La cameriera brillante/Atto II
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ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Cortile in casa di Pantalone.
Flaminia ed Ottavio.
Flaminia. No, signor Ottavio, non insistete, se mio padre non ve lo dice.
Ottavio. Vostro padre non mi conosce.
Flaminia. Non è per questo ch’egli non acconsenta che voi restiate. Ma voi sarete bene informato del suo difficile temperamento.
Ottavio. Credetemi, che a me è riuscito di render docili degli uomini molto più austeri di lui. Le mie parole hanno saputo far dei prodigi.
Flaminia. Questi prodigi con mio padre non li avete fatti sinora.
Ottavio. Perchè non mi sono posto nell’impegno di farli. Per altro... vi dirò solo questa. Un marito il più geloso del mondo, persuaso dalle mie parole, mi ha lasciato libero il campo, e ha disarmato tutte le trincere che custodivano la di lui moglie.
Flaminia. Bravo, signor Ottavio, vi dilettate di servir dama.
Ottavio. L’ho fatto per un semplice impegno. Per altro ne ho lasciato sospirar più di trenta, senza ch’io mi degnassi di rimirarle nemmeno.
Flaminia. Questa me la volete dare ad intendere.
Ottavio. No certamente. Io non fo per vantarmi. Sono uno che delle avventure non ne fo caso, e del mio merito non parlo mai.
Flaminia. Per altro questo vostro merito lo conoscete.
Ottavio. Io? sono anzi il maggior nemico di me medesimo. Ho di me una bassissima stima; mi considero l’uomo più immeritevole della terra. Ma... non saprei... a forza di esaltarmi, le persone mi mettono in qualche orgasmo. Chi loda la mia avvenenza, chi la mia umiltà, chi il modo mio di procedere. Chi parla de’ miei natali, chi de’ miei fondi, chi della mia condotta: m’empiono l’orecchie di lodi. In verità, credetemi... sono mortificato.
Flaminia. (Come si colorano i propri difetti! Lo conosco, e pure lo amo). (da se)
Ottavio. Scommetto, che se un’altra volta parlo al signor Pantalone, l’incanto.
Flaminia. Lo voglia il cielo... Eccolo in verità. Lasciate ch’io me ne vada.
Ottavio. No, fermatevi; ho piacere che siate presente alla conquista ch’io son per fare del di lui animo
SCENA II.
Pantalone e detti.
Pantalone. Cossa feu qua, siora? (a Flaminia)
Flaminia. Niente, signore...
Pantalone. Andò via; andè in casa.
Ottavio. Trattenetevi, signora. Signor Pantalone, voi avete una figliuola che vi fa onore.
Pantalone. Grazie, patron; andè via de qua. (a Flaminia)
Ottavio. Prima ch’ella parta, permettetemi che vi consoli.
Pantalone. Coss’ala da dirme per mia consolazion?
Ottavio. Che fra quante dame, fra quante principesse ho trattato, non ho veduto la donna più ammirabile di vostra figlia.
Pantalone. (El me par un matto sto sior). (da sè)
Ottavio. (Vedete? Principia ad arrendersi. Ottavio non falla mai). (piano a Flaminia)
Pantalone. Gh’ala altro da dirme, patron?
Ottavio. Sì, signore, ho altre due o tre cose, che vi empiranno di giubilo.
Pantalone. La me le dirà un’altra volta.
Ottavio. Signor no, voglio dirvele adesso.
Pantalone. (Oh poveretto mi! el xe matto senz’altro). (da sè)
Ottavio. Ascoltate. (a Pantalone)
Pantalone. La diga. (Voi veder de cavarme colle bone: el me fa paura). (da sè)
Ottavio. La vostra figliuola è adorabile.
Pantalone. Gh’è altro?
Ottavio. Sì, signore. Merita una gran fortuna.
Pantalone. Ala fenio?
Ottavio. Signor no, sarebbe un peccato ch’ella si vedesse malamente sagrificata.
Pantalone. E po?
Ottavio. E poi, io mi esibisco di diventarle marito.
Pantalone. Ala fenio?
Ottavio. Ho finito.
Pantalone. (Non ho miga visto el più bello). (da sè)
Ottavio. (È vinto. Non vi è rimedio). (piano a Flaminia)
Pantalone. Xela contenta che parla anca mi?
Ottavio. Sì, parlate.
Pantalone. Ghe respondo, che gh’ho gusto che mia fia sia adorabile.
Ottavio. Bene.
Pantalone. Che me consolo che la merita una gran fortuna.
Ottavio. Innanzi.
Pantalone. Che la me fa un onor a domandarmela per muggier.
Ottavio. E poi.
Pantalone. E po, che no ghe la voggio dar.
Ottavio. Eh, ride il signor Pantalone; ride, scherza, si diverte. In campagna vi vuol brio, vi vogliono lepidezze. Bravo galantuomo. Bravo vecchietto allegro. Mi piacete assaissimo. Quando sarò vostro genero, fra voi e me saremo il divertimento di tutto Mestre.
Pantalone. La farà ela da buffon, e no mi.
Ottavio. Bravissimo, ecco un altro frizzo brillante. La signora Flaminia...
Pantalone. La signora Flaminia, che la vaga via de qua subito. (Flaminia vuol partire)
Ottavio. Eh no, signore...
Pantalone. Eh sì, patron. Anemo, digo: andè in casa. (a Flaminia)
Flaminia. (Parte senza dir niente.)
SCENA III.
Ottavio e Pantalone.
Ottavio. Ma signora mia... (vuol seguitar Flaminia)
Pantalone. Con grazia, patron. (lo tira indietro)
Ottavio. A me?
Pantalone. A vu, sior, e se sè matto, andeve a far ligar.
Ottavio. Il rispetto che ho per un suocero, mi fa tacere.
Pantalone. Mi no so nè de socero, nè de socera. Andè a socerar in t’un altro liogo.
Ottavio. Signor Pantalone, voi non mi conoscete.
Pantalone. Come sarave a dir?
Ottavio. Ecco qui chi potrà dirvi chi sono. Ecco Argentina: domandatelo a lei.
SCENA IV.
Argentina e detti.
Argentina. Eccomi, eccomi. Chi mi vuole?
Pantalone. Mi no ve chiamo.
Ottavio. Venite, cara Argentina, dite voi al signor Pantalone chi sono.
Pantalone. No gh’è sto bisogno...
Ottavio. Egli non ha per me quella stima, che ha tutto il mondo che mi conosce.
Argentina. Ah signor padrone, sappiate...
Pantalone. No vôi saver gnente.
