L'ombra del passato/Parte II/Capitolo I
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I.
Inginocchiata sotto la cappa del camino, la vecchia Suppèi soffiava e borbottava, accendendo il fuoco, quando una voce giovanile e ansante la chiamò dalla porta.
— Nonna? E Caterina?
— Ah, sei tu, viscere? E quando sei arrivato? — ella disse, volgendo la testa.
Un bel giovane ben vestito, con un panama da poche lire sui capelli ricci un po’ spioventi, come due grappoli neri, sulle tempia bianche e lisce, guardava dalla porta. Il suo viso curioso, ancora alquanto infantile, era illuminato da due grandi occhi sorridenti.
— Ma dov’è? — egli ripetè con impazienza.
— Verrà subito, eh! È fuori.
— Le vado incontro! — No, mi nascondo: le faccio una sorpresa! — egli disse, attraversando la cucina. Ma mentre stava per entrare nell’attigua cameretta parve ricordarsi di qualche cosa: si volse, guardò la vecchia che s’era alzata appoggiandosi al bastone e lo squadrava da capo a piedi, commossa e diffidente.
— E voi come state, nonna? Bene, vero? Oh, come siete grassa!
Ha ella scosse la testa. Non credeva alle adulazioni, lei! Era sempre la stessa, lei: sotto il suo cappello da uomo biancheggiavano i radi capelli, attaccati alle tempia e mescolati, sulla nuca, con una trecciolina gialla falsa: il naso rosso, gli occhietti vivi e le guancie ruvide ricordavano un viso di vecchio malizioso e diffidente.
— Tu, sì, sei cresciuto, ragazzo! — disse, esaminando di nuovo il vestito di lui.
Il vestito era di poco prezzo ma alla moda: corpetto chiuso, giacca lunga stretta alla vita. Questa novità pareva infastidisse la vecchia.
— Ragazzo? — egli esclamò, battendo il suo bastoncino sul bastone della Suppèi. — Maestro, signora nonna! Attenti, bambini! A, e, i, o, u; asino sei tu!
Ella parve suggestionata dalla grande parola: maestro! Il suo viso si rischiarò, la sua voce grossa s’intenerì.
— Ora verrà subito, la puttina, — riprese. Anche lei è cresciuta, in un anno! È più alta di te, mi pare! Un vero diavoletto, viscere, ma un diavoletto alto. Qualche volta però è seria, veh, molto seria. E legge i libri, anche, e i giornali, e parla come un avvocato. Quella storia scritta, che tu le hai mandato, l’ha subito letta, da cima a fondo, e pareva la sapesse a memoria, e piangeva e rideva, leggendola. Poi l’ha fatta sentire anche a me. Ho capito subito che era la storia sua e tua! li’hai scritta tu, è vero?
— È vero, è vero! Era bella? — egli domandò, ridendo.
— Bella, proprio! — affermò la vecchia, scuotendo la mano e soffiando. — Le amiche di Caterina l’hanno voluta copiare, e quest’inverno tutti la leggevano, nelle stalle, e la raccontavano come una fiaba.
— Oh, oh! — egli disse, lusingato.
— Ma lavora anche, la puttina! — riprese la vecchia coi suoi gesti espressivi, e con la sua voce ora alta e grossa, ora dolce e sottile. — Tutto quello che una donna di talento può fare lei lo fa. Vedi che son stata furba ad accoglierla ed allevarla! Appena l’ho veduta, subito ho detto: questa bambina sarà una brava ragazza. Inoltre, viscere, tu che studi i libri saprai quello che Cristo ha detto: Date da mangiare agli affamati. E quelle due creature, viscere, la bambina e la matrigna, erano anche assetate. Mangiale, bevete, viscere care. La vecchia Barberina ha poco, ma il poco che ha è vostro. Il Signore mi ha tolto il figlio, e lo ha mandato lontano, come la piuma che vola per aria. E io dissi fra me: ebbene, prendiamoci quest’altra figlia che la sorte spinge come un’altra piccola piuma. Ma ho sofferto, veh, ho sofferto, con quella donna malata. E poi ho dovuto bruciare anche il letto dov’è morta, e tutta la biancheria. Altrimenti il dottore minacciava di dar fuoco alla casa, viscere! Qualche cosa però l’ho salvata, veh, ma sia detto fra noi!
Adone sapeva già questa vecchia storia, e mentre la Suppèi chiacchierava egli pensava ad altro.
