L'amor costante/Atto I
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ATTO I
SCENA I
Messer Giannino giovene, Vergilio servo.
Messer Giannino. Io t’ho detto: Vergilio, vede d’esser intorno a questa cosa; trova Marchetto; e sappi se questa ingrata di Lucrezia ha voluto degnarsi d’accettar la collana o vero s’ella, rifiutandola come gli altri presenti ch’io gli ho mandati, sta pur ostinata di voler vedermi morire.
Vergilio. Padrone, a Marchetto par tempo perso el farci piú parole perché vede che è cosa impossibile dispor Lucrezia a tôr marito o a cosa che voi voliate. E, per amor mio, non giá che pensi di far frutto alcuno, so che non mancará di fedeltá e diligenzia, sempre che noi voliamo; ma so certo che invano.
Messer Giannino. Oh Dio! Pur a costei si può dare el titolo di tutte l’ingrate e crudeli; che, giá tre anni ch’io so’ in Pisa per amor suo, non mi posso vantar ch’ell’abbia voluto una volta ricever mio presente, non ascoltar mia imbasciata, non pur contentarmi mai d’uno sguardo che non sia stato acceso di sdegno e di crudeltá. E pur io, dal mio canto, non ho mai, ch’io sappi, fatto cosa che meriti questo.
Vergilio. Troppo v’inganna la passione. Pare a quest’uomini, com’egli amano e non son amati, poter meritamente gravar le donne d’ingratitudine. E la cosa non va cosí; che le donne, come gli uomini, son libere d’amar chi lor piace senza carico di crudeltá. Ditemi un poco: perché amate voi Lucrezia, se non perché l’esser suo vi piace? Or, se voi non piacete a lei, per che causa è obligata ad amarvi al suo dispetto?
Messer Giannino. Per che causa? Perché è da persone ingrate non riconoscere i benefici ricevuti; né maggior beneficio si può fare che amar con quella fede che fo io.
Vergilio. Qual fu mai la maggior fede e ’l maggiore amore di quel che porta a voi Margarita figlia di maestro Guicciardo? Nondimeno, non solo non ve ne vien pietá, ma dite villania a chi vi parla per parte sua.
Messer Giannino. Innanzi che questa Margarita s’accendesse dei casi mei, avevo io si interamente dedicato l’animo a Lucrezia che parte non me n’è rimasto per altra donna.
Vergilio. Che sapete voi se Lucrezia, innanzi che voi l’amasse, aveva ancor ella posti i suoi pensieri altrove e in persona che piú forse l’amava che voi non fate?
Messer Giannino. Dio ’l volesse, Vergilio, che l’amor mio avesse a stare a parangone con quel di tutti gli altri che l’amano e che avesse ad esser riconosciuto il piú perfetto! ch’io non dubiterei punto.
Vergilio. Lassiam andar queste cose. Io non son per mancar, padrone, di non far sempre, intorno a quel che mi comandarete, tutto quel buono ufficio ch’io saprò; e di ciò statene sicurissimo. Ma vi vo’ prima pregar, come buon servidore, mi diate licenzia ch’io vi dica sopra questa cosa liberamente il parer mio.
Messer Giannino. Io so quel che tu mi vuoi dire, che me l’hai detto piú volte; ma tu ti perdi el tempo, ch’io ho acconcio l’orecchie a non volere intender d’altro che di Lucrezia.
Vergilio. Gli è vero. Ma, questa volta, ho animo di parlarvene un poco piú largamente; che voglio che sia l’ultima volta ch’io ve ne parli.
Messer Giannino. Di’.
Vergilio. Quand’io penso, messer Giannino, quanto, dal primo giorno che poneste il pie fuor di casa vostra (che Pedrantonio vostro padre vi mandò, con esso me insieme, di sette anni, in Roma, a provar la corte), vi sia stata favorevole la fortuna, e massime appresso papa Clemente, non posso non dolermi assaissimo che voi cosí vilmente, alla tornata di Marsilia, lassasse Sua Santitá. E per chi? Per una donna che, giá tre anni o piú che séte in Pisa per amor suo, non mostrò pur una volta di vedervi volontieri ed havvi cavato in modo di voi medesimo che, dove giá, in mezzo delle buone fortune vostre, ardevate di smisurato desiderio di riveder la patria vostra, vostro padre e li altri vostri, ora e questo e ogni altro buon desiderio avete mandato drieto alle spalle.
Messer Giannino. Tutte queste son cose fastidiose.
Vergilio. Son fastidiose perché voi volete. Quanto sarebbe stato il meglio che voi avesse caldamente seguita la servitú vostra e vi fusse trovato alla morte di Sua Santitá, giá vicino a due anni sono! che è cosa certissima che, se si considera l’affezion che vi portava e il ben che ne avete avuto, sarebbe stata poca cosa respetto a quel che vi si aggiugneva; e, dopo la morte sua, è agevole a credere che, in questo nuovo pontificato di papa Paulo, non vi sarebbe mancato il luogo vostro.
Messer Giannino. Tutto questo è tempo perso; e tanto piú che queste cose son passate.
