Atto I

../Personaggi ../Atto II IncludiIntestazione 7 maggio 2020 100% Da definire

Personaggi Atto II

[p. 221 modifica]

ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Flaminia e Clarice.

Clarice. Questa è una vita da diventar etiche in poco tempo.

Flaminia. Io per me ci sto volentierissima in villa.

Clarice. Ed io non mi ci posso vedere.

Flaminia. In quanto a voi, state mal volentieri per tutto. A Venezia non vedevate l’ora di venir in campagna; ora che ci siete, vorreste andarvene dopo tre giorni.

Clarice. Ci starei volentieri, se ci fosse un poco di conversazione.

Flaminia. E pure, anche per questa parte, non vi potete dolere, cara sorella.

Clarice. Che? Forse per esservi poco lontano il casino del signor Florindo? [p. 222 modifica]

Flaminia. Non è poca fortuna aver l’amante vicino.

Clarice. Oh! da uno a niente vi faccio poca differenza.

Flaminia. Io poi sono più discreta di voi. Così vi fosse il signor Ottavio, che mi chiamerei contentissima.

Clarice. Oh sì, se ci fosse, anch’io ne avrei piacere, per ridere un poco.

Flaminia. Per ridere? Vi fa ridere il signor Ottavio?

Clarice. Non volete che mi faccia ridere un uomo vanaglorioso, che racconta sempre grandezze, che non parla che di se stesso, che crede non ci sia altro di buono a questo mondo che lui?

Flaminia. Sì, è vero, pecca un pochino di vanagloria, ma finalmente ha il suo merito. La sua ostentazione è fondata su qualche cosa di vero. Se non è ricco, è nato nobile almeno; non è da mettersi in paragone col vostro signor Florindo.

Clarice. Perchè? Se Florindo non è nato nobile, in lui la ricchezza supplisce al difetto della nobiltà.

Flaminia. È un uomo di cattivissimo gusto; di tutte le cose gli piace il peggio; è un umore stravagantissimo.

Clarice. Gli piace di tutto il peggio, eh?

Flaminia. Così dicono. Io non parlo perchè paia a me solamente.

Clarice. Dunque se ha della parzialità per me, sarà perchè di tutto gli piace il peggio.

Flaminia. Non dico per questo...

Clarice. Sì, sì, c’intendiamo. Lo so che vi credete. voi sola di un alto merito. In questo somigliate assaissimo al signor Ottavio.

Flaminia. Lasciatemi parlare, se volete intendere quel ch’io penso.

Clarice. Che cara signora sorella! ha scelto me per il peggio!

Flaminia. Ecco qui. Tutto prendete in mala parte.

Clarice. Mi pare un poco d’impertinenza la vostra.

Flaminia. Signora sorella, vossignoria si avanza un po’ troppo.

Clarice. Se è vero. Sempre mi seccate. Anderete via una volta di questa casa.

Flaminia. Così vi andassi domani!

Clarice. E io questa sera!

Flaminia. Non mi avete mai potuto vedere. [p. 223 modifica]

Clarice. Volete farmi la dottoressa, la maestra, la superiora.

Flaminia. Sono la maggiore; ma non per questo potete dire...

Clarice. Ah, di grazia, signora maggiore, aspetti, che le bacierò la mano.

Flaminia. Siete pure sofistica.

Clarice. Siete prosontuosa.

Flaminia. A me?

Clarice. Sì, a voi.

SCENA II.

Argentina e dette.

Argentina. Eccole qui. Taroccano. Due sorelle sole, giovani, ricche, garbate, non si possono fra di loro vedere.

Flaminia. Che ne dici, Argentina? Sempre così.

Clarice. Tu come c’entri a venir a fare la correttrice? Sta da quella che sei. La cameriera non si ha da prendere tanta libertà colle sue padrone.

Argentina. Perdoni, signora, perdoni. Non credo d’averla offesa.

Flaminia. Lasciala stare, Argentina. Conosci il suo stravagante temperamento.

Argentina. Peccato, in verità, ch’ella sia così stravagante!

Clarice. Temeraria! Io stravagante?

Argentina. Compatisca: è una parola questa, ch’io non so che cosa voglia dire. L’ho replicata, perchè l’ha detta la signora Flaminia. Parlo anch’io come i pappagalli.

Clarice. È peccato ch’io sia stravagante?

Argentina. Se mi sapessi spiegare, vorrei pur farmi intendere. È peccato che una signora così bella, così graziosa... Se dico degli spropositi, mi corregga.

Clarice. Tu parli in una maniera che non si capisce.

Argentina. Effetto della mia ignoranza. Ma io vorrei vedere che le mie padrone si amassero, si rispettassero, vivessero un poco in pace.

Flaminia. Questo è quello che vorrei anch’io. [p. 224 modifica]

Clarice. È impossibile, impossibilissimo.

Argentina. Ma perchè mai?

Clarice. Perchè sono una stravagante, non è vero?

Argentina. Tutto quello ch’ella comanda.

Clarice. Io comando che tu stia zitta e che mi porti rispetto.

Argentina. La non comanda altro? Faccia conto ch’io l’abbia bell’e servita. Signora Flaminia, ho da darle una buona nuova.

Flaminia. Che nuova?

Argentina. È arrivato il signor Ottavio.

Clarice. Il signor Ottavio è venuto?

Argentina. Perdoni, io non l’ho detto a lei.

Flaminia. L’ha veduto mio padre?

Argentina. Non ancora.

Clarice. Che cosa è venuto a fare il signor Ottavio?

Argentina. L’ho veduto dalla finestra; mi ha chiamata in istrada... (a Flaminia)

Clarice. A me non si risponde? (ad Argentina)

Argentina. Oh signora, so il mio dovere. Quando mi comandano di star zitta, non parlo. (a Clarice) Son discesa per sentire che voleva da me. (a Flaminia)

Clarice. (Costei mi vuol far venire la mosca al naso). (da sè)

Flaminia. E così, Argentina mia, che cosa ti ha detto?

Argentina. Senta. Con sua licenza. (a Clarice, tirando Flaminia da parte)

Clarice. Come! non posso sentire io?

Argentina. Oh signora no.

Clarice. Perchè?

Argentina. Perchè ha dette certe cose che a lei non possono dar piacere. Se gliele dicessi, mancherei al rispetto. So il mio dovere. (a Clarice) E così, signora mia... (a Flaminia)

Clarice. Parla: voglio sapere che cosa ha detto di me.

Argentina. Ma se mi ha comandato di tacere.

Clarice. Ora voglio che parli.

