò esaminatori e uditori, parlando con mirabile facondia due ore di fila in latino e citando a memoria lunghi brani di Papiniano e Giustiniano, Era soprannominato 'o prevetariello.4 Liberale fino al 1860, divenne poi intransigente e morì vescovo dei Marsi nel 1884. Vi insegnava pure diritto penale Niccola Melchiorre, che fu poi deputato di sinistra in varie legislature, e presidente per molti anni del Consiglio provinciale. Era il solo, che facesse lezione col cappello in testa, per cavarselo rispettosamente ogni volta che doveva nominare la Sacra Beai Maestà del Re. Il collegio di Chieti aveva in quel tempo un gran buon nome; vi furono educati, fra gli altri, Giulio de Petra e Filippo Masci, e vi ebbe dignità di priore il giovane Angelucci, che divenne medico valoroso e fu carissimo al De Meis. Io lo conobbi, molti anni dopo, in una condotta del comune di Umbertide in provincia di Perugia, e poi sanitario della casa penale di Solmona: uomo, per la cultura e l’animo, degno di miglior sorte. Anche il liceo di Catanzaro era affidato agli scolopii; quelli di Bari, di Salerno e di Reggio, ai gesuiti. Gli altri erano quasi tutti egualmente affidati a gesuiti e a scolopii, ma soltanto ai quattro su nominati venne data facoltà di conferire i primi gradi in legge, medicina, matematica e fisica, cioè la così detta licenza professionale, onde non v’era bisogno che gli studenti dei primi anni si recassero a Napoli. Era ciò molto economico per le famiglie. Nella smania demolitrice che seguì al 1860, quegl’insegnamenti si andarono via via abolendo, mentre assai miglior partito sarebbe stato perfezionarli e renderli completi, per non agglomerare tanta moltitudine di giovani a Napoli.
Accanto all’Università fioriva l’Almo Real Collegio dei Teologi, istituito da Ruggiero, onorato e privilegiato da Giovanna II e da Alfonso d’Aragona, ed arricchito di grazie da diversi Papi. Spettava ad esso conferire la laurea in teologia ed esaminare i libri che si davano alle stampe; ed erano i suoi membri consultati come teologi di Corte. Abolito nel 1812, rivisse nel 1821 e in parte riebbe gli antichi privilegi; ma il conferimento delle lauree, dopo che fu riordinata l’Università e istituita la facoltà teologica, venne delegato a questa facoltà con l’intervento di quattro maestri dell’Almo Collegio. Questo dava pure dei saggi con dissertazioni sopra i problemi religiosi, che l’eresia e l’ignoranza negavano o mettevano in dubbio. Primo maestro onorario, il Papa; primo maestro partecipante, l’arcivescovo di Napoli; decano perpetuo, monsignor Code; vicedecano, monsignor Salzano e maestri onorarli, i cardinali Macchi, D’Andrea, Cosenza, Cagiano e Antonelli.
Tutto il Collegio aveva 48 maestri, dei quali, 32 appartenevano al clero secolare e 16 al regolare, cioè 4 per ogni ordine mendicante, e perciò esclusi i gesuiti.
L’insegnamento elementare limitatissimo, così in Napoli, come nelle provincie. Fino al 1860, Napoli non ebbe che quattro scuole municipali gratuite e che scuole! Era preposto all’insegnamento elementare di tutto il Regno, don Giuseppe Turiello, un gran galantuomo, padre di Pasquale e fratello di Vincenzo, direttore dell’Omnibus. Come di questi due fratelli, uno si chiamasse Turiello e l’altro Torelli, sarà bene dirlo. Erano originarli di Basilicata e andarono a Napoli, giovanissimi. Un terzo fratello che si chiamava Aniello, trovando insopportabile la cacofonia del suo nome col cognome Turiello, cambiò questo in Torelli: sostituzione che Vincenzo accettò di buon grado, ma Giuseppe respinse, volendo rimanere Turiello. Egli si adoperava ad aumentare il numero delle scuole nelle provincie, ma trovava ostacoli insuperabili nei vescovi e nello stesso monsignor Apuzzo, il quale, al Turiello che un giorno gli ripeteva, con maggior calore del solito, le sue proposte, battendo amichevolmente con le mani sulle ginocchia, rispose: "Non tanta istruzione, non tanta istruzione, caro don Peppino„. Nè di minori sospetti erano circondati i rarissimi asili d’infanzia.