Vergilio. Gli è vero che le cose passate non possano piú tornare; ma, con l’essempio del passato, si considera meglio l’avenire. Però sarebbe cosa molto ragionevole che voi, sollevando l’animo di questo fango dove l’avete attuffato, ve ne tornasse a Roma dove, con l’entrate che avete, potrete assai onorevolmente vivere e, praticando fra’ grandi, far prova se la Fortuna si fusse ancor pentita di favorirvi, che credo che no; e fare, un tratto, ferma resoluzione di vivervi prete senza piú vacillare; e lassar le mogli a chi le vuole: perché, insomma, — la piú quieta, la piú libera e felice vita è quella de voi preti ed è per esser ogni dí piú, se un concilio non ci ripara. E, se pur séte inclinato ad amore, in Roma non mancaranno donne, no, molto piú belle che Lucrezia non è, delle quali voi n’arete il mele e gli altri le mosche: perché i vezzi, i basci, gli abbracciamenti, le dolci conversazioni, le saporose parole, le carezzine delle donne son di voi preti; e le spese, i rimbrotti, le vilanie, i tagliuzzi, lo impaccio, le corna sono dei lor mariti. Lassate pur fare; non vi curate di moglie; e, se pur la volete, molto piú vi si appartiene tornare a pigliarla nella patria vostra.
Senza che, quando pur voi voleste tôr moglie in Pisa, molto piú vi si converrebbe questa figlia di maestro Guicciardo, per esser nobile, di etá di sedici anni, amata dal padre ed unica erede delle sue ricchezze che sono assaissime. E, oltr’a questo, v’ama tanto ch’io mi maraviglio a considerarlo. E il padre medesimamente ve ne stimula tutto ’l giorno: dove che Lucrezia si trova di etá di piú che vinti anni, serva e non figlia di Guglielmo, senza dote; e, ch’è peggio, v’odia tanto quanto voi ben sapete. Ah messer Giannino! Fate, un tratto, buon animo e, s’ella non vuol voi, non vogliate lei; e abbiate rispetto alla nobilitá vostra, all’etá, beltá e tante altre buone parti che sono in voi, per le quali infinite donne da piú che costei aranno di grazia che voi l’amiate. Non manca se non che vogliate disporre, un tratto, l’animo; che ben potrete, volendo, sí.
Messer Giannino. Quanto mi dispiacciono questi che voglion dar conseglio delle cose che non sanno e non han provato! Se tu sapessi, Vergilio, quanto io faccia conto di qualsivoglia altra donna o altra cosa al mondo, per Dio, per Dio, che tu non ti metteresti a gittar le parole al vento tante volte. Bastiti questo: che, se potesse essere rhe mi venissero alla presenzia quante donne furon mai al mondo di pregio, non sarebbe mai possibile che io non stimasse infinitamente piú ogni straccio che Lucrezia mi faccia che qualsivoglia bene che loro mi potessero fare. Sì che, se ami, Vergilio, la mia salute, come dici, ti prego, di grazia, che vogli piú presto aiutarmi che consigliarmi: perché, se non m’aiuti, sento espressamente mancarmi la vita; e invano ti dorresti poi di non aver con ogni sforzo riparato alla morte del tuo padrone.
Vergilio. Io non ho parlato cosí perch’io non abbi animo, fin che spirito sará in me, di operarmi con diligenzia in tutte quelle cose che mi commandarete; ma l’ho fatto perché, essendo io certo che non passará molto tempo, se voi pigliate costei per moglie, che voi conoscerete l’error vostro e indarno ve ne pentirete poi, io voglio sempre essere scarico d’avervi, come s’appartiene a buon servidore, predetta la veritá.
Messer Giannino. Tutto questo torni sopra di me. Vede, com’io dissi poco fa, di trovar Marchetto e saper quel ch’egli ha fatto. Io entrarò in San Martino a udir messa, che queste molliche sogliono voler messa a buon’ora: sí che, o qui o in buttiga di Guido orafo, mi troverai. E, se trovi lo Sguazza, gli dirai dove io sia: perché mi promesse d’essere, questa mattina, a grand’ora, di nuovo con Guglielmo, per disporlo a darmi Lucrezia; perché, se noi disponessimo lei e non Guglielmo, sarebbe zero.
Vergilio. Tutto farò. Andate.
Messer Giannino. Or va’. Sai? Vede, Vergilio, di non mi ingannare perché, dove tu crederesti farmi bene, saresti causa de la mia ruina.
Vergilio. Statene di buon animo. A me basta che voi non vi potrete mai doler di me ch’io non ve l’abbia detto.
SCENA II
Vergilio solo.
Misero, sventurato mio padrone! in che strano caso, in che intrigato laberinto si ritrova! Se queste nozze gli riescono, non passano quattro mesi che si pente de tutto ’l fatto; se non gli riescono, è cosa chiarissima che poco è per durar piú oltre la vita sua. E mi maraveglio che sia vivo pur oggi, considerando la stentata vita ch’egli ha fatto, giá tre anni. Egli pochissimo mangia; la maggior parte del tempo piange e si lamenta; sempre sta fisso in un medesimo pensiero il quale, profondissimo, continuamente gli rode l’animo; non dorme un’ora di tutta la notte, e quella in mille pezzi, percioché non prima è addormentato che, farneticando, si sveglia e mi chiama: — Vergilio, vien da me; Vergilio, consolami, non mi lassar morire. — E, s’io gli mostro mai l’error suo, voi vedete quanto ei m’intende. E Dio lo sa che dolor che sia el mio, considerando che un tal giovene qual è costui, bello, gentile, litterato, stimato nella corte, da sperarne moltissimo, abbia da perdere i megliori anni drieto a una donna la qual par che tanto conto ne faccia quanto della piú vil cosa ch’ella possa vedere. O donne (dell’ingrate parlo), di quanto male sète cagione! quanto meritareste che sopra di voi si facesse vendetta della vostra ingratitudine! Né altra pena saprei io trovar pari al peccato vostro se non che voi provasse, una volta, ad arder d’amore quanto questo povero di mio padrone né, per arrabbiar che voi facesse, trovasse mai chi si degnasse muoversene a compassione. Forse, forse voi non fareste tanto del grande e dello schifo. Ma io non voglio piú perder tempo, avendo a trovar Marchetto. Sará buono che io vada di qua; che, a questa ora, egli sará in piazza.