Argentina. Taci, parla; voglio, non voglio: e poi non vorrà che che le si dica che è stravagante. [p. 225 modifica]

Clarice. Sei una temeraria.

Argentina. Tutto quello che comanda la mia padrona. (a Clarice) E così, come le diceva. (a Flaminia)

Flaminia. (Mi fa quasi venir da ridere). (da sè)

Clarice. (Maledetta, non la posso soffrire). (da sè)

Argentina. (Senta. Il signor Ottavio vuol fare una visita al signor padrone. Spero, mi disse, ch’un uomo della mia sorte sarà ben accolto dal signor Pantalone...) (piano a Flaminia)

Clarice. Vuoi tu ch’io senta, o vuoi che ti dica quello che meriti? (ad Argentina)

Argentina. Io gli ho risposto... (come sopra, non badando a Clarice)

Clarice. Che impertinenza è la tua? (ad Argentina)

Flaminia. Via, contentala quella signora. Di’ forte, ch’io non ci penso.

Argentina. Ma poi, se parlerò forte, mi dirà che stia zitta.

Clarice. Tu devi obbedire, fraschetta.

Argentina. Obbedirò. Disse il signor Ottavio: verrei a fare una visita alla signora Flaminia; ma non posso soffrire quell’umore stravagante della signora Clarice.

Clarice. A me questo? Io stravagante?

Argentina. L’ha detto il signor Ottavio.

Clarice. Mi sento fremere.

Argentina. E ha detto di più...

Clarice. Sta zitta.

Argentina. Ha detto che siete...

Clarice. Non più, temeraria.

Argentina. Ecco qui: Parla; non più; sta zitta.

Clarice. Se mio padre non ti caccia di questa casa, nascerà qualche precipizio.

Argentina. Certamente si seccherà...

Clarice. Che cosa?

Argentina. Il canale della laguna.

Clarice. Non ti posso soffrire. Vado ora da mio padre a dirgli liberamente che non ti voglio.

Argentina. Pazienza. [p. 226 modifica]

Clarice. Sì, ti manderà via.

Argentina. E così, tornando al nostro proposito... (a Flaminia) Clarice. Indegna!

Argentina. Sappia che il signor Ottavio... (a Flaminia)

Clarice. Non mi abbadi?

Argentina. Mi comandi... (a Clarice)


Clarice. Sei una temeraria.

Argentina. Me l’ha detto tre volte.

Clarice. (Se più l’ascolto, se più mi fermo, la bile mi fa crepare assolutamente). (da sè, e parte)

SCENA III.

Flaminia ed Argentina.

Flaminia. È una gran testaccia quella mia sorella.

Argentina. Niente, signora; lasciate fare a me, che m’impegno di metterla alla disperazione.

Flaminia. Per conto mio, non intendo però che si disprezzi e s’insulti; nè tu devi farlo. Ella pure è la tua padrona e le devi portar rispetto. È mia sorella; e quantunque non abbia ella stima di me, io la voglio avere di lei.

Argentina. Saviamente parlate, signora; lodo infinitamente la vostra amabile docilità. Io non intendo di mancare a quel rispetto che devo alla signora Clarice; ma qualche volta faccio per risvegliarla. Già Lo sapete com’è: un giorno mi vuole indorare, un altro giorno mi vorrebbe veder in cenere. Io mi regolo secondo di che umore la trovo.

Flaminia. Bada bene, che ora essendo di cattivo umore e stuzzicata da te un po’ troppo, non vada da mio padre e non Lo metta su malamente.

Argentina. A far che?

Flaminia. A mandarti via.

Argentina. Oh signora, per così poco il padrone non mi licenzia.

Flaminia. Lo so che ti vuol bene; ma potrebbe darsi... [p. 227 modifica]

Argentina. Cara signora Flaminia, non siete più innamorata del signor Ottavio?

Flaminia. Sì, lo sono. Perchè mi dici tu questo?

Argentina. Perchè badate a discorrere di me e non vi curate di parlare di lui.

Flaminia. Parlo di te, cara Argentina, perchè ti amo e non vorrei perderti.

Argentina. Non dubitate; non me n’anderò. Il padrone non mi lascierebbe andare per centomila ducati; e se la signora Clarice sarà in collera con me da vero, sapete cosa farò?

Flaminia. Che cosa farai?

Argentina. Cospetto di bacco! sapete che cosa farò? Anderò a ritrovarla nella sua camera; le dirò tante belle cose, tante buffonerie; la bacierò, la pregherò, le ballerò dinanzi, la farò ridere e non sarà altro.

Flaminia. Sì, veramente qualche volta tu sei brillante. Faresti ridere i sassi.

Argentina. Ora non è tempo di ridere. Parliamo un poco sul serio.

Flaminia. Che cosa ti ha detto il signor Ottavio?

Argentina. Il signor Ottavio mi ha detto che con una gondola a quattro remi è venuto in cinque minuti da Venezia a Mestre; e per veder voi ha lasciato la conversazione della duchessa, della marchesa, della principessa. (caricando e dipingendo l’ampollosità di Ottavio)

Flaminia. Tu lo sbeffi il signor Ottavio.

Argentina. Oh non signora. L’imito così un pochino per veder se so fare.

Flaminia. Se tu avessi per me quell’amore e quella premura di cui ti vanti, parleresti con più stima d’una persona ch’io amo.

Argentina. Se non vi volessi bene, non averei fatto quello che ho fatto.

Flaminia. Di che parli? Non ti capisco.

Argentina. Ho persuaso il padrone a riceverlo in una visita di complimento, e forse a tenerlo a pranzo con lui e per conseguenza con voi. [p. 228 modifica]

Flaminia. Oh sì davvero! Non hai fatto poco. Mio padre, uomo sofistico, non può vedere nessuno. Come l’hai persuaso, Argentina?

Argentina. Non sapete che, quando io voglio, meno gli uomini per il naso? Il signor Pantalone principalmente per me farebbe moneta falsa.

Flaminia. Sì, è vero; anzi, per dirtela, mi è stato detto da più di uno che ti voleva sposare.

Argentina. Non signora; non conviene a una cameriera sposare un uomo civile, che ha ancora due figlie in casa.

Flaminia. Brava Argentina, ti lodo; hai delle buone massime.

Argentina. Ecco il padrone.

Flaminia. Ti raccomando volermi bene.

Argentina. Il mio bene vi può far poco bene.

Flaminia. Aiutami coll’amico.

Argentina. Oh, quello vi farà del bene.

Flaminia. Tu mi fai ridere. (parte)

SCENA IV.

Argentina, poi Pantalone.