Argentina. No, ascoltatemi.
Pantalone. Ve digo, che no ghe ne vôi saver...
Argentina. Ed io voglio che mi ascoltiate.
Pantalone. Ma se...
Argentina. Ma se, ma se... ascoltatemi... (irata)
Pantalone. Via, via, siora, no me magnè, che v’ascolterò. (La xe una vipera, ma ghe voi ben). (da sè)
Ottavio. (Costei ha del penetrante). (da sè)
Argentina. Sappiate che il signor Ottavio è un cavaliere di una famiglia antichissima del regno di Napoli, discendente da quattro re.
Ottavio. No, no, non sono tanti.
Argentina. Sì, è vero: non sono quattro re. Sono tre re, falla danari.
Pantalone. Vardè po, che i sarà tre fanti.
Argentina. Egli è ricchissimo signore; avrà d’entrata all’anno centomila zecchini.
Pantalone. Bù! (imita colla bocca uno sparo) Varda la bomba.
Ottavio. No centomila zecchini; non tanto.
Argentina. Quanto? Cinquantamila?
Ottavio. Non arrivano.
Argentina. Trenta?
Ottavio. In circa.
Pantalone. No, cara fia, calè un pochetto.
Ottavio. Il signor Pantalone lo sa meglio di voi. I mercanti sono informati delle famiglie che hanno rendite grosse. (ad Argentina)
Pantalone. Tutto quel che la vol. Aveu fenio? Oggio da sentir altro? (ad Argentina)
Argentina. Sì, signore. Avete da sapere che il signor Ottavio è virtuosissimo.
Pantalone. Via, me ne consolo.
Ottavio. Non dico per dire, ma son conosciuto; e se non fosse per vantarmi, vi direi che pochi arriveranno a saper quel che so io; ma non voglio far ostentazione...
Argentina. Bravissimo. Sentite con che modestia egli parla di se medesimo. Un’altra cosa voglio dire al signor Pantalone.
Pantalone. Son stufo; no vôi sentir altro.
Argentina. Avete da sentire anche questa.
Pantalone. Via, sentimo anca questa. (Custìa la gh’ha el soravento, la me fa far tutto quel che la vol). (da sè)
Argentina. Signor padrone: il signor Ottavio stamane è in disposizione di onorare la di lei tavola, e vossignoria si contenterà di accettarlo.
Pantalone. (Oh, questo po no). (da sè)
Ottavio. Che cosa dice, signor Pantalone?
Pantalone. Digo cussì...
Argentina. Già non vi è bisogno nemmeno di domandargliele queste cose. Dice di sì a drittura.
Pantalone. Ve digo cussì...
Argentina. Non importa al signor Ottavio, se voi non gli fate un trattamento magnifico.
Ottavio. Lo sa il signor Pantalone. Io son contento di tutto.
Pantalone. Ma no son miga contento mi...
Argentina. Eh sì, va benissimo.
Pantalone. Lassème parlar in tanta vostra malora.
Argentina. Che cosa volete dire? (con alterezza)
Pantalone. Che no lo voggio.
Argentina. No lo voggio? A me no lo voggio?
Pantalone. Siora sì; chi xe el paron de sta casa?
Argentina. Sì, il padrone siete voi. Io non posso obbligarvi a far una cosa che non volete; ma nemmeno voi potete obbligar me a far quello che non mi piace di fare.
Pantalone. Siora sì, el patron alla serva el ghe pol comandar.
Argentina. Comandate alla vostra serva. Io da questo momento intendo di non essere più al vostro servizio.
Pantalone. Come?
Argentina. Tant’è. Sapete chi son io?
Pantalone. Chi seu, siora?
Argentina. Sono la cameriera di questo signor cavaliere.
Pantalone. Cossa?
Argentina. Signore, mi prende ella al suo servizio? (ad Ottavio)
Ottavio. Sì, volentieri. Le ho le mie cinque donne. Vi prenderò per soprannumeraria.
Argentina. Farò io la mezza dozzina.
Pantalone. Me maraveggio, patron, che la vegna in casa dei galantomeni a sollevar la servitù.
Ottavio. Io non sono capace di una minima azione, che non sia dell’ultima delicatezza. Non è vero ch’io abbia sedotta la vostra serva; non sono qui venuto per lei.
Pantalone. O per lei o per altri...
Argentina. Orsù, la riverisco. (scostandosi da Pantalone)
Pantalone. Cossa gh’è?
Argentina. Serva sua. (come sopra)
Pantalone. Dove andeu?
Argentina. «Tu ver Gerusalem, io verso Egitto».
Pantalone. Ti vuol andar via?
Argentina. Gli uomini che non mantengono la parola, non li stimo, non li calcolo e non li voglio servire; mi avete promesso riceverlo, ed ora mi volete mancare.
Pantalone. Mi non ho dito...
Argentina. Signor Ottavio, sono con lei.
Pantalone. Férmete, desgraziada.
Argentina. Che volete da me?
Pantalone. No vôi che ti vaghi via.
Argentina. Volete ch’io resti a pranzo?
Pantalone. Sì, resta a disnar.
Argentina. E il signor Ottavio?
Pantalone. E el sior Ottavio...
Argentina. Per la vostra cara Argentina. Il signor Ottavio resterà ancora lui. Non è egli vero?
Pantalone. No digo gnente.
Argentina. Non mi basta. Avete da dire di sì, che resti.
Pantalone. Via, digo de sì.
Argentina. Che resti.
Pantalone. Che el resta.
Argentina. Avete sentito? (ad Ottavio)
Ottavio. Sono molto tenuto alle finezze del signor Pantalone; egli è pieno di gentilezza. (sostenuto)
Pantalone. (Se el gh’ha reputazion, nol ghe sta). (da sè)
Ottavio. Finalmente un uomo della sua sorte non poteva trattare diversamente. Rimango con un obbligo eterno alle sue esibizioni. (sostenuto, in atto di partire)
Pantalone. (El va). (da sè)
Ottavio. Ed io che desidero fargli conoscere qual capitale io faccia delle sue grazie, conoscendo anche il suo temperamento che non vuol soggezione, vado a cavarmi la spada ed a mettermi in libertà. (parte)
SCENA V.
Pantalone ed Argentina.
Pantalone. Dove vala, patron? (gli vuol andar dietro)
Argentina. Fermatevi, signor padrone.
Pantalone. Cossa gh’è?
Argentina. Vi ho da parlare fra voi e me.
Pantalone. Aspettè che vaga...
Argentina. Ma voi sempre volete fare all’incontrario di quello che dico io. Vedo che non mi volete più bene.