SCENA III
Messer Ligdonio poeta, Panzana servo.
Messer Ligdonio. Malann’aia l’anima degli morti tuoi, Panzana! Aggioti sempre accorgere d’ogni piccola cosa, che mai per te medesimo indenni cosa nesciuna?
Panzana. Chi arebbe pensato mai di farvi dispiacere a ridere quando voi, ragionando, dite qualche bella caprestaria, come faceste iersera?
Messer Ligdonio. Tu sei poco pratico. Li servitori buoni non hanno da ridere in presenzia delli padroni quanno nce sono forestieri e massimamente femmene a chi io voglia bene; como fo iere a sera, a quella veglia in casa di mastro Guicciardo.
Panzana. Oh! Non v’intenderebbe tutto ’l mondo.
Messer Ligdonio. Perché?
Panzana. Perché voi fate l’amore oggi con questa e domane con quella. E io non arei mai pensato che iersera, a quella veglia, vi fusser donne che vi piacessero; perché mi credevo ch’ai presente fusse la vostra amorosa madonna Chiostrina.
Messer Ligdonio. Sapíentis est mutare propositum acciò che le male lingue, dopo molto fantasticare che fanno sopra de’ casi miei, non s’apponghino a lo vero e non mi iudichino con rascione.
Panzana. Come se ci fusse gran pericolo coi casi vostri!
Messer Ligdonio. Senza ch’io te porria risponnere ca tu trovarisse poche che fossero chiú patroni della persona soa che son io della mea; che, se leisse l’Epistole d’Ovidio e la Bucolica, trovarisse infiniti che se sono ancisi issi stissi per amore. E io, tutto lo contrario, tanto m’enamoro quanto voglio; non me lasso metter legge a femmene. Se issa mi fa bona cera, m’enamoro; se me la fa trista, la lasso e trovone un’autra che me la faccia bona. E cosí non aggio mai se non piacer de l’amore, lassando li selluzze e li sospiri a chi li vòle. Che te ne pare? Tu ti chiudi la bocca. Che vuoi dicere?
Panzana. Scoppio di voglia di ridere; e, per rispetto de’ forestieri, tengo la bocca, ché non rida.
Messer Ligdonio. E dove son li forestiere?
Panzana. Eccone qua tanti.
Messer Ligdonio. De chesti non importa. Ride pure. Isse sono a Siena e noi siamo a Pisa.
Panzana. Ah! ah! ah! ah! ah!
Messer Ligdonio. De che diavolo ride, de che?
Panzana. Della vostra sapienzia, che v’innamorate delle donne a vostro vantaggio. In fine, e’ bisogna praticare con chi ha studiato, a volere diventar savio.
Messer Ligdonio. Si; ma se conosce male ca pratiche in casa mea, che ogni giorno ne sai manco. Ma fa’ che non t’intervenga chiú com’a sera. Mò te lo dico per sempre. Quanno me vedi infra la gente, sforzati de star remisso e non parlare, se non te parlo; non ridere, non responnere, se non te chiamo; e sta’ che sempre para ch’abbi paura de’ fatti miei. Quanno po’ sarimmo infra nuie, pazzeia, burla, baciami e fa’ chello che vuoi, ca non me ne curo.
Panzana. Ah! ah! ah! Questo non farò io.
Messer Ligdonio. Perché?
Panzana. Come «perché»? S’io vi baciasse e che lo sapesse la vostra innamorata, mi farebbe amazzar vivo vivo. Baciarvi? Non mi ci cogliete.
Messer Ligdonio. Ah! ah! ah! Crederia essa ca non ce ne fosse la parte soia? Ma l’aggio detto per una manera de parlare, per mostrane ca, da solo a solo, non faraggio mai lo granne con ti eco.
Panzana. Poi che noi siam dunque qui tra noi, messer Ligdonio, di grazia, ditemi: qual è quella che vi piace di quelle donne ch’erono iersera in casa di maestro Guicciardo?
Messer Ligdonio. Quisto è no gran secreto. Te lo voglio dicere. Vede de tener la lingua in bocca.
Panzana. Non la sputarò; non dubitate.
Messer Ligdonio. Io voglio che sappi, per scoprirte meglio l’animo mio, che lo maggior pensiero ch’aggia avuto tutto lo tempo della vita mia non è stato mai amore, conio te piensi, ma è stato solo uno desiderio grandissimo di aver da spennere.
Panzana. Tanto è stato el mio. Odi che coglionaria!
Messer Ligdonio. E te iuro che, per arricchire, non me saria curato de farmi prete e di pigliar mogliere a uno medesimo tempo, pur che fussero venuti denari freschi. Ma, perché sappi la veritá, aggio pensato di pigliar per moglie questa Margarita de maestro Guicciardo. Lo patre non n’ha autra e è ereda sola di tutte le sue ricchezze. Lo fatto sta che se ne contentin essi. Ma spero che sí, perché lo maggior amico che aggia al mondo quisto maestro Guicciardo è quel Guglielmo da Villafranca lo quale, da poi che vinne di Spagna forenzuto e che ha accatato quella possessione vicina alle meie, sempre è stato mio. Io l’aggio parlato stamattina e dettole la cosa. E m’ha impromesso di parlarne oggi con maestro Guicciardo; e pienza di fare quarche frutto. E lo creo: perché, ancora che non sea ricco, manco son povero; e son gentiluomo del seggio di Capuana, stimato; e de virtude non bisogna dicerete. Giá aggio comenzato a fare l’amor con essa perché saria buono che si comenzasse ad innamorare de me.