Argentina. L’amore, per quel ch’io sento, è una cosa che fa ridere e che fa piangere. Io però finora non ho mai pianto; e spero che per questa ragione non piangerò. Io faccio all’amore, come si fa quando ascoltasi una commedia. Fin che mi dà piacere, l’ascolto; quando principia ad annoiarmi, mi metto in maschera e vado via.

Pantalone. Arzentina.

Argentina. Signore.

Pantalone. No se ve vede mai.

Argentina. Se aveste vent’anni di meno, mi vedreste di più.

Pantalone. Eh za, se fusse più zovene, ve darave in tel genio.

Argentina. Non dico per questo; dico, perchè non avreste bisogno d’occhiali.

Pantalone. Coss’è sti occhiali? Ghe vedo più de vu, patrona. [p. 229 modifica]

Argentina. È vero; ci vedete assai più di me. Perchè, se io rido, mi vedete i denti. Se voi ridete, io non ve li vedo.

Pantalone. Voleu zogar che ve dago una sleppa1?

Argentina. Volete giocare ch’io me la lascio dare?

Pantalone. Sè un’insolente.

Argentina. Ma sono la vostra cara Argentina.

Pantalone. Barona! sempre ti me strapazzi.

Argentina. Ve ne avete a male, perchè qualche volta vi dico che siete vecchio?

Pantalone. Sior sì, me n’ho per mal.

Argentina. Quando è così, bisogna rompere tutti i specchi di casa.

Pantalone. Cossa songio? un cadavero? un mostro?

Argentina. Non signore; siete il più bel vecchietto di questo mondo.

Pantalone. E dai co sto vecchio: ti xe una temeraria.

Argentina. Ma sono la vostra cara Argentina.

Pantalone. Galiottazza! te bastonerò.

Argentina. Aguzzino.

Pantalone. A mi aguzin?

Argentina. Se volete bastonare una galeotta!

Pantalone. No ti parli che no ti dighi un sproposito.

Argentina. Tacerò dunque.

Pantalone. Sì, tasi, che ti farà ben.

Argentina. Voleva dirvi una cosa, ma non la dico più.

Pantalone. Cossa me volevistu dir?

Argentina. Oh, non ve la dico più.

Pantalone. La sarà qualche impertinenza al solito.

Argentina. Anzi era una cosa bella bella, la più bella di questo mondo.

Pantalone. Via, dimela.

Argentina. Oh, non parlo più.

Pantalone. No me far andar in collera.

Argentina. Non la dico certo. È una cosa che vi darebbe gusto; ma non la dico. [p. 230 modifica]

Pantalone. Se no ti me la disi, no te vardo mai più.

Argentina. Ve la dirò e non ve la dirò.

Pantalone. In che maniera?

Argentina. Colla bocca no certo.

Pantalone. Ma come donca?

Argentina. Ve la dirò colle mani.

Pantalone. Colle man? Via mo. (s’accosta ad Argentina)

Argentina. Signor no, alla larga.

Pantalone. Ma come colle man alla larga?

Argentina. Non sapete voi parlar colle mani?

Pantalone. Sì ben; me l’arrecordo co giera putello.

Argentina. Osservate. (alza le due dita indice e medio)

Pantalone. V.

Argentina. (Alza il dito mignolo.)

Pantalone. I, vi...

Argentina. (Alza nuovamente due dita, indice e medio.)

Pantalone. V.

Argentina. (Forma un cerchio colle due dita pollice e indice.)

Pantalone. O, vo...

Argentina. (Tocca coll’indice ed il pollice l’estremità dell'orecchia.)

Pantalone. G.

Argentina. (Alza il dito indice.)

Pantalone. L.

Argentina. (Alza il dito mignolo.)

Pantalone. I.

Argentina. (Torna a far il cerchio col pollice e coll’indice.)

Pantalone. O, voglio. Vi voglio. Cossa voleu?

Argentina. (Piega il dito medio inarcato, accostandolo alla metà dell’indice.)

Pantalone. B.

Argentina. (Accosta l'indice all'occhio.)

Pantalone. E, be...

Argentina. (Stacca dalle altre dita l’indice e il medio, e li stende colle punte all’ingiù.)

Pantalone. N. (principia a rallegrarsi)

Argentina. (Torna a toccar sotto l’occhio coll'indice.) [p. 231 modifica]

Pantalone. E, ne, bene. Me voleu ben, cara?

Argentina. (Colla mano dritta si tocca il petto.)

Pantalone. P.

Argentina. (Fa il cerchio coll'indice ed il pollice.)

Pantalone. O, po...

Argentina. (Fa un semicircolo colle due dita suddette.)

Pantalone. C. (principia a rattristarsi)

Argentina. (Fa il cerchio rotondo, come sopra.)

Pantalone. O, co, poco. (melanconico)

Argentina. (Alza le due dita indice e medio.)

Pantalone. V. (melanconico)

Argentina. (Fa il cerchio, come sopra.)

Pantalone. O.

Argentina. (Alza il dito mignolo.)

Pantalone. I, voi.

Argentina. (Forma mezzo cerchio col pollice e l’indice, e l’accosta alla bocca, con che le punte del mezzo cerchio toccano i laterali delle labbra.)

Pantalone. A.

Argentina. (Stacca tre dita dalle altre, pollice, indice e medio, e le rivolta colle punte in giù.)

Pantalone. M.

Argentina. (Accosta l’indice adocchio.)

Pantalone. E, me, voi a me...

Argentina. (Abbassa le due punte dell’indice e del medio.)

Pantalone. N.

Argentina. (Alza il dito mignolo.)

Pantalone. I.

Argentina. (Accosta l’indice all’occhio.)

Pantalone. E.

Argentina. (Torna ad abbassar le due punte dell’indice e del medio.)

Pantalone. N.

Argentina. (Attraversa l’indice della mano dritta a quello della mano sinistra.)

Pantalone. T.

Argentina. (Torna ad accostar l'indice all'occhio.) [p. 232 modifica]

Pantalone. E, te, niente. Mi gnente? Aspettè. (fa diverse figure colle dita per esprimersi, ma non esprime niente di bene) Mi... a- vu tanto... che... mai... più... Ve lo digo colle man, colla bocca, col cuor e colle visceronazze.

Argentina. Mi date licenza ch’io parli?

Pantalone. Sì, parla.

Argentina. Non vi credo.

Pantalone. Giera meggio che ti tasessi.

Argentina. Se mi volete bene, m’avete da far un piacere.

Pantalone. Cossa vustu?

Argentina. Ho veduto passeggiar nel cortile il signor Ottavio; l’avete da ricevere e gli avete da far buona ciera.