Presidente del Consiglio di pubblica istruzione era don Emilio Capomazza, consultore di Stato, uno dei tipi indimenticabili di quel tempo, perchè ad una vasta cultura canonica univa uno spirito volterriano, insofferente d’ogni inframmettenza del potere ecclesiastico nelle cose civili ed era giannonista implacabile. Avversava i gesuiti, e non erano infrequenti i conflitti con la Compagnia e coi suoi protettori, che avevano radici in Corte, non nell’animo del Re, il quale li temeva più che non li amasse e non poteva tollerarne l’invincibile tendenza all’intrigo politico.
Don Emilio, come il Re lo chiamava familiarmente, aveva abitudini curiose. Innanzi tutto, pur essendo molto ricco, era altrettanto avaro, ma d’una avarizia più stravagante che sordida. Se ai figliuoli lasciava mancare qualche volta il necessario, quando morì essi trovarono infilzate ad un uncino non so quante polizze dei suoi stipendi, le quali da anni non riscoteva. I figli e la moglie avevano per lui un sentimento di affetto misto a terrore. Abitava nel suo palazzo al vico Nilo; ma quasi ogni giorno, uscendo dall’ufficio, andava in un carrozzone caratteristico nell’altro suo palazzo all’Arco Mirelli, dove, vestito così com’era, prendeva una zappa e per alcune ore lavorava nel giardino. In quelle ore a tutti era vietato di entrare, ma gl’inquilini si divertivano un mondo, vedendo il vecchio consultore zappare la terra. La vita di Emilio Capomazza che morì molto vecchio, dopo il 1860, meriterebbe uno studio e sarebbe desiderabile che se ne occupasse qualcuno dei nipoti. Dei figliuoli, il maggiore fu Carlo, morto prima del padre, essendo consigliere di Corte d’appello. Se oggi fosse vivo, occuperebbe uno dei più alti posti in magistratura, tanto era egli stimato per la dottrina giuridica e l’anima di galantuomo. Carlo fu padre di Emilio, presente marchese di Campolattaro e già sindaco di Napoli, e di Guglielmo, che fu aiutante di bandiera di S. A. R. il duca degli Abruzzi.
Il nome del vecchio Capomazza si legge nell’ultima pagina di tutti i libri pubblicati a Napoli nell’ultimo decennio, perchè era attribuzione sua, quale presidente del Consiglio generale di pubblica istruzione, permetterne la stampa. La formula sacramentale del permesso era: Si permette che la suindicata opera si stampi; però non si pubblichi senza un secondo permesso, che non si darà, se prima lo stesso regio revisore non avrà attestato di aver riconosciuto essere l’impressione uniforme all’originale approvato. Questi permessi, oltre la firma del presidente Capomazza, portavano quella del segretario generale Pietrocola, membro del Consiglio con voto.
I revisori non avevano niente da fare col Consiglio. Formavano un corpo distinto ed erano quasi tutti ecclesiastici. Sette, i revisori di libri provenienti dall’estero, con sede presso la dogana; e ventuno, i revisori delle opere che si stampavano nel Regno. Fra questi, tre soli laici. Il romoroso e faceto monsignor Salzano n’era il presidente e il sacerdote don Leopoldo Ruggiero, il segretario. Il Ruggiero fu poi arcivescovo di Sorrento e morì nel 1885. Figuravano tra i componenti il canonico don Rosario Frungillo, che resse da vicario capitolare la diocesi di Napoli alla morte del cardinale Riario Sforza, ed è, credo, l’unico superstite. I tre laici erano Calandrelli, Delle Cbiaje e Placido de Luca. Il revisore presso l’officina delle poste si chiamava don Giuseppe Salvo, sacerdote. Il celebre e balbuziente don Gaetano Royer era anche prete, ma già pensionato negli anni dei quali parlo. Però restò viva per un pezzo la memoria di lui, sul cui conto se ne narravano delle belle. Nel 1848 il Mondo Vecchio e Mondo Nuovo lo chiamava don Gaetano ir e or, scomponendone il cognome; e fare l’irre e orre, nel linguaggio dialettale, vuol dire essere indeciso o esitante e, spesso, di malafede. Si ricordava fra gli altri il famoso aneddoto del "perniciotto„. Essendo il Royer revisore teatrale, doveva ogni giorno vistare il cartellone del teatro dei Fiorentini. Una sera si rappresentava una vecchia farsa, nella quale il brillante, entrando in una trattoria, domandava la carta e ordinava un "perniciotto arrosto„. Don Gaetano vistò il cartellone senza la menoma difficoltà, trattandosi di una produzione vecchia e nota; ma la sera di quel giorno, essendoglisi preparata una cena di magro, si ricordò che era venerdì e che in quella farsa il brillante domandava un cibo di grasso! Il pover’uomo prevedeva lo scandalo del pubblico, che avrebbe visto un attore sul palcoscenico mangiar di grasso in un giorno proibito! E senza perder tempo, si cacciò in testa il tricorno, corse trafelato al teatro, e varcata la porta del palcoscenico, cominciò, appena ebbe scorto l’impresario don Adamo Alberti, a balbettare più del solito, " Don don, don Adò .... do ... . don Adaàa .... pe ., .. pesce aa . . . . arro .... rosto, no ... . nooon pe . . . . perni .... niciotto arrosto„. L’Alberti capì subito e il temuto scandalo fa evitato.