Panzana. Oh buonissima resoluzione! oh bellissimo trovato! Per arricchire, pigliar moglie, ah?
Messer Ligdonio. E, per farla chiú enamorare, le mannaraggio quarche letera d’amore e la faraggio scrivere a maestro Bartolo che fa una letera che par stampata. E, per la buona ventura mea, m’è stata messa per le mani la piú valente roffiana de lo monno, che la voglio ire a trovare innanzi che mangi.
Panzana. Come si domanda?
Messer Ligdonio. Si chiama mona Bionna.
Panzana. Oh! oh! Mona Bionda è conosciuta per tutto ’l mondo per le sue virtú. Sa fare acque di piú sorte, sonniferi a tempo; erbolaia valentissima, stregona, maestra di malie; racconcia vergini, pratica fra le scope, ché due volte è stata scopata in Roma e fu marcata in Vinegia, pochi anni sono; e, sopra tutto, pollastriera eccellentissima, sí che, s’ella vi vòl servire, la sa dove ’l diavol tien la coda. Ed avertite, se, alle prime sue parole, la vi paresse una santa Amen, di non vi sbigottire; perché non fu mai santa Brigida sí devota quanto vi parrá costei su la prima giunta. Parla della Bibbia e de’ santi padri come s’ella fusse il primo predicatore di San Francesco.
Messer Ligdonio. Eh! Averá a fare con bono capo. E voglio vedere, se posso, che non passi oggi che vada a parlar con Margarita, che boglio tu le porti no madrigaletto assai bello ch’aggio fatto per issa. Te lo voglio dicere.
Panzana. Eh! Non importa; ve lo credo.
Messer Ligdonio. Voglio che lo sienti. «Madonna...». M’è scordato; ma l’aggio ca.
Panzana. Che fate de tante cartucce adosso?
Messer Ligdonio. Per mostrare alli amici le fatiche meie. Nce sono de belle composizione fra cheste. Chisto è no sonetto in laude de’ poeti. Cheste sono certe stanze che aggio fatte per lo duca di Fiorenza: saccio quanto me valeranno. Chisto è no Trionfo d’Italia nella venuta de l’imperadore. Oh! Chisto è isso. «Madonna, io moro bene...». No è isso. Eccolo, per Dio.
Madonna, ben putite
a queste mie mortifere parole
raccoglier quanto ch’io stia mal di voi.
Giá cento volte s’è levato il sole
a dar luce a ciò ch’ai mondo vedete.
Raddoppiar sento sempre
i baldanzosi guai:
tal ch’io vi prego con soventi tempre
al mio amore aviate compassione.
Panzana. Oh buono! Mai sentii meglio. Venga el cancaro ch’i’ non imparai a comporre!
Messer Ligdonio. Tu non hai tenuto mente con quanto ingegno è fatto; ch’il capo delli versi diceno «Margarita» integra integra. E sai che fatica è, quanno se compone, pigliar no nome e metterlo alli capo delli verse. Ma nci è bene no errore, che tu non lo puoi conoscere perché non sie’ poeta; che nei è chilla parola «baldanzosi» che non è toscana. Ma diraggio, in cambio, «sollazzosi».
Panzana. Che vuol dir «non è toscana»?
Messer Ligdonio. Vuole dicere ca non l’usa la Cientonovelle.
Panzana. E chi è la Centanovelle?
Messer Ligdonio. Per interrogata se conosce ca sii poco pratico; e però lassamo ire quisso. Dimme: credi ca le piacerá a Margarita?
Panzana. Credo la forca che t’impicchi.
Messer Ligdonio. Non t’entienno.
Panzana. Dico che mi par giá vedervi ricco.
Messer Ligdonio. Lo credo ancora io perché la poetica ha gran forza a far metter mano all’onor delle femmene. Ma no perdimo chiú tiempo. Voglio ire a trovare monna Bionna nanti che vaga alla messa. Tu, in chesto miezzo, va’ provede de quarche cosa da manicare.
SCENA IV
Panzana solo.
Vedeste mai peggio? Pur non credo che, se la natura volesse rifare un’altra bestiaccia simile a costui, sapesse mai ritrovarne il verso. Non posso fare che, in poche parole, non vi racconti le virtú sue. Costui è il piú vano uomo che fusse mai al mondo; goloso che, per un buon boccone, darebbe la metá del suo e per insino al marzapanetto vuol sempre alla sua tavola; buone carni non vi dico; bugiardo, vantatore come Dio sa fare. È napolitano; e, giá parecchi anni sono, non potendo stare in Napoli per certe poltronarie ch’egli aveva fatte, venne a stare in Pisa con un suo fratello ch’era a studio qua e dipoi ci ha compro casa e preso i privilegi di cittadin pisano. E ’l giorno lo spende tutto in sonettucci ed in baiarelle, salvo la mattina la quale tutta consuma in lavarsi, spelarsi, pettinarsi, perfumarsi, cavarsi e’ capei canuti a uno a uno, tegnersi la barba; e oggi fare l’amor con questa e doman con quella. Non sta mai fermo in un proposito e sempre poi si riduce a mescolar questa sua profumatura con il succidume di qualche fantescaccia. E forse che gli ha da essere scusato per esser giovane? Ei si trova, se non piú, quarantotto anni in sul culo, ancorché, se voi nel domandasse, so certo che direbbe che, a quest’altro mese, finisce vintinove o cosí. Provate, se torna piú qui da voi, a domandamelo; e vedrete. E fa profession, questa pecora, di intertener dame e di poeta. E vi prometto che non fu mai el piú fastidioso uomo fra donne che è costui, che mai lassa parlar ad altri una parola, dove si trova. E mi ricordo aver visto, qualche volta, sudare alcune donne d’affanno e di smania di vederselo levare dinnanzi. E, sempre che e’ ti trova, al primo ti sbolgetta qualche sestina o canzone, le piú goffe cose del mondo. Voi n’avete visto el saggio. E ora, per ristoro, è intrato, il babbione, in gazzurra di pigliare moglie. Io vi so dir che maestro Guicciardo arebbe poche facende a dargli la figlia! So’ certo che non passa molto che gli sará tirati e’ sassi dietro. Tal sia di lui. Io mi vi raccomando.