Pantalone. Se no te volesse ben, desgraziada...
Argentina. Se mi voleste bene, vi premerebbe di sentire quello che vi ho da dire a quattr’occhi.
Pantalone. Se me preme! ma no vorria che quel sior... colle mie putte...
Argentina. Vi preme delle putte, e non vi preme di me; e pure di me dovreste avere qualche premura.
Pantalone. Sì, cara Arzentina, te voggio ben. Parla, dime quel che ti me volevi dir.
Argentina. Sappiate, signor padrone... (sospirando)
Pantalone. Ti sospiri? Cossa voi dir?
Argentina. Voi non me lo crederete.
Pantalone. Sì, te crederò; parla.
SCENA VI.
Clarice e detti.
Clarice. Signor padre.
Pantalone. Cossa me vegnìu a seccar? Cossa voleu?
Clarice. È vero che il signor Ottavio resta a pranzo con noi?
Argentina. Sì, signora. È la verità.
Clarice. Io non parlo teco.
Argentina. Ed io rispondo meco.
Clarice. (Temeraria!) (da sè) Dunque è vero ch’egli resta con noi? (a Pantalone)
Pantalone. Siora sì; xe vero.
Clarice. Bene; quando è vero questo, sarà anche vero che vi resterà il signor Fiorindo.
Pantalone. Per che rason mo?
Clarice. Perchè io non devo essere da meno di mia sorella.
Pantalone. Cossa gh’intra vostra sorella?
Clarice. V’entra, perchè il signor Ottavio è restato per lei.
Pantalone. No so gnente. Che el vaga via.
Argentina. Che vada via? Dopo averlo invitato, che el vaga via?
Pantalone. Mi no l’ho invidà.
Argentina. Chi gliel’ha detto che resti?
Pantalone. Ghe l’ho dito mi; ma savè come.
Argentina. Dopo avergli detto che resti, che el vaga via? Che cosa dice la signora Clarice?
Clarice. Io non dico che vada via; dico bene che vi ha da restare il signor Fiorindo.
Argentina. Oh, in questo poi la signora Clarice ha ragione.
Pantalone. La gh’ha rason?
Argentina. Sicuramente; ha ragione.
Pantalone. Vardè per la villa se ghe xe altri che voggia vegnir da mi.
Argentina. Sì signore, vi è qualcun altro.
Pantalone. Chi, cara vu?
Argentina. Il servitore del signor Ottavio.
Pantalone. Anca el servitor ha da magnar da mi? Mo perchè? mo per cossa? Chi lo ordena, chi lo dise?
Argentina. Argentina.
Clarice. Ecco chi comanda: Argentina.
Argentina. Signora sì; questa volta faccio io. Non comando, ma persuado, convinco e faccio io; e che sia la verità, il signor padrone riceverà a pranzo con lui anche il signor Fiorindo, e non può fare a meno di farlo. Eccone la ragione. Qualcheduno dirà, se dà da pranzo al signor Ottavio, che lo fa per qualche secondo fine; così invitando anche l’altro, si dirà che fa un trattamento agli amici. Oltre di ciò il signor Florindo, sebbene è uomo selvatico, in questa occasione se ne avrebbe a male, se non fosse invitato. Il signor padrone, con un poco di minestra di più, soddisfa a tutte le convenienze, a tutti gl’impegni: salva il decoro, la politica, l’interesse. Soddisfa le figliuole e si fa un onore immortale. Ah? Che ne dite? (a Pantalone)
Pantalone. Veramente sta volta me par che abbiè dito ben. Siora sì; sarè contenta. Sior Fiorindo vegnirà a disnar con nu. (a Clarice)
Clarice. Ora non voglio che ci venga più.
Pantalone. No? Per cossa?
Clarice. Perchè l’ha detto quella pettegola d’Argentina. (parte)
Argentina. Ed io voglio che venga il signor Fiorindo.
Pantalone. Mo perchè?
Argentina. Perchè non lo vuole quella pettegola di vostra figlia. (parte)
Pantalone. Tolè suso. Do matte, una più bella dell’altra. E intanto Arzentina no m’ha dito quel che la me voleva dir. L’ha tratto quel sospiro! Moro de voggia de saver per cossa che la sospirava. Gran barona che xe culìa, per farme far tutto a so modo; ma co se vol ben, se fa tutto. Gh’ho speranza che anca ela un dì la farà a modo mio. Dirò co dise i zogadori del lotto: Cento per el lotto, e una bona per mi. (parte)
SCENA VII.
Camera in casa di Pantalone.
Ottavio e Brighella.
Brighella. Me rallegro che la resti a pranzo con nu, lustrissimo.
Ottavio. Voi altri non sapete dir altro che illustrissimo.
Brighella. (L’è pien de umiltà. Nol vol titoli). (da sè) Ghe dirò, signor, se procura de usar quei atti de respetto che ne convien.
Ottavio. Se verrete a stare con me, imparerete.
Brighella. Signor sì. Farò quel che fa i altri.
Ottavio. (Sentendosi dire signor sì, fa dei contorcimenti di dispiacere.)
Brighella. Comandela qualche cossa, signor?
Ottavio. Niente, niente. È venuto alcuno de’ miei servitori?
Brighella. Signor sì, uno.
Ottavio. Qual è? Il cameriere, lo staffiere, il lacchè?
Brighella. Tutto quel che la vol.
Ottavio. Come, quel che voglio?
Brighella. Eh niente, védela; l’è quel che se chiama Traccagnin.
Ottavio. Sì sì, il buffone. Colui qualche volta mi fa ridere. Stamane fra le altre lo chiamo: Traccagnino. Eccellenza? Portami la cioccolata. Come la vuole vostra Eccellenza? calda o fredda?
Brighella. Ah, lu mo, per esser buffon, el ghe dis eccellenza.
Ottavio. Io m’arrabbiai stamane che non aveva voglia di scioccherie, e lo voleva caricare di bastonate. Mi sono venuti intorno, mi si sono buttati a piedi i miei camerieri, i miei segretari, i computisti: Eccellenza, si fermi; Eccellenza, gli perdoni; Eccellenza, lo compatisca. Basta, gli ho perdonato.
Brighella. (Adesso capisso. Altro che umiltà! Fumo tanto che fa paura). (da sè) Cara Eccellenza, ghe domando umilmente perdon se avesse manca al mio dover... No saveva...
Ottavio. Che avete? Perchè mi domandate scusa? Forse per non avermi dato dell’eccellenza? Che importano a me queste freddure? Io non faccio pompa di questi titoli; non li curo, non me n’importa. Sono vanità, ostentazioni. Parlate, parlate con libertà.