— Eccola! — disse a un tratto, e d’un balzo entrò nella stanzetta e chiuse l’uscio. Quanti ricordi! La piccola stanza umidiccia era sempre la stessa, col tavolo di noce e il cassettone ornati di conchiglie e di frutta di marmo; sopra il camino i ritratti sembravano ancora più pallidi intorno alla lugubre ligula del Maestro.
Egli guardò nel viottolo, sul quale il cielo roseo del crepuscolo di luglio spandeva una luce melanconica, e si sentì battere il cuore.
— Un anno! Quasi un anno! — egli pensava.
— E pare ieri. Caterina s’è fatta più alta di me! Come sarà bella! Ah, eccola!
— Dov’è? Dov’è? — gridava una voce fresca e sonora. — Mi han detto ch’è venuto! Nonna, nonna, dov’è?
— Ma chi, viscere?
— Il mio Adone! S’è nascosto? Ah! Bello, bello, cattivaccio! Ah, che paura!
Ella s’era precipitata nella cameretta e fra le braccia del fidanzato. Si strinsero, senza baciarsi, ridendo e palpitando. Poi Caterina cominciò a correre come una pazza, dalla stanza alla cucina, cercando il lume, cercando il cestino della spesa, dicendo desolata:
— Bisogna comprare altra roba! Non abbiamo niente! Non abbiamo che uova!
— E che è abituato a mangiar pan di Spagna? — gridò la vecchia rozzamente.
Adone non si offese: egli andava dietro a Caterina come un cagnolino e pareva beato per le smanie e il turbamento di lei. Domandò:
— Devo andar io a prendere qualche cosa?
Ma Caterina lo afferrò per un braccio:
— No, no, amore! Non muoverti, non andar via! — Pareva colta dalla paura che egli, andandosene, non ritornasse più!
La vecchia fece due o tre gesti, imitandola comicamente: poi le ordinò di apparecchiare, e Caterina obbedì, sempre più turbata e smaniosa.
Adone la seguì nella cameretta, e l’abbracciò di nuovo. Ella rassomigliava alquanto alla figlia del cordaio, così bionda, rosea, col busto provocante: solo i suoi occhi piccoli e neri avevano un’espressione diversa: erano profondi e brillanti, ma di tanto in tanto avevano come un baleno di fierezza e di cattiveria. Ella aveva conservato la sua natura infantile, le sue mani larghe e nodose, i piedi grossi, la sua andatura un po’ fiacca e dondolante: ricordava qualche cosa dei suoi avi palafitticoli: pareva che in un tempo lontano ella avesse camminato sui trampoli, attraverso foreste pantanose, e che i suoi piccoli occhi fossero abituati a scrutare i pericoli d’una natura primitiva ancora piena d’agguati e di misteri. Era una creatura di bellezza e di forza, nuova alla vita, e pronta ad ogni lotta. Mentre ella apparecchiava la tavola, Adone la guardava con desiderio, e arrossiva di piacere quando ella gli si avvicinava.
— Ti ho portato una cosa — le disse, trattandola tuttavia come una bambina. — Ma non te la dò se non indovini cos’è! Indovina!
— Ho sognato che mi avevi portato un pajo d’orecchini! Fa vedere! Presto, fa vedere!
Egli trasse di tasca un involtino e se lo pose sulla palma della mano.
— Indovina!
Ella si curvò, dando piccoli gridi di gioja: all’improvviso si gettò nuovamente al collo del giovine e lo strinse da soffocarlo. Ma poi trasalì, ricordandosi che la nonna poteva vederli, e si staccò da lui spaventata.
— Dunque, indovina! — egli ripetè, con voce turbata.
La vecchia entrò, portando tre bottiglie che mise sulla tavola.
— Tre, per non sbagliare, — disse. — In nome del padre, del figlio, dello spirito santo!
— Nonna, — disse Caterina, agitata. — Io non posso indovinare che regalo egli mi ha portato!
La vecchia prese l’involtino dalla mano di Adone, e l’aprì. C’era un piccolo ventaglio con la catenella.
— Cos’è questo bagai?1 — disse la vecchia con disprezzo. Ella non aveva mai usato un ventaglio!
La cena fu modesta ma allegra; Adone raccontava la sua umile vita di studente normale. Caterina gli ripeteva tutte le piccole cose che già gli aveva scritto durante quei lunghi mesi di lontananza.