Pantalone. Te l’ho dito delle altre volte: mi no vôi seccature. Vegno in campagna per góder la mia libertà, no vôi visite, no vôi complimenti, no vôi nissun.

Argentina. Mi avete pur promesso di riceverlo.

Pantalone. Ho dito de sì, perchè colle to smorfie ti m’ha fatto dir de sì per forza. Ma te digo che no voggio nissun.

Argentina. Siete pur sofistico.

Pantalone. O sofistico, o altro, la voggio cussì.

Argentina. Siete peggio d’un satiro.

Pantalone. Son chi son, e no me stè a seccar.

Argentina. Più che andate in là, più diventate rabbioso.

Pantalone. Vustu taser, frasconazza?

Argentina. Siete insoffribile.

Pantalone. A mi, desgraziada?

Argentina. Ma son la vostra cara Argentina. (ridendo con grazia)

Pantalone. (Siestu maledetta! co son per andar in collera, la me fa zo). (da sè)

Argentina. Ma sono la vostra cara Argentina.

Pantalone. Sì, baronazza, sì, te voggio ben... ma ti gh’ha una lengua...

Argentina. E mi farete questo piacere. (con vezzo)

Pantalone. De cossa?

Argentina. Di ricevere il signor Ottavio. (come sopra) [p. 233 modifica]

Pantalone. Ma cossa t’importa a ti?...

Argentina. Sì, lo riceverà il mio caro papà. (gli fa dei vezzi)

Pantalone. Papà ti me disi?

Argentina. Il papà vuol bene alla tatta.

Pantalone. Sì, te voggio ben.

Argentina. E lo riceverà.

Pantalone. Mo per cossa?...

Argentina. Lo riceverà il nonno; lo riceverà.

Pantalone. Anca nonno?

Argentina. Il bel nonnino!

Pantalone. Vustu fenirla co sto dirme nonno?

Argentina. Il nonnino bello, il papà bello, il padrone bello, che mi vuol tanto bene! Eccolo, eccolo. Venga, signor Ottavio. Signor sì, per la sua Argentina lo riceverà. Oh, guardate chi dice che non mi vuol bene? Signor sì; mi vuol tanto bene, e per amor mio lo riceverà. Caro papà! lo riceverà. (parte)

SCENA V.

Pantalone, poi Ottavio.

Pantalone. Chi poi responder, responda. La m’incanta, la me incocalisse2; e no so cossa dir. Mi son de natura piuttosto caldo, piuttosto furioso; e custìa la me reduse co fa un agnello. Velo là ch’el vien el sior Ottavio. La gh’ha dito ch’el vegna, e el vien. Mi so che premura che gh’ha custìa per sto sior Ottavio, perchè Flaminia ghe xe innamorada, e chi sa che Arzentina no gh’abbia gusto che marida le mie putte, sperando po dopo che mi la voggia sposar? No la la pensarave miga mal. Questo xe giusto quel che penso anca mi. Xe vero che la me dise che son vecchio, che la me dise papà, che la me dise nonno; ma vedo che la me vol ben.

Ottavio. Servitor divotissimo, signor Pantalone.

Pantalone. La reverisso, patron. [p. 234 modifica]

Ottavio. (Fa qualche atto d'ammirazione sul saluto triviale di Pantalone.)

Pantalone. Ala qualcossa da comandarne?

Ottavio. Non signore. Son qui per fare una certa compera di beni e vado divertendomi osservando la villa.

Pantalone. La vol comprar dei beni? Dove comprela? Chi ghe xe che voggia vender? Anca mi, per dirghela, aspiro a far qualche acquisto; ma, che sappia mi, nissun vende.

Ottavio. Contentatevi che mi è stato fatto il progetto. A chi ha danari contanti nello scrigno, non manca il modo di fare acquisti.

Pantalone. In grazia, se la domanda xe lecita, xelo un acquisto grosso?

Ottavio. Eh, una piccola bagattella. Per centomila ducati.

Pantalone. Aseo! una piccola bagattella? (L’ha sbarà un cannon da sessanta). (da sè)

Ottavio. Ma non mi piace la terra.

Pantalone. No la ghe piase? E sì mo in ancuo Mestre xe deventà un Versaglies in piccolo. La scomenza dal canal de Malghera, la zira tutto el paese, e po la scorra el Terraggio3 fin a Treviso. La stenterà trovar in nissun logo de Italia, e fora d’Italia, una villeggiatura cussì longa, cussì unita, cussì popolada come questa. Ghe xe casini che i par gallerie; ghe xe palazzi da città, da sovrani. Se fa conversazion stupende; feste da ballo magnifiche; tole spaventose. Tutti i momenti se vede a correr la posta, sedie, carrozze, cavalli, lacchè; flusso e reflusso da tutte le ore. Mi m’ho retirà fra terra, lontan dai strepiti, perchè me piase la mia libertà. Per altro sento a dir che a Mestre se fa cossazze; che se spende assae; che se gode assae; e che se fa spiccar el bon gusto, la magnificenza e la pulizia de tutti i ordeni delle persone che fa onor alla nazion, alla patria e anca all’Italia medesima.

Ottavio. Eh! val più il mio feudo, che non val tutto Mestre e tutto il Terraglio insieme.

Pantalone. La gh’ha un feudo? no l’ho miga mai savesto. [p. 235 modifica]

Ottavio. Ne ho più di uno. Ma sono cose ch’io non le dico. Non faccio ostentazione delle cose mie.

Pantalone. La gh’averà anca el titolo!

Ottavio. Ho titoli, ho feudi, ho tutto quello che si può avere. Ma non parliamo di questo. Son qui, come diceva, per un affare; e son venuto a vedere la vostra villa.

Pantalone. La vederà un tugurio, una spelonca, un lioghetto da poveromo. Mi no gh’ho feudi; mi no gh’ho grandezze.

Ottavio. Ciascuno deve contentarsi di avere le cose a misura del grado. Io non lodo quelli che fanno dell’ostentazione.

Pantalone. Se vede ch’ela xe un signor pien de modestia; no ghe piase de far grandezze.

Ottavio. No certamente. Alla mia tavola ci può venire ogni giorno chi vuole, ma non invito nessuno.

Pantalone. Anca mi son cussì. Alla mia tola no invido nissun.

Ottavio. Fate benissimo: dagli amici si va senza essere invitati.

Pantalone. Se va dove se xe seguri de trovar una bona tola; ma da mi se sta mal.

Ottavio. In villa non si fanno trattamenti. Ogni cosa serve.

Pantalone. In villa, come ghe diseva, chi pol, fa pulito; ma mi no posso, e no fazzo gnente.

Ottavio. Qui fra terra ogni cosa serve.