Brighella. Me rallegro, torno a dir, che vostra Eccellenza stia a pranzo da sior Pantalon.
Ottavio. Eh! non ho potuto dirgli di no.
Brighella. Mi per altro la sappia che ho fatto pulito con Argentina, e ela, per farme servizio a mi, l’ha persuaso el patron. No so se vostra Eccellenza me capissa.
Ottavio. Basta: il signor Pantalone mi ha invitato. Non ci voleva restare. Ma sono tanto disgraziato, che avrebbero detto ch’io non ci voglio restar per superbia.
Brighella. Donca la xe restada per far servizio a sior Pantalon?
Ottavio. Poteva far a meno per il padre di una persona ch’io amo?
Brighella. E mi non averò nissun merito d’averla servida?.
Ottavio. Vi son grato. Se vi occorre, comandate.
Brighella. Me dala licenza che ghe diga una barzelletta, Eccellenza?
Ottavio. Sì, dite: divertitemi.
Brighella. La devertirò donca. Me recordo, la perdoni, che l’ha avudo la bontà de dir che, se la restava qua a disnar, la voleva impiegar una certa doppia.
Ottavio. Pagare il pranzo al signor Pantalone? Sarebbe un’azione indegnissima.
Brighella. No digo pagar el disnar al patron. Ma l’ha dito... me par... che la l’averia dada al servitor... La perdoni, védela, Eccellenza.
Ottavio. Non me ne ricordo.
Brighella. Oh, me lo ricordo mi; l’è cussì, da so servitor.
Ottavio. Sarà così. (Son nell’impegno. La doppia non si può risparmiare). (da sè, tirando fuori la borsa)
Brighella. (Chi è minchion, staga a casa). (da sè)
Ottavio. Voi dunque avete desiderato ch’io restassi commensale del vostro padrone. (tirando fuori la doppia)
Brighella. Eccellenza sì.
Ottavio. Ed io in ricompensa della vostra attenzione, perchè non si dica ch’io non abbia ricompensato con generosità qualunque servigio per piccolo ch’egli sia, ecco qui... (mostra la doppia)
SCENA VIII.
Traccagnino e detti.
Traccagnino. Sior patron.
Ottavio. Che c’è?
Traccagnino. Sussurri grandi.
Ottavio. Dove?
Traccagnino. In sta casa.
Brighella. Coss’è stà?
Traccagnino. I grida tra el padre e le fiole; e ho sentido a dir el sior Pantalon: Donca alla mia tola no vôi nissun.
Ottavio. Nessuno? (ripone la doppia nella borsa)
Traccagnino. Nissun.
Brighella. Eh, bisogna veder...
Ottavio. Sentiamo che cosa c’è. (in atto di partire)
Brighella. Eccellenza.
Ottavio. Ci rivedremo. (parte)
SCENA IX.
Brighella e Traccagnino.
Brighella. Eccellenza.
Traccagnino. Con chi parlistu?
Brighella. Col to patron, che el me voleva dar una doppia, e sul più bello ti è arriva ti, ti gh’ha parlà sulla man, e la doppia l’è andada in fumo.
Traccagnino. El gh’ha rason, se nol t’ha dà la doppia.
Brighella. Per cossa?
Traccagnino. Ti lo burli.
Brighella. Lo burlo? Come?
Traccagnino. Ti ghe dà dell’eccellenza.
Brighella. Mo ghe vala, o no ghe vala?
Traccagnino. Mi non ho mai provà.
Brighella. Da mi el l’ha volesta.
Traccagnino. E ti ti ghe l’ha dada.
Brighella. Per quel che la me costa.
SCENA X.
Argentina e detti.
Argentina. Animo, Brighella, presto, andate a mettere in tavola.
Brighella. È vero che gh’è dei sussurri?
Argentina. È accomodata ogni cosa.
Brighella. Dìsnelo qua el sior Ottavio?
Argentina. Sì; resta egli ed il signor Fiorindo.
Brighella. Vado subito.(Finchè la memoria l’a fresca, no perdemo de vista la doppia). (da sè, parte)
SCENA XI.
Argentina e Traccagnino.
Traccagnino. El resta qua donca el me padron?
Argentina. Sì, ve l’ho detto. Ci resta.
Traccagnino. Donca resterò anca mi.
Argentina. Ma! ho paura che voi non c’entriate nell’aggiustamento.
Traccagnino. Chi l’ha fatto sto aggiustamento?
Argentina. L’ho fatto io.
Traccagnino. Co l’ave fatto vu, zonzèghe1 un capitolo per el servitor.
Argentina. Il vostro padrone vi darà danari, perchè andate a mangiare dove volete.
Traccagnino. El me padron, adess che l’è in conversazion, nol se recorda gnanca che mi sia a sto mondo.
Argentina. Bene: andate all’osteria; spendete, e fatevi rimborsare.
Traccagnino. Da chi?
Argentina. Dal vostro padrone.
Traccagnino. Nol me dà un soldo chi lo picca. El spenderà dei zecchini per farse creder un signor grando; ma per el povero servitor nol gh’ha gnente de carità.
Argentina. Poverino! vi compatisco. Ecco qui quel che fanno tanti e tanti di questi signori, che hanno più fumo che arrosto. Spendono tutto in grandezze. Abiti, trattamenti, divertimenti, e la servitù patisce; e non capiscono questa ragione, che la lingua dei servitori imbratta e lorda tutto quel lustro che per altra parte si fanno. Che importa il dire: da me si dà la cioccolata a chi viene? e i servitori cantano: non vi è vino, non vi è farina. Che serve il regalare per vanità, per fasto, quando i servitori si lamentano che non corre il salario? Credono che un bell’abito faccia onore, e dalla servitù si pubblica che si sta male di biancheria. Chi ha giudizio, fa quel che può: ma prima fa quel che deve. Meno boria fuori di casa, ma più sostanza in casa; perchè non s’abbia a dire di loro, quello che si suol dire al pavone:
«Lo nasconde talor, ma poi si vede. (parte)
SCENA XII.
Traccagnino, poi Florindo.
Traccagnino. Evviva. Adesso che ho assicura el disnar, stago ben. Me confido che in cusina gh’è el me paesan. Ma chi sa se in cusina arriverà gnente de quel della tola. Gh’è el me patron che el magna per quattro.
Florindo. Gran seccatura ha da essere oggi per me! Star a tavola un’ora con soggezione! Ma non ci sto. Dicano quel che vogliono, io non ci sto.
Traccagnino. Chi èlo sto sior, che nol cognosso?