La Suppèi ascoltava; i suoi occhietti metallici guardavano con affetto e con diffidenza i due giovani fidanzati. A un tratto Adone, raccontando il suo viaggio, disse:
— A Casalmaggiore ho perdlito il tram e son dovuto venire a piedi. Sull’argine ho incontrato Scipione, il mercantino ebreo...
— Ah! — disse Caterina, e i suoi occhi scintillarono. Adone proseguì:
— Senti che storia! Scipione stava seduto sul suo carretto carico di stoffe: aveva intorno al polso un rosario e pregava. — «E che, ti sei fatto cristiano?» urli chiesi. Egli mi rispose: «Non lo sono ancora, ma se mi va bene un affare lo diventerò!» «E allora andiamo giù nel Po che ti battezzo!» io gli dissi.
Caterina rideva, nervosamente. La Suppèi la guardò e disse:
— Hai sentito, viscere? Vuol farsi cristiano!
— Diventi pure turco, che m’importa?
— Che c’è? — disse Adone, fissando la vecchia.
— C’è, c’è...
— Nonna! Non voglio! Nonna!... — gridò Caterina, stendendo le mani.
— Bisogna dirlo, invece, viscere! — disse la Suppèi con insolita dolcezza. — Due fidanzati devono confidarsi tutto; devono essere come due specchi messi di fronte, viscere! (Si volse al giovine, di nuovo severa). Il mercantino ebreo vuole Caterina in moglie. Vuol farsi cristiano per lei.
— State zitta, nonna! Non è vero niente; eppoi è brutto, quel giovine: è brutto, vi dico! Ed è un giudeo: ha ammazzato Gesù!
Ella era quasi convulsa; ma Adone disse con semplicità:
— Veramente non è stato lui! Eppoi egli è un bel ragazzo.
Allora Caterina si alzò, andò a sedersi sulla pietra del camino e per poco non pianse. Gridava come una bimba:
— Voi volete farmi morire, ecco! Bene, morrò, ma non voglio fare neppure il caffè!
— Fa prima il caffè, poi se vuoi morire muori, — le rispose la vecchia; e curvandosi verso Adone aggiunse: — e ne ha avuto altri, sai!
Preso il caffè i due fidanzati volevano andare a passeggio; ma la Suppèi fu irremovibile.
— No, veh, cari; questo poi no!
E dovettero contentarsi di prender due sedie e mettersi sotto il pergolato davanti alla casetta, mentre la vecchia, seduta sullo scalino della porta, fumava tranquillamente la sua pipa di creta.
La notte era calda e silenziosa: la siepe odorava, attraverso il fogliame del pergolato si scorgevano le stelle tremolanti, e le lucciole che ancora passavano nell’aria scura parevano pezzettini di perla staccatisi dai grandi astri del cielo estivo. Tutto, nel cielo e nella terra, era dolcezza e silenzio, e Adone, un po' inebbriato dal vino e molto dalla vicinanza di Caterina, si sentiva felice. Dimenticava tutto ciò che l’aveva oppresso o divertito fino a poche ore innanzi: gli pareva di ricominciare una nuova vita. Sentiva ancora certe impressioni infantili: le stelle, le lucciole, il palo della siepe, sulla cui cima brillava una stella, tutto gli destava meraviglia: gli pareva che sarebbe stato felice anche se si fosse trovato solo in un deserto.
— Sono maestro! — ripeteva come a sè stesso. — Ora tutto il resto è facile. Il maestro di Casalino rinunzierà al posto: è vecchio oramai. E se egli non rinunzia e non trovo subito un altro posto, proseguirò a studiare.
— Come, come? — domandò la vecchia. — Ma non hai già finito?
— Sì, ma se continuerò a studiare altri due anni diventerò ispettore.
Egli aveva già scritto a Caterina di questo suo progetto. Ella disse:
— Sì, sì! E se la Tognina non ti aiuta, venderemo magari questa casa! La nonna me l’ha regalata. Sì, la venderemo: tanto è vecchia e un giorno o l’altro cadrà!
— E tu vuoi far schiacciare il compratore! — gridò la vecchia, sarcastica.
Poi Adone parlò d’un pranzo che la zia voleva offrire per festeggiare la sua patente.
— Anche lei crede che ora tutto sia finito e non vorrà più aiutarmi. Ma per guadagnare un po’ di denaro io, queste vacanze, darò lezioni, e poi farò le «recite in persona!» Quest’inverno io e i miei compagni abbiamo rappresentato persino la Morte civile! Son bravo, io! Il difficile sarà trovare il locale!