Pantalone. Ma anca fra terra se magna.

Ottavio. Voi non mangiate?

Pantalone. Poco.

Ottavio. Fate benissimo. Il troppo cibo pregiudica la salute.

Pantalone. Mi e la mia fameggia semo avezzai cussì. Ma chi xe uso a tole grande, no se pol comodar.

Ottavio. Io per solito mangio pochissimo.

Pantalone. Mo se la fa una tola che poi vegnirghe chi vol.

Ottavio. Lo faccio per gli altri; lo faccio perchè mi piace spendere, perchè mi piace trattare; ma io sono regolatissimo: una zuppa, un pollastro, due fette di fegato, un po’ d’arrosto mi serve. [p. 236 modifica]

Pantalone. Qua da mi mo, védela, se magna fasiòi4, carne de manzo, polenta...

Ottavio. Benissimo: vero pasto da campagna. Mi piace infinitamente, e la compagnia è il miglior condimento del mondo.

Pantalone. E quel che me piase a mi, xe magnar solo, senza suggizion de nissun.

Ottavio. Oh sì, la soggezione è la peggior cosa del mondo. Io, dove vado, non ne do e non ne prendo.

Pantalone. Mi mo son cussì de sto cattivo temperamento, che me togo suggizion de tutti.

Ottavio. Bisogna distinguere. Di me, per esempio, non vi avreste da prendere soggezione.

Pantalone. Oh, la se fegura! D’un feudetario no la vol che me toga suggizion?

Ottavio. Lasciamo andare queste freddure. Io vi son buon amico.

Pantalone. (El sior feudetario el vorria piantar el bordon in casa mia; ma no femo gnente). (da sè)

Ottavio. Frattanto che arrivano i miei lacchè ed i miei cavalli del tiro a sei, resterò qui con voi, se mi permettete.

Pantalone. Li aspettela da lontan?

Ottavio. Da Treviso li aspetto.

Pantalone. Mo no vienla da Venezia?

Ottavio. Sì, è vero. Ma ho mandato ad accompagnare a Treviso colla mia carrozza e col mio equipaggio un milord mio amico.

Pantalone. Ma no gh’ho miga logo, sala, nè per carrozza, nè per cavalli.

Ottavio. Subito che sono arrivati, io parto.

Pantalone. Quando crédela che i possa arrivar?

Ottavio. Spererei che potessero arrivar domani.

Pantalone. Doman? La vorria star qua sta notte? No gh’ho letti, patron...

Ottavio. Non crediate... [p. 237 modifica]

Pantalone. Mo ghe digo che no gh’ho letti.

Ottavio. Non importa di letti. La notte si giuoca, si sta in conversazione. Per una notte non si patisce.

Pantalone. In casa mia a ventiquattr’ore se serra le porte.

Ottavio. Signore, per quel che sento, voi non mi volete in casa vostra.

Pantalone. Cara ela, ghe sarà tanti a Mestre che gh’averà ambizion de recever in casa un soggetto della so qualità. Mi son un poveromo. No gh’ho da trattarla come la merita.

Ottavio. A me piace in campagna la libertà, la confidenza; non mi curo di queste grandezze. Quando voglio stare con magnificenza, vado nei miei palazzi, nelle mie ville. Mi diverto coi miei giardini, colle mie fontane, colle mie caccie riservate; non mi fanno specie queste freddure che voi mi vantate; amo piuttosto questa vostra semplicità. Qualche volta mi trattengo assaissimo volentieri con i miei pastori, con i miei villani.

Pantalone. M’ala tolto per un pastor? per un villan?

Ottavio. Ah no, amico, di voi fo quella stima che meritate.

Pantalone. Vorla che ghe la diga in bon lenguazo, da bon venezian? La compatissa; ma qua no ghe xe logo per ela.

Ottavio. Signor Pantalone, voi non mi conoscete.

Pantalone. Mi zente della so sfera no ghe ne cognosso e no ghe ne vôi cognosser.

Ottavio. Io sono uno che vi stima e che vi ama.

Pantalone. Grazie infinite, patron.

Ottavio. E che sia la verità... Argentina v’ha detto nulla?

Pantalone. La m’ha dito ch’ela la se voleva incomodar de vegnirme a onorar.

Ottavio. E non v’ha detto niente di più?

Pantalone. No la m’ha dito altro.

Ottavio. Bene: ho da parlarvi di qualche cosa che preme.

Pantalone. La parla. Son qua per sentir.

Ottavio. No, caro amico, non mi prendete così su due piedi. Parleremo con un poco di posatezza. Dopo pranzo, questa sera... [p. 238 modifica]

Pantalone. Sior feudetario, m’ala capio? o no me vorla capir?

Ottavio. Circa a che?

Pantalone. Circa che in casa mia no voggio nissun.

Ottavio. Ho capito; vi riverisco.

Pantalone. Servitor umilissimo.

Ottavio. Un affronto simile non mi è stato fatto da chi che sia.

Pantalone. Mi no intendo de farghe affronto. In casa mia, la me compatissa, no vôi suggizion.

Ottavio. Ma se io non ve ne darò.

Pantalone. Ma se no voggio nissun.

Ottavio. Ditemi almeno il perchè.

Pantalone. Perchè mo anca, co la vol che ghel diga, gh’ho do putte da maridar...

Ottavio. A proposito delle figlie da maritare ho da parlarvi.

Pantalone. La parla.

Ottavio. Ma non adesso.

Pantalone. Quando donca?

Ottavio. Oggi, stassera.

Pantalone. Dove xela allozada?

Ottavio. In nessun luogo.

Pantalone. Oe, Brighella. Dove seu?

SCENA VI.

Brighella e detti.

Brighella. La comandi.

Pantalone. Inségneghe a sto signor dove xe l’osteria.

Ottavio. Ma io, signore...

Pantalone. La xe bona osteria; la vederà che la sarà ben trattada.

Ottavio. Dunque voi...

Pantalone. Sior feudetario, ghe son servitor. (In tel stomego). (da sè, e parte) [p. 239 modifica]

SCENA VII.

Brighella e Ottavio.

Ottavio. (Ah! non mette conto di riscaldarsi per questo. Quando si vuol bene, si soffre). (da sè)

Brighella. Se la comanda, la resti servida.

Ottavio. Dove?

Brighella. All’osteria, signor.

Ottavio. Giudichi tu che i miei pari vadano alle osterie?

Brighella. No so cossa dir, signor; so che alle osterie ghe van i primi signori, i primi cavalieri de rango.

Ottavio. Sì, alle locande, agli alberghi, non ad un’osteria da campagna.