Florindo. Amigo, siete voi di casa?
Traccagnino. Per adesso son in casa.
Florindo. Fatemi un piacere; dite a questi signori che compatiscano, ch’io a tavola non ci voglio venire.
Traccagnino. Elo anca vussioria dei invidadi?
Florindo. Sì, ancor io; ma a tavola con soggezione, con compagnia, con donne, io non ci posso stare.
Traccagnino. Ala facoltà de sostituir nissun al so posto?
Florindo. Che vorreste dire?
Traccagnino. Se la podesse farme la grazia, che mi andasse per ela.
Florindo. Chi siete voi?
Traccagnino. Son el servitor de sior Ottavio.
Florindo. Figuratevi se quei superbi, se quelle delicatine di donne vi vorranno: non si degnano di gente bassa.
Traccagnino. Vussioria se degneravela?
Florindo. Io sì: mangio sempre con i miei contadini.
Traccagnino. Se poderave far una cossa.
Florindo. Che cosa?
Traccagnino. La se fazza mandar da magnar in cusina, che mi averò l’onor de servirla de compagnia.
Florindo. Se lo volessero, perchè no?
Traccagnino. Son servitor, ma son galantomo, sala.
Florindo. Sì, tutti gli uomini sono compagni. Io amo tutti, ma non posso soffrire la soggezione.
Traccagnino. Con mi mo, védela, no son omo de suggizion. La se torrà tutta la libertà che la vol.
Florindo. Val più la sua libertà, che non vagliono tutti i tesori del mondo.
Traccagnino. Sior sì. Magnar fin che s’ha fame. Stravaccai sulla tola. Desbottonarse; desligarse le calze; cavarse le scarpe.
Florindo. Sì, questo è quel che mi piace.
Traccagnino. Bravo. Staremo ben insieme. Oh caro!
Florindo. Bevete bene voi?
Traccagnino. Mi sì; co posso, el me piase.
Florindo. Beveremo.
Traccagnino. Fin che la vol.
Florindo. E quando non si può più, si dorme.
Traccagnino. E se se indormenza a tola.
Florindo. Quello è il gusto.
Traccagnino. Bravo, amigon.
Florindo. Bravo, camerata.
SCENA XIII.
Argentina e detti.
Argentina. Cha fa il signor Florindo, che non viene a tavola?
Florindo. Non vengo certo.
Argentina. Ma perchè, signore?
Traccagnino. L’è impegnà, védela.
Argentina. Con chi?
Traccagnino. Con mi, padrona.
Argentina. Eh via...
Florindo. Sì, cara Argentina. Mi faranno più piacere, se mi manderanno qualche cosa da mangiare con questo galantuomo.
Traccagnino. La s’arrecorda che semo in do. (a Florindo)
Argentina. Signor Florindo, sentite una parola, che nessuno senta.
Florindo. Dite, dite.
Argentina. No, nell’orecchio, che nessuno senta.
Florindo. Via, dite. (s’accosta all orecchio)
Argentina. Siete un bel porco. (forte)
Traccagnino. Mi non ho sentido.
Florindo. Non me n’ho a male di niente, io. Da Argentina ricevo tutto.
Argentina. Via, dico, andate a tavola.
Florindo. Ma non sarebbe meglio che veniste voi da me con questo galantuomo...
Argentina. Siete aspettato dal signor Pantalone.
Florindo. Avete pur detto che ci sareste venuta.
Argentina. Se non andate, vi mando.
Florindo. Davvero. Ci ho del genio con voi.
Traccagnino. Anca mi gh’ho della simpatia co sta zovene.
Argentina. Se avete genio per me, andate subito dal signor Pantalone; andate, vi dico, non me lo fate dire un’altra volta, che mi farete montar in bestia.
Florindo. Vado, vado; per amor vostro ci vado. Fo più stima di voi, che di quante cuffie ci sono. (parte)
SCENA XIV.
Argentina e Traccagnino.
Traccagnino. E mi possio vegnir a disnar?
Argentina. Perchè no? Ve ne sarà ancora per voi.
Traccagnino. Andemo, donca.
Argentina. Aspettate.
Traccagnino. Gh’è qualche difficoltà?
Argentina. Non vi è difficoltà; ma vorrei una cosa da voi.
Traccagnino. Comandè; farò tutto. Per magnar non so cossa che no faria.
Argentina. Voi avete dello spirito, mi pare.
Traccagnino. Qualche volta son spiritoso. Specialmente quando ho ben magnà e ben bevù, son spiritosissimo.
Argentina. Vorrei fare una burla alla tavola dei padroni per divertirli: una di quelle burle che si sogliono fare in campagna con qualche bizzarria, con qualche travestimento. Siete buono voi di secondarmi? di far qualche figura graziosa?
Traccagnino. Se me insegnerà, farò.
Argentina. Bene dunque, andiamo, che v’insegnerò.
Traccagnino. Ma prima magnar, per metterne in corpo del spirito, del coraggio, della disinvoltura.
Argentina. Sì, sì, mangeremo. Venite con me. (Vo’ divertir la conversazione, ma col mio secondo fine però). (da sè, e parte)
Traccagnino. Panza mia, parécchiete de far festa. (parte)
SCENA XV.
Sala con tavola apparecchiata.
Pantalone, Flaminia, Clarice, Ottavio.
Pantalone. Animo, patroni, a tola.
Ottavio. Perdoni, tocca alle signore donne.
Clarice. Se non viene il signor Florindo, non vengo a tavola nè meno io.
Pantalone. Ti ghe vol un gran ben a sto sior Florindo.
Clarice. Non dico di volergli nè bene nè male. Ma in questa parte non ho da essere di meno di mia sorella.
Flaminia. Che pretensione ridicola! Starete male, sorella cara, col signor Florindo. In questo proposito, è un uomo tutto all’incontrario di quello che siete voi.
Clarice. Non me ne importa. Ha da venire a tavola.
Pantalone. El vegnirà. Intanto sentemose2 nu. Via, sior Ottavio, come forestier, la prencipia ela.
Ottavio. Il signor Pantalone mi vuol fare quel trattamento che mi hanno fatto cinque dame la settimana passata. Hanno voluto ch’io sedessi per il primo. Non lo volevo fare assolutamente; ed esse badavano a dire; la vostra nobiltà, il vostro merito, il vostro grado... Basta, io non l’ho fatto per questo, l’ho fatto per obbedire. (siede)
Clarice. Sentite la bella caricatura. (a Flaminia)
Flaminia. Verrà il vostro gentilissimo signor Fiorindo a far il maestro di cerimonie. (a Clarice)
Pantalone. Via, putte, sentève. (siede)
Flaminia. Eccomi. (vuol sedere presso suo padre)
Ottavio. No, madamigella, favorite: venite presso di me. (a Flaminia)
Pantalone. Eh, n’importa. Questo xe el solito posto.