Poi ripresero a parlare della novella manoscritta che egli aveva mandato a Caterina. Ella la sapeva tutta a memoria, e ne recitava qualche brano, con voce commossa. Egli sorrideva, ma in fondo si sentiva lusingato per il successo della sua opera.
«...Elena e Paride, — recitava Caterina, — così si chiamavano i due fanciulli orfani, erano cresciuti assieme, allevati per carità dai loro parenti. Nessuno li amava: un giorno però essi s’incontrarono e diventarono amici. Si vedevano tutti i giorni, d’inverno e d’estate, pei campi verdi e sconfinati, o sulla riva del fiume che trascorreva solenne e azzurro come un lembo di mare. Si raccontavano le loro pene; ma qualche volta anche litigavano. Essi non si accorgevano ancora di amarsi, di essere già avvinti l’una all’altro come la vite all’albero!...»
— Com’è bello, qui! — ella commentò, con ammirazione sincera. — Però quel nome di Paride non mi piace molto.
— È più bello «Scipione»?
Ella trasalì, respinse la mano che egli le metteva sulle ginocchia.
— Eppure, bisogna parlarne... più tardi... egli le sussurrò all’orecchio. — Mi racconterai tutto.
— Ed io non ti voglio raccontar niente!
— Vedi, è per continuare la novella.
— Ma se è finita! Quei due si sono sposati.
— Sì, ma han fatto troppo presto! Anzi mi darai la copia: voglio rivederla.
— A me piace così! Eppoi la copia non ce l’ho. L’ho prestata ad una mia amica, che vuol copiare la lettera di Elena per mandarla al suo amante.
— Sono diventato il segretario galante, anche! − egli gridò, battendo le mani.
Caterina recitò altri brani della novella.
«...Elena e Paride avevano circa la stessa età, ma egli poteva dirsi più vecchio di lei, perchè aveva sofferto di più ed era già abituato a conoscere i propri sentimenti ed a guidare le proprie azioni. Nessuno mai gli aveva dato buoni consigli: solo, quando uno dei suoi parenti lo maltrattava, l’altro era pronto a gridargli: il torto è tuo! Tutto questo perchè era debole e povero. Ed egli si convinse presto che nel mondo non c’è giustizia. Da una parte esistono i forti, dall’altra i deboli, e questi sarebbero destinati a sparire se non avessero virtù che gli altri non hanno: la pazienza, la costanza, la bontà!»
— Com’è bello! − ripetè Caterina.
Ma una voce ironica risuonò:
— Chi è bon è.....
Era la vecchia, che ascoltava attentamente la «storiella». Senza accorgersene Caterina dava al suo racconto l’intonazione e le sfumatore di voce che la Suppèi soleva dare alle sue fiabe, quando si degnava narrarne qualcuna ai bimbi del vicinato.
«... Paride non era bello, ma poteva dirsi simpatico. Era slanciato, svelto, con due occhi pieni di fuoco. Egli amava il bello, il buono: avrebbe voluto esser forte per ajutare i deboli, ricco per ajutare i poveri. Elena era bionda e fresca come Venere appena uscita dalle onde! Ella era anche forte e sincera. Non soffriva le ingiustizie, e solo una volta — Paride ricordava — ella aveva sopportato con pazienza una grave ingiuria...»
— Aspetta, saltiamo... — disse Caterina, non volendo raccontare davanti alla vecchia la sua avventura con Maddalenina Dargenti.
— Racconta quando i due ragazzi s’incontrano nel bosco! — pregò la Suppèi, levandosi la pipa di bocca. — Li è bello, veh!
— Ah, aspettate, sì, ecco! «... Elena e Paride avevano quindici anni! L’età della poesia e dell’amore. Essi non si erano ancora detto di amarsi, ma se lo leggevano negli occhi ogni volta che si vedevano. Da lungo tempo avevano cessato di andar assieme a scuola, ma spesso si incontravano, e Paride, con la scusa di andar a trovare la mamma di un suo amico morto, andava in casa di Elena. La casetta della fanciulla era al limite del paese; era una povera casetta ordinata e pulita, e la nonna di Elena era una vecchia brontolona, ma piena di cuore. Lui doveva partire: aveva anche lui finito le scuole del paese, e doveva andare in una città lontana per terminare gli studi. Egli si preparava a partire, con gioia e con dolore. I suoi parenti non volevano ajutarlo, non volevano dargli un soldo. Dicevano: può lavorare, è grande oramai.