Brighella. E pur la me creda che i tratta ben, con civiltà e con pulizia.

Ottavio. Eh, non sapranno far niente di buono.

Brighella. Basta spender, i fa de tutto.

Ottavio. Spender quanto? Una doppia al giorno?

Brighella. Oh! assae manco.

Ottavio. Io non spendo meno.

Brighella. Per quanti, signor?

Ottavio. Per me solo. Alla servitù do danari.

Brighella. Veramente per una doppia al zorno non so se i gh’averà tanto.

Ottavio. Vi sarà almeno un poco di salvatico?

Brighella. Ho paura de no.

Ottavio. Sapranno fare salse, torte, pasticci.

Brighella. Oh! de sta roba in campagna?

Ottavio. Queste sono cose che ci vogliono per un galantuomo.

Brighella. Ghe son tanti galantomeni che fan senza ste cosse.

Ottavio. Il vostro padrone come si tratta?

Brighella. Alla casalina, ma no gh’è mal. La so manestra, per consueto de risi o de pasta fina.

Ottavio. Sì.

Brighella. La so carne de manzo, con un bon capon. [p. 240 modifica]

Ottavio. Buono.

Brighella. Un rosto de vedèlo o de oseletti.

Ottavio. Ottimamente.

Brighella. Un piatto de mezzo, che voi dir o un stufadin, o quattro polpette e cosse simili, el so formaggio, i so frutti.

Ottavio. Una cosa che va benissimo. Dite al vostro padrone che assolutamente voglio essere a pranzo con lui.

Brighella. Ma no gh’è torte, no gh’è pastizzi, no gh’è salvadego.

Ottavio. Non importa. In un altro genere questo trattamento mi piace.

Brighella. Ella è avvezza a spender una doppia al zorno.

Ottavio. La doppia che dovrei spendere all’osteria, la regalerò a voi. Fatemi restare a pranzo col vostro padrone.

Brighella. La me vol donar una doppia?

Ottavio. Sì, ve la prometto.

Brighella. No sarà per el desinar; sarà per qualcoss’altro.

Ottavio. Per che vorreste dire che fosse?

Brighella. Son omo del mondo, sala, lustrissimo.

Ottavio. Bravo; con questi uomini mi piace assaissimo aver che fare. Se mai il signor Pantalone vi licenziasse, fate capitale di me.

Brighella. Ghe n’ala bisogno de servitori?

Ottavio. Non ne ho bisogno: ne ho quattordici; ma quando mi capita un uomo di garbo, lo prendo per soprannumerario.

Brighella. E cossa dala de salario, se è lecito?

Ottavio. Tutto quel che vogliono. Due doppie per il salario; sei zecchini per la panatica. Livrea, piccolo vestiario, gli spogli del mio guardarobe. Mancie ogni mese, ricognizioni quando servono bene, e gli avanzi della mia tavola, che qualche giorno costa cento zecchini.

Brighella. (Oimei, troppa roba!) (da se)

Ottavio. Giacchè dunque avete capito, operate per me. Mi preme restare: non per la tavola, che non serve nemmeno per i miei servitori, ma per qualche altro fine; già mi capite. Portatevi bene con me, ch’io tratterò bene da mio pari con voi. [p. 241 modifica]

Brighella. No la se dubita; la lassa far a mi.

Ottavio. Mi tratterrò in questi contorni, dove penso di comprare duemila campi. Intanto osserverò dove si può piantare un palazzo.

Brighella. (Una bagattella). (da sè) Lustrissimo, se la me pagasse da bever l’acquavita?

Ottavio. Sì, volentieri. (tira fuori la borsa, e versa i denari nella palma della mano, mostrandoli con affettazione) Ecco qui la borsa delle piccole monete: prendetevi quel che vi piace.

Brighella. La borsa delle piccole monete? Ghe son dei zecchini.

Ottavio. Tutte piccole monete: servitevi.

Brighella. (Squasi, squasi, torria mi...) (da sè)

Ottavio. Animo.

Brighella. Se togo un zecchin?...

Ottavio. Eh via, siete così timido? Tenete, così alla sorte, (gli dà una moneta, mostrando di non guardarla.)

Brighella. I xe do soldi, sala?

Ottavio. Amico, ci siamo intesi.

Brighella. Sta moneda...

Ottavio. È vostra. Quel che ha fatto la sorte, sia ben fatto. Portatevi bene, e metteremo mano alla borsa grande.

Brighella. Ma sta volta...

Ottavio. Se venissero qui i miei camerieri, i miei lacchè, i miei cocchieri, dite loro che sono poco lontano. (parte)

SCENA VIII.

Brighella, poi Traccagnino.

Brighella. Mo son pur sfortunà! EL tol a sorte della moneda, e vien su do soldi. Ma ho paura che el ghe veda assae colla coa dell’occhio; el me par un boccon de dretto! Basta, se posso, vôi rischiar de vadagnar sta doppia. No gh’è altro che Arzentina che sia capace de far far el vecchio a so modo; e per mi pol esser che la lo fazza. So che piuttosto la me vol ben. Chi è costù che no lo cognosso? [p. 242 modifica]

Traccagnino. O de casa, se pol vegnir?

Brighella. Vegnì avanti, galantomo; chi domandeu?

Traccagnino. Un tal sior Ottavio l’averessi visto?

Brighella. L’è andà via giusto adesso; el pol esser poco lontan.

Traccagnino. Rèstelo qua a disnar?

Brighella. Pol esser de sì e pol esser de no.

Traccagnino. Mi so ch’el sperava de sì.

Brighella. Poi esser anca de sì. Chi seu vu, amigo?

Traccagnino. Mi son el so servitor.

Brighella. In che grado? De camerier, de staffier, de lacchè, de cogo, de carrozzier? Che fegura feu con lu?

Traccagnino. Tutto quel che volè.

Brighella. Come? Tutto quel che voio? Che incombenza è la vostra?

Traccagnino. De tutto quel che volè.

Brighella. Mi no ve capisso.

Traccagnino. Son camerier, staffier, cogo, lacchè. Tutto, fora de cocchier, perchè el patron no gh’ha carrozza.

Brighella. Cossa diavol diseu? Nol gh’ha altri servitori che vu?

Traccagnino. Mo nol ghe n’ha altri lu.

Brighella. Se el dise ch’el ghe n’ha quattordese, e po i sopranumerari.

Traccagnino. Sior sì, el dise ben, perchè mi fazzo per quattordese servitori.

Brighella. Mi resto de sasso. Cossa ve dalo de salario?

Traccagnino. Otto lire al mese.

Brighella. Otto lire? Altro che do doppie! E per le spese?