Non si poteva pubblicare un sillabario o una grammatica senza il permesso del revisore, e non solo veniva proibita ogni frase, che potesse avere un’allusione politica, ma tutto ciò che si credeva immorale. I revisori non essendo moltissimi, per ottenere l’approvazione di un foglio di stampa spesso si doveva aspettare delle settimane, ed è facile immaginare le imprecazioni e le astuzie degli editori e degli autori.
Nel 1856 Tommaso Arabia aveva intrapresa la pubblicazione del teatro di Shakespeare, tradotto da Giulio Carcano. Era stato destinato a revisore dell’opera il canonico don Gaetano Barbati, un bravo uomo e dotto latinista, ma pieno di dubbii e di scrupoli. A don Gaetano venne in mente che fosse immorale la scena appassionata del primo atto della Giulietta e Romeo, e la cancellò addirittura quasi tutta. Arabia fece notare che quella soppressione, oltre che una irriverenza a così insigne autore, era in aperta contradizione con quanto aveva già fatto il revisore del Rusconi. Fu tempo perduto; e poichè non si aveva a chi ricorrere, Arabia fece di quel foglio di stampa una doppia edizione, una per il revisore, mutilata com’egli volle, e l’altra integra per gli associati, affrontando il pericolo, se la cosa fosse stata scoperta, di andare in carcere. Vi era poi un ufficio di revisione presso il ministero di polizia e un altro per la revisione delle opere teatrali. A don Gaetano Royer era succeduto per queste don Domenico Anselmi. Alla revisione presso il ministero di polizia era data facoltà di esaminare i giornali, nonchè le stampe che non oltrepassassero il numero di dieci fogli.
La Corte Suprema di giustizia aveva per presidente il sommo Niccola Nicolini, avo materno dell’ex guardasigilli Francesco Santamaria che allora s’iniziava nel fôro, con suo fratello Niccola e chiamato Cicciotto da parenti ed amici. Don Pasquale Jannaccone e il marchese Brancia, padre di Carlo, morto consigliere di Cassazione nel 1896, n’erano i vice-presidenti; e avvocato generale, don Stanislao Falconi, di Capracotta, zio del presente sottosegretario di stato della giustizia e fratello di monsignor Falconi. Era il Falconi ritenuto giurista di valore, e di non minor valore erano, tra i consiglieri, Pietro Ulloa che fu poi ministro di Francesco II, e Niccola Gigli già ministro dell’ultimo gabinetto costituzionale. Don Filippo Angelillo, malamente distintosi come procuratore generale della Corte speciale (la quale condannò Settembrini, Spaventa e Barbarisi a morte, Poerio, Pironti, Braico e Nisco ai ferri, e Scialoja alla reclusione) era anche lui consigliere. Sciolte quelle Corti, i magistrati che le componevano, ebbero destinazione diversa: e così troviamo tra i giudici della Gran Corte Criminale di Napoli, Lastaria, Giambarba, Amato, Canofari e Juliani; e procuratore generale, don Francesco Nicoletti il quale aveva occupato lo stesso posto nella Corte speciale di Cosenza, che condannò, per i fatti del 1848, quattordici liberali a morte e 150 ai ferri! Furono, tra i primi, Vincenzo Morelli, Giuseppe Pace e Stanislao Lamenza, non che il Ricciardi, il Mauro e il Musolino, contumaci. Presidente della Gran Corte Civile era Vincenzo Niutta che, morto il Nicolini, gli successe nella Corte Suprema. Il posto, gerarchicamente, sarebbe spettato a Jannaccone; anzi vi fu pur nominato, ma poi il Re lo concesse al Niutta, per confortarlo di un grave oltraggio fattogli dal principe d’Ischitella, al quale il dotto magistrato era stato contrario in una lite. Il Niutta morì senatore del Regno d’Italia, dopo aver proclamato il plebiscito delle Provincie napoletane e dopo essere stato ministro senza portafoglio con Cavour. Uomo di larga cultura, visse quasi sempre estraneo alla politica. Sedendo alla Camera sui banchi del ministero, si addormentava spesso, e piegando involontariamente il capo, pareva talora che approvasse i discorsi degli oppositori. Le sue sentenze sono monumento di dottrina, ma in politica seguì la massima di sapersi accomodare ai tempi.