«... Un giorno, — proseguì Caterina, dopo aver inghiottito la saliva, e sospirato profondamente, — egli si recò in un paese dove c’era la fiera. Dopo aver attraversato il fiume nella barca del vecchio portiner, egli s’inoltrò nel bosco di pioppi. Camminava in fretta: egli non amava i boschi cedui, specialmente quelli che crescono sulle rive dei fiumi. Questi boschi son belli da lontano, nell’ora del tramonto, quando il sole rosso apparisce fantasticamente fra i rami argentei. Da vicino questi boschi sono incomodi. Il terreno è umido, vischioso, coperto di erbe strane e pungenti. Miriadi di moscherini nojosissimi offuscano l’aria umida e pesante. Qualche volta vi sono anche le zanzare, anche qualche biscia, e allora è brutto stare in quei boschi. Era già d’autunno; ora qua, ora là, in lontananza, s’udivano i boscaiuoli battere l’accetta sui tronchi. A che pensava il nostro Paride? Forse pensava che doveva partire, e in cuor suo diceva addio a quei luoghi. Quando ad un tratto si fermò, sussultando. Una fanciulla bionda stava seduta sull’erba, appoggiata ad un tronco di pioppo. Se in quel momento gli fosse apparsa una fata egli non si sarebbe commosso di più!»
Arrivala a questo punto Caterina non volle proseguire. La voce le tremava, come velata per pudore. Invano la Suppèi ed anche Adone la pregarono di continuare.
— Parliamo d’altra cosa! Ora son bell’e stufa di questa storia, — ella mentì.
Ma la vecchia si tolse la pipa di bocca, la vuotò per terra, la depose sullo scalino.
— Voglio continuare io, ora! — disse con la sua voce grossa, e man mano raddolcendola e abbassandola ripetè a modo suo il seguito della novella, alla quale finì col dare un colore di fiaba.
Elena s’era storto un piede, mentre si recava con un’amica alla fiera di Mezzano! L’amica era andata in cerca di qualche boscaiuolo che l’ajutasse a trasportare la fanciulla fino alla riva del Po. Vedendo Elena sola, pallida, abbandonata sull’erba, Paride si spaventò e le si inginocchiò davanti. Elena piangeva e rideva, per il dolore e per la gioja. Si guardarono e in quel momento compresero di amarsi.
— ... «Perchè sei diventato pallido?» domandò Elena. E Paride rispose: «Perchè ti amo d’immenso amore!»
— Non è così! — gridò Caterina indispettita. Così parlano i burattini!
— Tutti gli amorosi son burattini! — disse la vecchia.
E Adone rise ancora, ma protestò.
⁂
Egli ora aspetta, appoggiato alla finestra chiusa del viottolo. Le tempia gli battono: gli pare d’essere al suo primo convegno amoroso.
Caterina apre la finestra e lo accoglie nella stanzetta umidiccia che conosce già il segreto dei loro colloqui notturni. La vecchia dorme e russa: ella pretende di conoscere il cuore umano e diffida dei due fidanzati; ma crede ingenuamente che basti vigilarli quando stanno sotto il pergolato, e impedir loro di andar soli a passeggio, perchè non succeda un guajo.
Del resto il guajo non succede. Adone trema fra le braccia vigorose di Caterina, ma, come ha scritto nella sua novella, egli è abbastanza «padrone delle sue azioni» per ricordarsi che prima di possedere Caterina egli deve avere una posizione sociale.
⁂
Ora egli se ne ritorna lungo la nota strada. Risale il viottolo verso l’argine, quel viottolo stretto che pare scavato nella verzura, e, come spesso gli succede, ricorda la sua infanzia, il piccolo amico morto, che per lui è rimasto sempre un bambino. Forse anche nella memoria della madre Marco è rimasto piccolo, perchè ella ha pianto ogni volta che ha veduto Adone bambino: ma a misura che l’amico del morticino cresceva ella non ha pianto più. O forse anche nella memoria di certe persone i ricordi scoloriscono come i disegni che il tintore imprime sulla tela colorata. Non così nella memoria di Adone; egli ricorda tutto della sua vita passata. Ora l’orizzonte della sua vita è sereno come gli orizzonti primaverili della pianura: ma i ricordi del passato rimangono, sospesi su quest’orizzonte come una nuvola tenue che non vuol dileguarsi.
Quella notte egli ricordava con insistenza il morticino; si sentiva felice del suo presente, ma provava quasi il bisogno di procurarsi un pensiero triste. Così talvolta lo vinceva l’istinto di buttare un sasso nell’acqua quieta, per turbarne l’immobilità.