Traccagnino. Do caraffine de vin, quattro soldi de pan, e sie soldi per el companadego.

Brighella. Pulito. La livrea?

Traccagnino. Eccola qua, tacconada come che la vedè. Bandiera vecchia, onor de capitano.

Brighella. Nol ve dà i spoggi del guardaroba?

Traccagnino. Oh, tutto quel ch’è in tel guardaroba, l’è tutto mio.

Brighella. Ghe sarà della bella roba. [p. 243 modifica]

Traccagnino. L’è pien dall’alto al basso.

Brighella. Pien de cossa?

Traccagnino. De tele de ragno.

Brighella. Lo voleva dir, che parlevi con qualche misterio. L’è donca un poveromo el vostro patron.

Traccagnino. No l’è poveromo come i poveromeni; ma no l’è gnanca ricco come i ricchi. El xe cussì e cussì; ma nol vorria comparir cussì. Tra la testa e la scarsella el gh’averà centomile e dusento zecchini all’anno d’intrada. Taggiemo el numero a mezzo: dusento in scarsella e centomile in testa.

Brighella. Bravo da galantomo. De che paese seu, amigo?

Traccagnino. Bergamasco.

Brighella. Son bergamasco anca mi. Semo paesani.

Traccagnino. Ho gusto d’aver trova un paesan. Se ve bastasse l’anemo de trovarme un patron.

Brighella. No stè ben con quel che sè?

Traccagnino. Se mor de fame.

Brighella. Con dusento zecchini d’intrada, un omo solo el poderia anca viver da galantomo.

Traccagnino. Sì, se nol li buttasse via in grandezze. Ogni anno el vol do abiti novi. È vero ch’el vende i vecchi, ma gnanca per la mità. El vol palco in tutti i teatri, per dir per le botteghe: ho palco per tutto; el s’inzegna po a vender la chiave, ma el ghe remette del soo. El zuna50 sie zorni della settimana, e po el spenderà sie zecchini a dar da disnar. El tol barca al traghetto e el ghe mette la livrea al barcariol, per dar da intender che l’è barca soa; e s’el spende sie, el dis che l’ha speso trenta; e quando nol ghe n’ha più, coi sie soldi che el m’ha da dar a mi, el magna elo, e mi, se vôi viver, bisogna che m’inzegna a far el facchin.

Brighella. Stago fresco donca mi che el m’ha promesso una doppia.

Traccagnino. Per cossa ve l’alo promessa? [p. 244 modifica]

Brighella. Ve dirò, semo paesani, se pol parlar. Credo che el sia innamorà in una delle mie padrone.

Traccagnino. Co l’è cussì, el ve la darà. Co se tratta de donne, l’è generoso; e con tutte el fa l’istesso. Basta dir che mi, co ghe vôi cavar qualcossa, me metto una carpetta6 e una scuffia, e ghe cavo qualche lirazza.

Brighella. Co l’è cussì donca bisogna procurar de servirlo.

Traccagnino. Staralo qua a desinar?

Brighella. Poi esser de sì, ve digo. Ve preme anca a vu che el ghe staga?

Traccagnino. Caro paesan, ho una fame che no ghe vedo.

Brighella. Andemo, vegni con mi, che ve darò da magnar. Ma sarè avvezzo a cosse delicate. El vostro patron no magna altro che ragù, che pastizzi.

Traccagnino. Sì, l’è vero; anca ieri avemo magnà un pastizzo de farina zala. (parte)

Brighella. Za a sto mondo no gh’è altro che boria, balloni da vento, grandezze de bocca e povertà de scarsella. (parte)

SCENA IX.

Florindo e Clarice.

Florindo. In questo io sono d’accordo col signor Pantalone. Mi piace la villa, come villa; e non farò mai città della villa.

Clarice. Ma stare in villa soli, senza praticare nessuno, è un volere inselvatichire.

Florindo. La solitudine è una bella cosa.

Clarice. Il discorrere qualche volta solleva.

Florindo. Io non parlerei mai con nessuno.

Clarice. Nè meno con me?

Florindo. Con voi qualche volta.

Clarice. Chi ama davvero, vorrebbe sempre essere vicino alla persona amata. [p. 245 modifica]

Florindo. Basterebbe questo, perchè non vi amassi più.

Clarice. Ma in che cosa passate voi il vostro tempo?

Florindo. Oh, non mancano cose da passar il tempo. La villa ne somministra bastantemente.

Clarice. Vi dilettate di fiori?

Florindo. Oibò. I fiori non mi piacciono. Sono cose da donne. Gli altri dicono che odoran di buono: a me pare che puzzino. Son belli per un poco, e poi passiscono. Oibò.

Clarice. Vi diletterete della caccia.

Florindo. Nè meno. Che cosa mi hanno fatto i poveri uccelli, che abbia io d’ammazzarli per divertimento? Per mangiar non mi piacciono. Il loro canto m’annoia: io li lascio stare dove che sono.

Clarice. V’impiegherete dunque nella coltura delli terreni.

Florindo. Queste sono cose che le lascio fare ai villani.

Clarice. Ma che cosa fate? Sempre leggere, sempre studiare?

Florindo. Leggere, studiare? non son sì pazzo. Se non tratto coi vivi, molto meno voglio conversare coi morti. Per vivere non ho necessità di studiare. Farlo per passatempo non mi comoda, io non ho altri libri in casa mia che il lunario.

Clarice. Fatemi la finezza di dirmi che cosa fate, come impiegate quelle ore che non vi vedo.

Florindo. Io le impiego benissimo. Vado a letto col sole, e col sole mi levo. M’alzo e fo una girata per i miei poderi. Vado intorno i fossi, porto meco del pane e do da mangiare ai ranocchi. Mi piace andar in un prato a cercar il trifoglio da quattro foglie. Mi fermo nella stalla dei bovi, perchè mi piace assaissimo quell’odore. Mi diverto in vedere i villani a lavorar i campi, a potar le viti. Starò, per esempio, tre ore a pranzo col mio gastaldo, e ho piacere quando lo vedo briaco. Il giorno giuoco alle pallottole da me solo; e quando vengo qui, s’intende che per amor vostro faccia uno sforzo grandissimo contro il mio naturale. Eccovi raccontato il mio sistema di vivere. Non do fastidio a nessuno, non mi curo di nessuno, e non m’importa che nessuno si curi neanche di me. [p. 246 modifica]

Clarice. Bella vita! bell’uso che fate del vostro tempo! Se sarò vostra moglie, seguiterete così?

Florindo. Io credo di sì.

Clarice. Nel vedervi soltanto, non mi credeva che foste così selvatico.