SCENA V
Guglielmo vecchio solo.
«Como havemos tiempo, no speramos tiempo», soleva dir mio padre quando era gentiluomo del duca Valentino. Insomma, io non vo’ lasciare per niente questa buona fortuna che mi si porge dinanzi. Io ho sempre con diligenzia cercato, giá dodici anni ch’io son ribello della patria mia, di trovare qualche persona alla quale potesse liberamente scoprire il mio segreto; né ho trovato, per fino a qui, a chi io abbia avuto ardire di palesarlo perché dove ne va la vita importa troppo. Ma, essendomi ora venuta questa occasione che maestro Guicciardo va a Roma fra tre giorni, dove agevolmente potrebbe saper nuove del mio dolce figliuolo Ioandoro, e sapendo io quanto maestro Guicciardo mi sia amico, ho fatto pensiero di scoprirmi in tutto a lui e raccomandarmegli. E, a questo effetto, son uscito fuora si a buon’ora per trovarlo innanzi che gli *esca di casa e fare uno viaggio a due effetti; che ho da fare un buono officio con esso per messer Ligdonio Caraffi il quale vorrebbe la sua figlia per moglie. Sará buono ch’io non tardi piú. Ma ecco lo Sguazza. Credo saper quel che vuole; ma e’ s’aggira.
SCENA VI
Lo Sguazza parasito e Guglielmo.
Sguazza. Olá! Donne, voltatevi a me. Ditemi un poco: Gugliemo è uscito di casa? è uscito qui Guglielmo?
Guglielmo. Dissi ben io: e’ cerca di me. Che ci è, Sguazza galante?
Sguazza. Eccol, per Dio. Oh! Messer signor Guglielmo, Dio vi dia il buon di e ’l bon anno, la buona pasqua, quaranta milioni di ducati e trenta anni vi levi da dosso. Ah! ah! ah! el mio messer Guglielmo.
Guglielmo. Tu sei molto allegro, Sguazza. Debbi aver fatto collazione, ah?
Sguazza. Eh! Non mi vedete mai ridere a digiuno, me. E poi è ora questa da non avere bevuto due colparelli, che ha piú d’un’ora che si levò il sole?
Guglielmo. Dove vai?
Sguazza. Venivo a trovar voi perché, se voi volete, messer Guglielmo, mi potete far imperadore.
Guglielmo. Oh! Come?
Sguazza. Come? A risolvervi, a un tratto, a dare el «sì» a questa cosa.
Guglielmo. A qual cosa? a dar Lucrezia a messer Giannino?
Sguazza. A cotesta, sì. E, se voi lo fate, messer mio, siate certo che voi mi fate il piú felice e ’l piú aventurato uomo che fusse mai al mondo; perché m’ha promesso messer Giannino, se gli porto la resoluzione, di farmi padrone di tutto il suo, ch’io spenda e rispenda a modo mio, gitti e mandi male quant’io voglia. E vi potete pur pensare se, fra tanta robba, io sapessi sguazzare o sì o no. E, dal vostro canto ancora, ho pensato e ripensato e non so conoscere per che cagione vi movete a non conte ntarvene. Costui è giovane, bello, ricco, liberale, gentile, nobile, virtuoso; vive bene in casa. Potrete ben cercare che voi non trovarete mai il piú galantuomo, la piú santa persona e ’l miglior compagno di messer Giannino. Sì che io vo’ che voi non ci pensiate piú. Che ne dite? volete?
Guglielmo. Sai, Sguazza, ch’io t’ho detto mille volte ch’io non lo posso fare; sì che io vorrei oramai che né tu né messer Giannino me ne rompesse piú il capo.
Sguazza. Non potete perché non volete. Che vi tiene?
Guglielmo. Pensati che, se fusse possibile, ch’io lo farei.
Sguazza. O perché non è possibile?
Guglielmo. Io son contento dirti la cosa come la sta acciò che non me n’abbiate a dar piú impaccio. Tu ti debbi forse ricordare quando mi fu donata questa Lucrezia da uno mio amico gigliese el quale, con parecchi suoi compagni, l’aveva tolta da certe fuste di mori e ammazzatone molti.
Sguazza. Me ne ricordo; ma che importa questo?
Guglielmo. Or io, parendomi costei nell’aspetto assai nobile e gentile, li posi grandissima affezione quanto a propria figliuola e feci pensiero di tenirla in casa qualche anno e dipoi maritarla. Ma, la prima cosa ch’ella facesse, mi pregò, per l’amor di Dio, o ch’io la facessi morire o ch’io li prometesse sopra la fede mia di mai ragionarli di marito.
Sguazza. E dove la fondava, la scempia? aveva forse avuto marito?