— Perchè Marco è nato se doveva morire prima di conoscere la vita? — egli si domandava.
Ma arrivato sull’argine egli dimenticò questo problema. La notte diventava umida e grigia, d’un grigio vellutato, sul quale il nero degli alberi, l’oro delle stelle, il chiarore del fiume apparivano come illuminati da una luce lontana che non arrivava alle altre cose e alle altre linee del passaggio.
Così entro il suo cuore, egli ora distingueva solo l’immagine di Caterina. Egli ricordava altre notti, altri viaggi di ritorno lungo il nastro d’erba che orlava l’argine verso il fiume: ma gli pareva che la sua felicità presente fosse più intensa della felicità d’altre volte. Altre volte questa gioja di amare gli rimaneva come chiusa nel cervello: ora gli scorreva nelle vene, lo irrorava tutto come una misteriosa rugiada. Ma all’improvviso egli si sentì di nuovo assalito da un desiderio di tristezza. E si accorse che scambiava la felicità col piacere.
⁂
No, egli era ebbro, ma non felice. Egli amava Caterina, ma oltre i suoi baci egli sognava una completa unione morale con lei.
Ora, d’anno in anno, questo suo sogno diventava più intenso e quindi più difficile a raggiungersi. Caterina restava quale egli l’aveva conosciuta a dieci anni: egli invece si credeva già un essere superiore, o almeno infinitamente superiore a lei.
Un dubbio, sopratutto, lo tormentava. In quegli ultimi anni egli aveva perduto completamente la fede religiosa, che del resto nessuno aveva mai coltivato in lui. Era naturalmente diventato un fervente seguace delle teorie socialiste, un assetato di giustizia. Gli pareva di esser nato con quell’istinto.
A Padova egli conviveva con altri giovanissimi studenti di scuola normale, quasi tutti anarcoidi, che ogni giorno mandavano per aria il mondo e lo ricostruivano a modo loro. Ogni giorno, forse perchè i loro soliti pasti erano poco sufficienti al loro formidabile appetito, si mangiavano qualche re e magari qualche regina. Di preti, poi, non si parli: il prete era il loro pasto favorito!
Adone era il più mite. Egli era un idealista. Voleva che si procedesse alla conquista del mondo armati non di scure, ma di pazienza e di amore. Egli non odiava i «potenti della terra» anche perchè in fondo al cuor suo s’era formata l’illusione che tutti i ricchi fossero infelici! Egli non aveva mai avvicinato un uomo ricco, ma era persuaso che avvicinandolo avrebbe avuto più da compiangerlo che da invidiarlo. Tutte le famiglie ricche, poi, egli se le figurava divise da discordie interne, destinate ad andare in rovina! Egli tirava costantemente fuori l’esempio della famiglia Dargenti.
L’amore: ecco quello che mancava ai ricchi, come del resto mancava ai poveri! L’odio di classe, poi, avvolgeva tutti in un’atmosfera torbida. Egli sognava un mondo ideale, ove tutti s’amassero e si ajutassero moralmente a vicenda. Lo preoccupavano meno le altre questioni, e specialmente la questione economica! L’uomo può vivere con poco; può diventare anche anemico, come un pochino lo era lui, ma può anche guarire.
— Anche i ricchi diventano anemici, — egli pensava, passando davanti al cancello Dargenti. — Mi ricordo, l’anno scorso la signorina Maddalena era anche lei anemica. Sembrava uno scimmiotto!... Lasciatemi avere il posto, — egli proseguì, sollevando il viso e come rivolgendosi ai pioppi immobili e neri — e vedrete come diventerò allegro e forte. Sempre passeggiate e vita allegra. Caterina...
Ecco, al pensiero di Caterina egli trasalisce sempre, di piacere e d’inquietudine. Ella sarà una moglie buona, un’amante appassionata, ma non sarà forse mai la sua compagna. Un tempo essi erano compagni, quando percorrevano l’argine, ella col suo scialle, egli col suo mantellaccio; ma non ritornerà mai il giorno in cui essi potranno ancora comprendersi come si comprendevano allora. Questo è il dubbio che lo tormenta. Egli prova una bizzarra impressione: gli pare di veder Caterina tuttora bambina, col vestitino gonfio e i zoccoli ai piedi, lontana, sullo sfondo nebbioso dell’argine. Ed egli invece è cresciuto: è diventato alto come un pioppo: un orizzonte infinito è intorno a lui.
Note
- ↑ Oggetto.