Ottavio. Bene, verrò io dunque presso di voi. (va a sedere presso a Flaminia)
Pantalone. Sior Ottavio... no vorria...
Ottavio. A tutte le grandiose tavole dove io sono stato, mi hanno sempre collocato vicino alla padrona di casa. La marchesa di Coratella, la duchessa di Possidaria, la baronessa della Caligine, la principessa di Zona Torrida, tutte hanno voluto che stessi loro vicino.
Pantalone. Qua no ghe xe nè la principessa del Caligo, nè la principessa del Fumo. Se va alla bona.
Ottavio. Questo è quel che mi piace: alla buona. Son uno che non ha ambizione.
Pantalone. E vu, siora, ve senteu? (a Clarice)
Clarice. Oh via, ecco il signor Fiorindo. Giacchè egli viene, verrò a tavola ancora io. (siede)
Pantalone.(Mi no so, se la fazza per amor o per pontiglio. Le donne no le se capisse; ora le xe da vovi3, ora le xe da latte). (da sè)
SCENA XVI.
Florindo e detti.
Florindo. (Eh! figurarsi se io voglio sedere in mezzo a quelle caricature!) (osservando la tavola, si ferma indietro)
Pantalone. La resta servida, sior Florindo.
Florindo. Vi prego dispensarmi.
Pantalone. Come! no la ne vol favorir?
Florindo. Non ho volontà di mangiare.
Pantalone. Se no la poli magnar, pazenzia; tanto più valerà el nostro. La se senta per compagnia.
Florindo. Non sono pazzo io a venirmi a seccare.
Pantalone. A seccarve? Come parleu, sior?
Florindo. (Passeggia fischiando.)
Pantalone. (Oh che tangaro!) (da sè)
Clarice. (Sento che mi si volta lo stomaco). (da sè)
Flaminia. Che dite della bella grazia del signor Florindo? (piano ad Ottavio)
Ottavio. Non gli si abbada. Mangiamo noi. (dà della minestra a Flaminia, e se ne prende per sè, e mangia.)
Pantalone. Sior Florindo, me maraveggio dei fatti vostri. Fina che ve piase l’economia, la libertà, el retiro, ve lodo: le xe cosse che le me piase anca a mi; ma ste inciviltà, compatime sior, no le xe cosse da par vostro, no le xe cosse da galantomo.
Clarice. Sono cose che non le farebbe un villano, un facchino, uno di quelli che guidano i porci.
Florindo. Non lo sapete il mio naturale? Io non posso soffrire la soggezione.
Ottavio. Venite, signor Florindo. Non abbiate soggezione di me. Son chi sono, egli è vero, ma finalmente siamo in campagna.
Florindo. Oh, se credete che mi prenda soggezione di voi, v’ingannate. Tanto stimo la vostra parrucca, quanto il mio cappello di paglia. Son qui. Sediamo, mangiamo. Che minestra c’è? Pasta? non mi piace. Io non mangio altro che riso.
Pantalone. Se no ve piase la pasta... (alterato)
Florindo. Zitto.
Clarice. Se mangiate il riso... (alterata)
Florindo. Zitto. Mangerò la pasta. (si prende della minestra)
SCENA XVII.
Brighella e detti.
Brighella. (Porta il lesso, e leva la minestra) Signori, gh’è qua una dama che desidera vegnir avanti. (Voggio far muso duro per no scoverzer la burla). (da sè)
Ottavio. Una dama? (s’alza)
Pantalone. Chi èla sta dama? Cossa vorla?
Ottavio. Domanda forse di me? (a Brighella)
Brighella. La domanda giusto de ela. (ad Ottavio)
Ottavio. Una dama che domanda di me? (pavoneggiandosi) Una dama domanda di me, signor Pantalone.
Pantalone. La vaga a veder cossa che la vol.
Ottavio. Dove volete ch’io vada? Per riceverla in casa vostra non vi è luogo miglior di questo. Vi contentate, signore, ch’io la riceva qui? (a Flaminia e Clarice)
Flaminia. Per me son contentissima. (Ho curiosità di vederla). (da sè)
Clarice. Io non mi prendo soggezione di chi che sia.
Ottavio. Fatela passare. (a Brighella)
Brighella. Subito. (Arzentina ne farà rider con quel matto de Traccagnino). (da sè, e parte)
Pantalone. In casa mia son padron mi...
Ottavio. Sì, siete padrone; ma siete un galantuomo, un uomo civile. Le dame vi onorano. Vedete? per causa mia vengono ad onorarvi le dame. Dove son io, si qualifica anche una villa, una capanna, un tugurio. Alzatevi, signore mie. (a Flaminia e Clarice)
Clarice. Perchè s’abbiamo d’alzare? Siamo a tavola, venga chi vuole.
Ottavio. Non signora; a me non s’insegnano le regole della cavalleria. Ehi, chi è di là?
SCENA XVIII.
Brighella e detti.
Brighella. La vien, la vien.
Ottavio. Presto. Levate di qui questa tavola.
Pantalone. Coss’è sto levate? Coss’è st’insolenza?
Ottavio. Mangeremo dopo, signor Pantalone. Levate, levate.
(I servitori levano via la tavola, sollecitati da Ottavio. Tutti restano a sedere, fuori che lui.)
Brighella. Son qua. Leveremo.
Pantalone. La me par un’impertinenza. (s’alza)
Florindo. Questa la godo, da galantuomo. (resta a sedere)
Ottavio. Ecco la dama. È venuta per me. Incontriamola. (fa alzare Flaminia e Clarice)
SCENA XIX.
Argentina vestita nobilmente da campagna, e detti; poi Traccagnino vestito da cavaliere, con caricatura.
Argentina. Permettono che le riverisca la contessa dell’Orizzonte?
Pantalone. Oe, Arzentina. (s’alza)
Flaminia. La burla è graziosa.
Clarice. Queste sono le dame che onorano il signor Ottavio.
Ottavio. Dov’è la contessa dell’Orizzonte?
Argentina. Eccola al vostro cospetto. Cavaliere, sono io che vi riverisce.
Ottavio. Bravissima. Se non è dama, merita di esserlo. Ha dello spirito, della vivacità, del brio.
Pantalone. Cossa feu co sti abiti? Semio de carneval?