Guglielmo. No, secondo ch’ella m’ha sempre detto; perché fu rapita quasi di grembo a sua madre, ad una sua villa poco fuor di Valenzia, da certe fuste de mori che scorrevano in quel tempo tutti questi mari e fe’ voto, quando fu nelle lor mani, scampando, di viversi vergine. E, per questo, parendomi i preghi suoi giustissimi, glie lo promessi e glie lo manterrò sempre.
Sguazza. Siate certo, messer Guglielmo, che altro stimolo che di verginitá gli fece fare cotesta domanda. Piú presto doveva essere, in quel tempo, innamorata di qualcuno in Valenzia; e, per il dolore ch’ella ebbe forse dell’esser privata di vederlo, vi domandò cotesto, calda per anco di quell’amore.
Guglielmo. Sia come si vuole, io non mancarei della mia fede per tutto ’l mondo.
Sguazza. Se non ci è altro che questo, la vacca è nostra: che, se ben costei era di quest’animo in quel tempo, altri pensieri debbe aver oggi; perché le donne non si ricordano molto tempo di chi sta lontano. Né anco dura molto in loro il piacere de lo star vergini, massime quando gli escono degli anni che hanno un poco del sapore della puerizia; ma, come le s’accostano alli vinti, per Dio, per Dio, ch’elle hanno altri pensieri che scioccarellaggini di verginitá. Però tengo certo che Lucrezia si debbe esser mutata di fantasia.
Guglielmo. Tu ne sei male informato. Ell’è piú ferma in questo proposito che fusse mai. Tutta s’è data allo spirito e ti giuro che, ancor ch’io non fusse obligato dalla promessa, in ogni modo non ardirei parlargli di cotal cosa; sì che, Sguazza, poi ch’io t’ho detto il tutto, non vorrei che messer Giannino me ne stordisse piú il capo. Altrimenti pensarò che lo facci per ingiuriarmi; e me ne dorrebbe assai.
Sguazza. Non dubitate di questo, perché messer Giannino v’ama molto e di quel che fa n’è cagion la voglia che egli ha che se faccin queste nozze. Ho caro d’aver saputo il tutto e gli riferirò quanto m’avete detto.
Guglielmo. Non posso piú star con te, che ho da far con maestro Guicciardo.
Sguazza. Messer Guglielmo, vi ricordo ch’io vi son servitore e che voi pensiate un poco meglio a questa cosa.
SCENA VII
Sguazza solo.
Insomma, e’ non ci è ordine. Messer Giannino ne può levar la speranza a sua posta; che questo vecchio poltrone non ne vuol far niente. Ma di questo mi curo poco, io. L’importanzia mia sta ch’io non mi so risolvere qual sia el mio meglio per farmi ben disinar questa mattina: o vero trovar qualche favola che faccia stare allegro messer Giannino acciò che mi vegga piú volentieri e mi facci sguazzare; o vero dirli apertamente come il fatto è andato acciò che egli, assalito dal dolore, esca fuor di sé e piú alla cieca mi dia denari da spendere perché fa manco pensare a’ fatti suoi il dolore che l’allegrezza. Cosí dunque vo’ fare, ancor ch’io dubito de non trovarlo in casa, a quest’ora. Ma mi par vederlo uscir di San Martino. Gli è esso certissimo.
SCENA VIII
Messer Giannino, Sguazza.
Messer Giannino. Quanto mi par longa questa mattina, per la voglia ch’io ho di saper nuove di quel ch’abbia fatto lo Sguazza con Guglielmo! Ma eccolo, a fé.
Sguazza. Cattive nuove vi porto, messer Giannino. Non vi vo’ dire una per un’altra. Quel cancaroso di Guglielmo non vuol far niente de questa cosa.
Messer Giannino. Oh sorte traditora! vecchio crudele! E dove la fonda?
Sguazza. Io vi dirò. E’ mi s’è scoperto un poco piú largamente dell’altre volte e m’ha raccontato una storia longa e fastidiosa, una filastrocca da vecchi che, per esser di poca importanza, me la son tutta scordata. Basta che la conclusione era che tutta la colpa rivolta adosso a Lucrezia; la qual dice che patirebbe prima mille morti che far cosa che voi vogliate.
Messer Giannino. Sguazza, o veramente questo bufalon di Guglielmo è il peggior vecchio che fusse mai, che va trovando queste scuse perché non se la vorrebbe levar di casa per servirsene lui...
Sguazza. Tant’ho pensato ancor io.
Messer Giannino. ...o veramente costei è la piú crudel donna, la piú ingrata che si possa trovare sotto ’l regno della ingratitudine. Oh Lucrezia! Quanto contrario premio merita la mia fede! Insomma, vorrei sapere il certo di questa cosa: perché, se ’l peccato è del vecchio, questa spada me lo levare dinanzi; se la colpa è di Lucrezia, privarommi d’ogni speranza e cosí subito cadrò morto e libero d’ogni affanno.
Sguazza. Messer Giannino, se da l’un canto voi minacciassi lui e da l’altro sollecitasse lei, sarebbe agevol cosa di conoscer la magagna dove la sta. Si che mi parrebbe che si dovesse desinar presto; e di poi considerar la cosa meglio e subito metterla ad effetto.
Messer Giannino. Inanzi ch’io mi risolva ad altro, voglio un poco aspettar che nuove Vergilio mi porta; che sta intorno a Marchetto per questo conto.
Sguazza. Mi piace. E, per avanzar tempo, mi parrebbe di dare ordine di desinare, per uscir tanto piú presto di questo impaccio. Avete denari a canto, che provederò qualche cosa?