Tra i consiglieri della Gran Corte Civile ricorderò Achille Rosica, già intendente di Basilicata e poi direttore del ministero dell’interno sotto Francesco II; Callisto Rossi, che divenne, col Regno d’Italia, consigliere di Cassazione; il piccolo e nervoso Niccola Rocco, il quale, dopo il 1860, insegnò diritto commerciale all’Università. L’alta magistratura napoletana, anche in tempi tristi, fu modello di sapienza, di dignità e di decoro, specialmente la civile. Apparteneva anche alla Corte Suprema quell’ottimo don Niccola Spaccapietra, che fu presidente della Corte di Cassazione dopo il 1860, e che oggi è tuttora ricordato con rispetto, come si ricordano parecchi di quelli, che ho nominati. Aveva non so quale deformità alle mani, per cui nei conviti ufficiali non si toglieva mai i guanti.
Vincenzo Lomonaco era presidente del tribunale e Gennaro Rocco, fratello di Niccola, procuratore del Re. Questi Rocco, uomini di valore, erano devotissimi ai Borboni; e Niccola che, in materia di diritto commerciale, godeva molta riputazione anche all’estero, fu tra i nove che scesero in campo a confutare lo scritto di Scialoja sui bilanci napoletani. Sedeva, tra i giudici del tribunale. Bernardino Giannuzzi Savelli, il quale aveva un piede in curia ed uno nel mondo galante, e che tutti maravigliava per il suo felice talento, ma ai colleghi riusciva poco gradito, perchè accentuatamente sdegnoso delle volgarità del mestiere. Tra i giudici soprannumeri di allora, alcuni occupano oggi posti eminenti, come il senatore Antonio Nunziante, primo presidente della Corte di Cassazione di Napoli; e, se volessi portare le indagini sui giudici soprannumerarii dei tribunali di provincia, troverei Carlo Bussola che divenne poi un atleta della parola, al tribunale di Santa Maria; Carlo Adinolfi, ad Avellino; Luciano Ciollaro, procuratore del Re a Reggio; e sparsi qua e là, in posizioni modeste, quasi tutti i presenti consiglieri di Cassazione di Napoli.
Gli stipendii della magistratura collegiale non erano scarsi; anzi, dati i tempi, erano piuttosto lauti. Dopo parecchi anni di alunnato affatto gratuito, si aveva il primo stipendio di giudice di tribunale o di sostituto procuratore del Re, di ducati 65, poco meno di trecento lire. "La prima volta, che mi portarono lo stipendio, racconta ingenuamente Carlo Bussola, oggi procuratore generale della Cassazione di Palermo, mi sentii ricco. Sessantacinque ducati, e io non ne spendevo più di venti! Ero a Santamaria, e pagavo il fitto di casa per la mia famiglia ducati sei al mese; il pane costava grani tre al rotolo; con due grani si aveva una caraffa di vino; la carne costava dalle nove alle quindici grana il rotolo, e le frutta non avevano prezzo. A buonissimo mercato i maccheroni e gli ortaggi„. Era vero: il buon mercato nelle provincie rasentava l’inverosimile, e a Napoli la vita non costava veramente di più, per cui i capi delle Corti e molti consiglieri di Gran Corte Civile, di Corte Criminale e di Corte Suprema, retribuiti con stipendii, che andavano dai cento ai dugento ducati al mese, avevano carrozza e abitavano signorilmente. Solo lo stipendio dei giudici regi (pretori) era abbastanza infelice (18 ducati), e perciò molte volte la giustizia risentiva gli effetti dei magri assegni, anche perchè i giudici regi esercitavano le attribuzioni di ufficiali di polizia nei piccoli centri, e si può bene immaginare quanto fosse il loro potere e quanto frequenti le occasioni di peccare. Ma non era certo raro il caso di trovare fra essi dei galantuomini e giovani di valore.
Note
- ↑ Nella prima edizione riportai i nomi di tutti gli Eletti ed Aggiunti di quegli anni.
- ↑ Il recipiente di latta, rivestito di legno, nel quale gli acquafrescai di Napoli raccolgono l’acqua colla neve, e per iscioglierla, lo mandano su e giù, è detto nel linguaggio dialettale: trommone (trombone).
- ↑ Calzettini.
- ↑ Piccolo prete.