Argentina. Che vorreste voi che si dicesse pel mondo, se un cavaliere di questo merito pranzasse un giorno senza una dama?
Ottavio. Dice benissimo. Questa è la prima volta. Non sarebbe mal fatto spacciar per la villa, che abbiamo a pranzo con noi la contessa dell’Orizzonte.
Pantalone. No basta che gh’avemo co nu el sior marchese della Tramontana?
Argentina. Spiacemi, signori miei, che per mia cagione abbiano tralasciato il pranzo.
Pantalone. Se volè favorir anca vu, siora contessa de Gnao babao?
Florindo. Andiamo in cucina, signora Contessa, che staremo con più libertà.
Argentina. Io non sono qui per pranzare. Ma avendo sentito dire che le figlie del signor Pantalone devono maritarsi con questi due cavalieri...
Florindo. No, sbagliate. Una con un cavaliere, e una con un tangaro.
Pantalone. Coss’è sta novità? Mi no marido le mie putte nè con tangari, nè con cavalieri.
Argentina. Basta; facciamo il conto che ciò sia vero.
Pantalone. Ma se no xe vero.
Argentina. Non sarà vero; ma quando mai la signora Flaminia dovesse sposare un cavaliere di questa sorte...
Pantalone. Ve digo che no xe vero.
Argentina. Ed io accordo che non sia vero. Ma dato che ciò fosse, ella deve essere istrutta di quelle cose che non sono a sua cognizione. Cavaliere. (chiama)
Traccagnino. Madama. (esce Traccagnino vestito da cavaliere, con caricatura.)
Ottavio. Bravissimo! il mio buffone ci farà ridere: Argentina è una ragazza di spirito.
Pantalone. Vedemo donca sta comediola. Sentimo cossa che i sa inventar.
Argentina. Conte, questa sera vado alla conversazione. (a Traccagnino)
Traccagnino. Non vi è bisogno che me lo dite. (pronuncia male il toscano)
Argentina. Bene. A casa verrò tardi.
Traccagnino. Chi prima arriva, ceni, e vada a letto.
Argentina. Ci troveremo sulle morbide piume.
Traccagnino. Poi essere ch’io non vi disturbi nemmeno.
Argentina. Ho bisogno di denaro.
Traccagnino. Il fattore ve ne darà.
Argentina. E se non ne ha, ne ritrovi.
Traccagnino. Se poi non ne avesse...
Argentina. Se ne ritrova per voi, ne ha da ritrovare per me.
Traccagnino. Sì, madama, avete ragione.
Argentina. Domani abbiamo a pranzo due cavalieri.
Traccagnino. Ed io vado a pranzo fuori di casa.
Argentina. Dove?
Traccagnino. Oh bella! Vi domando io chi venga a pranzo con voi?
Argentina. Avete ragione. Ho fallato il cerimoniale. Ho bisogno d’un abito.
Traccagnino. Servitevi dal mercante.
Argentina. Quell’insolente non vuol dar altro, se non è pagato.
Traccagnino. Briccone! piantatelo, e andate da un altro.
Argentina. Lo farò. Vi vogliono due cavalli.
Traccagnino. Li compreremo.
Argentina. Dice il fattore, che non vi è fieno.
Traccagnino. Si può vendere una carrozza.
Argentina. Si venderà. A rivederci. (in atto di partire)
Traccagnino. Dove andate?
Argentina. Non lo so nemmen io.
Traccagnino. Chi vi serve?
Argentina. Non si domanda.
Traccagnino. Avete ragione.
Argentina. Voi restate?
Traccagnino. Parto anch’io.
Argentina. Per dove?
Traccagnino. Non dico i fatti miei alla moglie.
Argentina. Nè io al marito.
Traccagnino. Siamo del pari.
Argentina. Addio, Conte.
Traccagnino. Schiavo, Contessa.
Argentina. Chi è di là?
SCENA XX.
Un Villano vestito da cavaliere, e detti.
Villano. Madama.
Argentina. Favorite. (gli chiede il braccio)
Villano. Eccomi. (la serve di braccio)
Argentina. Andiamo. (parte col villano)
Traccagnino. Cavalier sabatico, servite bene nostra moglie domestica. (parte)
Pantalone. Bravi, pulito. Cossa diseie, patrone? Ghe piase sta bella usanza?
Flaminia. Non mi piace, per dire il vero. Se io fossi nel caso, farei di meno di molte cose, e anderei volentieri con mio marito.
Ottavio. Signora, voi vi fareste ridicola in poco tempo.
Clarice. Io all’incontro...
Pantalone. Vu all’incontro sè una mattarella, che facilmente ve uniformeressi al sistema de Arzentina. Ma ela, vedeu? no l’ha miga fatto sta scena, perchè tolè sta cattiva lezion. La xe una putta de garbo, e no la xe capace de pensar cussì
Florindo. E se voi, signora Clarice, pensaste di far tutto quello che ha detto fin adesso Argentina, trovatevi un altro sposo. Ve lo dico in faccia di vostro padre: voi non fate per me.
Pantalone. Sior Fiorindo in questo el gh’ha rason...
SCENA XXI.
Brighella e detti.
Brighella. Signori, un’altra imbassada.
Pantalone. Qualche altra dama?
Brighella. Signor no. Una contadina.
Ottavio. Dove ci siamo noi, non vengono contadine.
Florindo. Oh benedette le contadine! Fatela venire, signor Pantalone.
Pantalone. Sentimo cossa che la vol. (a Brighella)
Brighella. Subito la fazzo vegnir. (Goderemo sta seconda scena). (da sè, e parte)
Ottavio. Colla gente rustica non ci so trattare.
SCENA XXII.
Argentina vestita da contadina, e detti. Poi Traccagnino in abito da villano.
Argentina. Patroni, bondì sioria4.
Pantalone. Cossa fastu, mattazza?
Argentina. I m’ha dito che sè da nozze. Son vegnua a consolarme.
Pantalone. Oh che cara Arzentina!...
Argentina. Mi no son Arzentina. Son Momoletta da Chirignago, fia de missier Stropolo da Musestre e donna Rosega da Mogian5.
Florindo. Oh, quanto spicca più una donna in quell’abito!
Ottavio. Se prima sembravi un sole, ora tu mi sembri una larva. (ad Argentina)
Argentina. Caro sior larva e l’arve6. Mi no parlo con vu. Son qua per sior Fiorindo; voggio parlar con elo.
Florindo. Sentite? è venuta per me. Le contadine vengono per me, e le stimo assai più delle vostre madame.