Messer Giannino. Si, credo. Tolle.
Sguazza. Quattro, otto, dodici, sedici. Sedici grossi. Vedrò di farli bastare.
Messer Giannino. Va’; e, se trovi Vergilio, digli che mi troverá all’orafo, com’io gli dissi.
Sguazza. Lassate fare a me.
SCENA IX
Messer Giannino solo.
Or sei chiaro, misero Giannino; or ti puoi quasi risolvere che la colpa è di questa crudele. Ah misero, sfortunato me! Che via posso imaginare per farli credere el mal mio? che d’ogni cosa è cagione ch’ella noi crede, perché, conoscendolo, è cosa impossibilissima ch’ella non se ne movesse a compassione. Ma come farò io a mostrarglielo? E pur so io in me che gli è cosí. Io so pur ch’io l’amo quanto amar si possa giá mai. Io so pur che non è rimasto altro pensier in me che di servirla e adorarla con quella nettezza di fede che per me sia possibile, tener sempre spogliato l’animo dell’amor di ogni altra donna, aver fermo proposito, o bene o male ch’ella mi faccia, che tanto duri in me l’amor di lei quanto la vita, esser sempre diffensor dell’onor suo, non pensar mai cosa che le dispiaccia, spendere tutti quegli anni che mi restano per amor suo, con tanta fermezza che in rarissimi si troverebbe. Tutte queste cose io so’ pur certo che sono in me; e non gli posso far creder che gli è cosi. Aimè! che grave passione è questa! avere il male certo e non trovar modo d’essere creduto! E di questo sète cagione voi, falsi innamorati, i quali sapete cosí ben fingere le passioni d’amore che molte donne, credendovi, ne sono rimaste ingannate; e da questo essempio, non avendo l’altre ardire di fidarsi d’alcuno, diventano crudelissime ed ingrate. Ah Dio! Per un poco di vostro piacere che avete d’ingannare una donna, di quanto male sète cagione a quegli che amano veramente! dei quali sono io uno. Ma chi è questa che viene cosí in furia inverso me? Gli è Agnoletta che penso che mi cerchi. Mi mancava testé quest’altro fastidio! Bisognará ch’io me la levi, un tratto, dinanzi con qualche scherzo, ch’ella m’intenda per sempre; che non è mai giorno che, una volta, se non due, ella non mi venga a replicare il medesimo.
SCENA X
Agnoletta serva di maestro Guicciardo e messer Giannino.
Agnoletta. Uh sciaurata! Ho paura ch’io non lo trovarò in casa. Oh! Gli è questo qua. Messer Giannino, Dio vi diala buona mattina.
Messer Giannino. Sempre mi porti el mal di e la mala pasqua, quando mi arrivi dinanzi. Se tu sapesse quanto io abbi altri pensieri che i casi tuoi, per Dio, non mi romperesti piú la testa. Di grazia, vatti con Dio e lassami stare.
Agnoletta. Non vi turbate prima che voi sapiate quel ch’io voglia da voi.
Messer Giannino. Tu mi vuoi far imbasciata per parte de la tua padrona. Mira s’io lo so.
Agnoletta. Gli è vero; ma quel ch’ella s’è inchinata a chiedervi stamattina è una piccola cosa. Dice cosí, la meschina, che, poi che vede che sète tanto crudele che voi desiderate di vederla morire, che è contentissima; ma che vi prega, per l’amor di Dio, che, innanzi che muoia, gli facciate grazia di venir oggi a parlare una mezza ora con essa al monastero di San Martino: che, come l’avrá disinato, suo padre la manda a star li per fin che sia tornato da Roma. Pregavi che non li manchiate, che vi si raccomanda con le braccia in croce. E, se voi gli negate cosí minima cosa, vo’ dire che portiate la corona di tutti i crudeli e gli ingrati.
Messer Giannino. Agnoletta, tu sai quante volte io t’ho detto che tu e la tua padrona vi perdete il tempo, ch’io ho altro verme nel capo che i fatti vostri. E ora, per ultimo, ti prego, di grazia, che gli dica chiaramente che ella ponga in altrui le sue speranze; ch’io poco tengo pensier di lei e poco m’importa ch’ella si viva o si muoia.
Agnoletta. Ahi messer Giannino! Se voi provasse una parte della passione ch’ella paté per amor vostro, non direste cosí. Dunque non ci volete venire?
Messer Giannino. No, dico: non m’hai inteso? Oh Dio! Mi sento consumare.
Agnoletta. Vorrete questa ventura, quando non la potrete piú avere.
Messer Giannino. Uh! Ci è ’l gran caldo!
Agnoletta. È amato da la piú bella, da la piú gentile giovene di questa terra, e fassi beffe de la porrata! Ditemi un poco: e come le vorresti le donne, voi? Costei è bella, nobile, giovene di sedici anni, gentile, liberale, costumata, morbida, bianca, soda, dilicata, pastosa, bella persona, buon fiato, appetitosa, che si tengon beati infiniti in questa cittá pur di vederla; e, ch’è piú, v’ama tanto che questo solo dovrebbe esser bastante a farvene innamorare.
Messer Giannino. S’io riguardasse a costei, non trovarei Vergilio.
Agnoletta. Ah messer Giannino! Non vi partite ancora. Odite un poco. Non vogliate esser cagion de la morte d’una povera giovene che v’ama tanto.
Messer Giannino. Se tu mi vien drieto, Agnoletta, mi farai far qualche pazzia.
Agnoletta. Orsú! Io veggo ch’io v’ho còlto in mala disposizione. Vo’ lassarvi andare.