Florindo. Ora che lo sapete, regolatevi.

Clarice. Perchè volete dunque ammogliarvi?

Florindo. Perchè non ho nessuno; ho bisogno d’una moglie che mi assista e che mi governi.

Clarice. Durerete fatica a ritrovarla.

Florindo. Durerò fatica? Se non vi è altra abbondanza che di donne!

Clarice. Troverete qualche villana.

Florindo. Oh, io poi non faccio gran differenza da una donna a un’altra donna.

Clarice. Volete che ve la dica, che avete dell’asino?

Florindo. Ho per altro una cosa buona.

Clarice. E che cosa?

Florindo. Che non me ne ho a male di niente; anzi, quando mi sento criticare, ne godo e rido veramente di cuore. E vi dirò la ragione. Tutti al mondo hanno qualche pazzia: la mia è differente da quella di tutti gli altri; e siccome io condanno le altre, ho piacere che dagli altri sia condannata la mia.

Clarice. Eh già, siete di buon gusto in tutto. Hanno ragione, quando mi dicono che siete un uomo stravagantissimo.

Florindo. Sì, hanno ragione, l’accordo ancor io.

Clarice. Siete veramente un villanaccio.

Florindo. Benissimo, e così?

Clarice. Senza rispetto, senza civiltà, senza creanza.

Florindo. Vedete? Ora mi date gusto.

Clarice. E pretendereste ch’io fossi vostra moglie? Andate al diavolo.

Florindo. Se non sarete voi, sarà un’altra.

Clarice. Tanghero, somaraccio. (forte)

Florindo. Sì, tutto quel che volete. [p. 247 modifica]

SCENA X.

Argentina e detti.

Argentina. Signori miei, che cos’è questo strepito? Questo è un fare all’amore all’usanza de’ gatti.

Clarice. Già vi mancava la dottoressa, che venisse un poco a seccarmi.

Argentina. Basta ch’io non secchi il signor Florindo.

Clarice. Come sarebbe a dire?

Argentina. Perchè, se ha d’ammogliarsi, non è dover che si secchi.

Clarice. Tu non parli, se non dici delle impertinenze.

Argentina. Che cosa dice il signor Florindo? Questo matrimonio quando si fa?

Florindo. Per quel che sento, non si farà più.

Argentina. No? Perchè mai? IL signor Pantalone lo desidera, e s’ha da fare.

Clarice. Il signor Florindo vuol per moglie una contadina.

Florindo. Io non dico di volere una contadina; ma una donna che faccia tutto quello che piace a me.

Argentina. Questa è una cosa giusta. La moglie s’ha da uniformare al marito.

Clarice. Sì, quando il marito non è di una stravaganza e di un gusto depravato, come il signor Florindo.

Argentina. Per esempio, signor Florindo, come vorrebbe ella che si contenesse la di lei sposa?

Florindo. Alla buona. Senza ricci, senza tuppè, senza polvere sul capo.

Argentina. Così spettinata, arruffata.

Florindo. Come si leva dal letto.

Argentina. Benissimo; con innocenza; senza artifici. La signora Clarice starà benissimo.

Clarice. Pare a te, scioccarella, ch’io volessi andare così?

Argentina. Perdoni, signora. (a Clarice) Favorisca, come vorrebbe che andasse vestita? (a Florindo) [p. 248 modifica]

Florindo. Positiva; senza cerchio, senza trine; nè argento, nè oro, nè seta.

Argentina. Vestita di mezza lana.

Florindo. Per l’appunto.

Argentina. In verità la signora Clarice con questa semplicità parerebbe una stella.

Clarice. Tu ti burli di me, sfacciatela?

Argentina. Compatisca. (a Clarice) Circa alla conversazione, signore? (a Florindo)

Florindo. La conversazione l’ha da far con me, e al più al più coi miei contadini.

Argentina. Al più al più qualche merendina sotto d’un albero.

Florindo. Mi contento.

Argentina. Ballare qualche furlana al suono di un cembalo.

Florindo. Via, qualche volta.

Argentina. La signora Clarice...

Clarice. La signora Clarice è stanca di soffrirti. E voi, se non avete altra miglior convenienza, non fate conto di me. (a Florindo)

Florindo. Pazienza, se non averò voi, ne troverò un’altra.

Clarice. No, non la ritroverete.

Argentina. Eh sì, signora, la troverà.

Florindo. La troverò.

Clarice. Ci gioco la testa che non la ritrova.

Argentina. Giochiamo uno scudo che la ritroverà.

Clarice. Chi vuoi tu che lo prenda?

Argentina. Lo prenderò io, signora.

Florindo. Eccola, l’ho trovata.

Clarice. Non potete sperar altro che una vil serva.

Florindo. Per me vi dico che tutte le donne son donne.

Argentina. Sente, signora? Tutte siamo donne.

Clarice. Non vi è differenza dalla padrona alla serva?

Argentina. Io sto a quel che dice il signor Florindo.

Clarice. E tu, indegna, lo prenderesti?

Argentina. Lo prenderei, per liberar lei dal pericolo d’andar vestita di lana. [p. 249 modifica]

Clarice. Sei una temeraria. Il tuo ardire s’avanza a troppo. Metterti in confronto di una mia pari? No, non lo sposerai. Mio padre ha avuta per me la parola da lui. Odio le sue stravaganze, ma non soffrirò che mi faccia un affronto. Tu sei una pettegola. Florindo è un pazzo. Ma giuro al cielo, io son chi sono. (parte)

Florindo. Ridi, Argentina, che l’è da ridere. Ehi, hai tu detto da vero?

Argentina. Perchè no?

Florindo. Sai dove sto di casa. Se vieni da me, in due parole ti sbrigo. (parte)

Argentina. Non lo prenderei, se mi facesse padrona di tutto il suo. Ma ho piacere a far disperare la signora Clarice. Ella non può veder me, ed io non posso soffrir lei. In questa parte andiamo d’accordo. Mi preme all’incontro la signora Flaminia, e la servirò come va. Mi preme poi me medesima, e non perderò di vista l’interesse mio. Io l’intendo così. Rider di tutti, burlar quando posso. Farmi amar da chi voglio; e far crepar dalla rabbia chi non mi vuol bene. (parte)

Fine dell’Atto Primo.



Note

  1. Schiaffo.
  2. Mi rende stupido. Vedasi incocalio, vol. II, p. 555, n. a.
  3. La notissima strada del Terraglio, da Mestre a Treviso: v. Boerio ecc.
  4. Fagioli.
  5. Zunar, digiunare: vol. II, 492 e 555 ecc.
  6. Gonnella.