Pantalone. (Custìa xe un gran spiritazzo; la parla venezian come se la fusse nata a Venezia. Xe assae per una forestiera).
Argentina. Ve voleu maridar? (a Fiorindo)
Florindo. Può essere che mi mariti.
Argentina. Co sta putta nevvero? (accenna Clarice)
Florindo. Non so; potrebbe darsi.
Clarice. Credo di sì per altro.
Argentina. Ben donca, se ve volè mandar, putti cari, imparè come che se fa co se xe maridai. Oe, marìo, dove seu?
Traccagnino. ( Vestito da villano) Son qua, fia mia.
Argentina. Mario, stassera vegnì a casa a bonora.
Traccagnino. Sì ben, volentiera.
Argentina. Se divertiremo vu e mi.
Traccagnino. Zogheremo all’oca.
Argentina. Doman anderemo insieme al mercà.
Traccagnino. Sempre insieme. Marìo e muggier sempre insieme.
Argentina. Compreremo una carpetta7 per mi, e da far una velada per vu.
Traccagnino. E coi bezzi alla man, la gh’averemo più a bon mercà.
Argentina. I bezzi no li spendemo tutti. Tegnimose el nostro bisogno.
Traccagnino. Disè ben. Faremo pochetto, ma faremo coi nostri bezzi.
Argentina. No voggio debiti.
Traccagnino. Che nissun ne vegna a batter alla nostra porta.
Argentina. Alla nostra tola nissun ha da vegnime a magnar le coste.
Traccagnino. Gnanca mi no anderò a scroccar da nissun.
Argentina. Se vorremo ben.
Traccagnino. Goderemo la nostra pase.
Argentina. Mi laorerò.
Traccagnino. E mi ve farò compagnia.
Argentina. E nissun mormorerà.
Traccagnino. E nissun dirà mal de nu.
Argentina. Vago in cusina a parecchiar da disnar.
Traccagnino. E mi magnerò colla mia Momoletta.
Argentina. Vago, marìo. Voggième ben.
Traccagnino. Sì, cara, ve ne vorrò.
Argentina. Oe. (chiama)
SCENA XXIII.
Un Villano ne suoi abiti, e detti.
Villano. Son qua. Vorla che la serva?
Argentina. Via de qua, sior martuffo8. Mi no me serve altri che mio mario. Andè a trar dell’acqua; portè delle legne; tendè a quei anemali, che mi no tendo a altri che a mio marìo. (parte)
Traccagnino. Sior sì, vu tendè alle vostre bestie, che mi tenderò alla mia. (parte, ed anche il villano)
Florindo. Oh cara! oh benedetta! oh fosse almeno la verità!
Pantalone. V’ala dà gusto, patrone?
Flaminia. Mi pare che abbia parlato bene.
Clarice. E a me pare che abbia parlato malissimo.
Ottavio. Qual è quella donna che si volesse a una tal legge sagrificare?
Florindo. Peggio sacrifìcio è penare per far quello che non si può fare.
SCENA XXIV.
Argentina colla veste e la berretta da Pantalone, e detti.
Argentina. Fermeve, siori, e no tarocchè, che tutti gh’avè rason. Sior Ottavio va troppo in alto, sior Florindo el va troppo basso; e chi vuol le mie putte, vôi che el vaga per la strada de mezzo. Momola vol che el marìo sia un orso: la contessa dell’Orizzonte la vorria che el fusse una piegora; e mi digo che el marìo l’ha da far co fa i manzi, che sempre i laora compagnai, e no i va soli, se no quando i li porta alla beccaria. Flaminia xe troppo umile; Clarice xe troppo altiera. Sior Ottavio gh’ha troppo fumo; sior Florindo gh’ha del rosto, ma el lo lassa brusar. Saveu chi gh’ha giudizio? chi gh’ha prudenza? Pantalon dei Bisognosi. Nol xe omo che ghe piasa grandezze, ma no ghe piase gnanca l’inciviltae. Nol xe un armelin9, come sior Ottavio, ma nol xe gnanca una piegora monzua10, come sior Florindo. E saveu chi xe una putta de sesto, che me piase assae? Arzentina. Anca ela, poverazza, no la xe nè altiera co fa un basalisco, nè gnocca co fa una talpa: la gh’ha anca ela un no so che de mezzo, che me piase anca a mi. Sangue de diana! Sibben che so vecchio, la vôi sposar. Putte, destrigheve vualtre, che me vôi destrigar anca mi: e fe presto, perchè no posso più star in stroppa11.
Zoveni, vecchi e quei de mezza età.
El zovene s’infiamma a una parola;
L’omo fatto vuol esser carezzà.
Ma più de tutti el povero vecchietto
Giubila, se qualcun ghe scalda el letto. (parte)
Pantalone. La m’ha incocalio12.
Ottavio. Io son rimasto sorpreso, quando ha sostenuto sì bene il carattere della dama. (parte)
Florindo. Mi ha innamorato, quando faceva la contadina. (parte)
Flaminia. Signor padre, avete inteso quello che ha detto Argentina? Se vi preme ch’io liberi la casa, disponete di me. (parte)
Clarice. Ricordatevi che s’avvicina l’inverno; se vi dispiace il letto diacciato, potete riscaldare il mio ed il vostro nel medesimo tempo. (parte)
Pantalone. Arzentina nol saria un cattivo scaldaletto; ma no vorria che, invece de scaldarme, la me brusasse. No so gnente; ghe penserò ancora un poco. Dirò co13 dise el lunario:
Amor xe orbo, e no xe maraveggia
Se un paron xe colpio da una massera14. (parte)
Fine dell’Atto Secondo.
Note
- ↑ Aggiungetevi.
- ↑ Sediamoci.
- ↑ Uova.
- ↑ Saluto basso e triviale, dice Goldoni: v. vol. II, p. 97, n. a.
- ↑ Chirignago, Musestre e Mogliano, paesi poco lontani da Mestre.
- ↑ Probabilmente larve. Bisticcio che non si capisce bene.
- ↑ Gonnella.
- ↑ Goldoni spiega: babbuino (v. vol. I, p. 161, n. b).
- ↑ Ermellino. Il Boerio cita la frase: netto come un armelin.
- ↑ Pecora munta. Dicesi di persona senza spirito o vile, per disprezzo: v. Boerio.
- ↑ «Stare in gangheri, o in cervello. Ritenersi»: Boerio, Dizion. cit.
- ↑ Goldoni spiega: reso stupido (v. vol. II, p. 205, n. a ecc.).
- ↑ Come.
- ↑ Serva di cucina, spiega Gold.: v. vol. II, p. 121, n. c ecc.