Messer Giannino. Sempre mi tro varai in questa medesima.
Agnoletta. Ricordatevi che voi ve ne pentirete.
SCENA XI
Agnoletta sola.
«Tardi cornò Orlando», soleva dir la buona memoria de la mia comare quando si ricordava del tempo perso. Cosí dirá questo superbo di messer Giannino quando gli ará passato quel fior de la gioventú che tanto val ne l’amore e, facendoli le donne mazzuola, si ricorderá di questa bella ventura che gli scappa da le mani e non potrá piú tornare. Oh! Se questi gioveni la pensassen bene, cosí le donne come gli uomini, in buona fé, in buona fé, che solicitarebben di macinare quando li hanno l’acqua. Questo giovane e questo bello passa presto e non ritorna. Son cose, donne, che cuocon troppo. Conoscete el buon tempo, mentre l’avete. Io pruovo per me: che, se ben non so’ per anco da gittare a’ cani, niente di manco io non ho piú tanti favori, tanti innamorati, tante serenate quanto io avevo giá. Anzi, ho a pregar sempre il compagno, dove ch ’allora ero la pregata io. E, s’io non avessi a le mani un di questi signori spagnuoli che, da qualche mese in qua, s’è imbarbugliato, non so in che modo, de’ casi miei, non arei persona che mi musasse. Ed è il capitano de la guardia costui ch’io vi dico; che sta mal di me a pollo pesto. E non me ne maraviglio invero, perché, come s’abbatton costoro a qualcuna che non sia cattiva robba affatto, gli par trovar panni franceschi. Io vi so dir che gli è concio bene. Pensate s’egli sta male; che spesso mi fa qualche presentuzzo, pur di poca valuta, invero. E, se gli è loro usanza e se ci è guadagno con la loro amicizia, si vuol domandarne il contado di Siena. E io ancora ho avuto pratica con degli altri, e so quanto pesano a ponto a ponto. Basta che ci fanno «signore» a tutto pasto. No, no, no, no. Non l’intendon niente bene. Altro che «signore, signore, signore» voglian queste donne! Ma eccolo, in buona fé, che esce di guardia. Giocarò che se ne viene a star da me; che lo soglio, la mattina a buon’ora, menar qualche volta ne la mia cantina. Voglio stare un poco da parte.
SCENA XII
Capitano spagnuolo e Agnoletta.
Capitano. No venga nadi, está mariana, con migo, ni paie ni otra persona, porque quiero ir á festeiar estas gentiles damas. O comò me pesa de llevar siempre gente en compagnia! que se me han ido dos mill venturas, en este ano, con estas sen̂oras, por no hallarme solo. Mas dexame adobar esta camisa y limpiar los zappatos y gorra. O pese á tal, que se me ha olvidado de peynar y perfumarme las barbas, con la priessa que tengo de ser con Anioletta un’hora en su bodega. Mas cátala á qui que viene, por Dios.
Agnoletta. M’ha visto; mi bisogna scoprire. Vo’ finger d’essere scorucciata con esso, non so di che.
Capitano. Buenos dias, señora Anioletta, hermosa, galana y gentil; señora de mi vida, de mi corazon, de quanto tengo. Mas donde is assi de mañana? Iuro á Dios que me venia a estar con vos un’hora en vuestra bodega.
Agnoletta. Ne la mia cantina non verrete voi piú; né mai avere’ stimato ricever questo da voi.
Capitano. Que hazeis, señora? burlais de mi? Y bien podeis.
Agnoletta. Mi burlo? Ve n’avederete, se sará burla o se sará da vero.
Capitano. Ay señora Anioletta! Dezime, por merced: que cosa es esta? teneis guerra con migo?
Agnoletta. Da ogn’altro l’arei aspettata che da voi. In fine, tutti sète a un modo voi spa... voi uomini. Fingete or di non saperlo?
Capitano. Yo otra cosa no sé sino que soy todo vuestro y que vos sois mi vida y que todo mi pensamiento es en serviros ni quiero bien á otra persona del mundo si no alla señora Anioletta.
Agnoletta. Credete ch’io non sappia che voi avete altre pratiche che le mie?
Capitano. Yo digo que no sé nada.
Agnoletta. Sí, sapete bene.
Capitano. O rinniego del mundo! Por que dezis esto, señora? que no es verdad; ni sé que son estas platicas.
Agnoletta. Per la moglie di messer Valerio m’avete cambiata me, eh? Io, per me, me ne curo poco. Tutto ’l mal sará vostro, alfine. Impacciatevi pur con queste gentildonne.
Capitano. O! Ya entiendo, por Dios, toda la cosa. No se desturbe, señora Anioletta; io le diré la verdad. Essa muier de micer Valerio, cada dia, me embia cartas y embaxadas, que sta perdida por mi; y, por amor vuestro, no la predo. Y os quiero dezir que ay mas de estas gentiles damas de Pisa que me ruegan; mas yo no quero a otra dama que la mi señora Anioletta.
Agnoletta. Parvi che si vantino? In buona fé, che me ne pareva esser certa.
Capitano. Que dezis?
Agnoletta. Dico ch’io lo so di certo.
Capitano. Ay señora Anioletta! No lo creeis. No teneis conoscido que no amo otra persona que vos?
Agnoletta. Orsú! Non bisogna piú parole. Io mi rallegro d’ogni vostro bene. Me ne voglio andare.
Capitano. Dch! Pese al cielo, descreo de tal, si no hago alguna locura. Que burlas son estas? que trampas quereis hazer?
Agnoletta. Non vo’ però che si scorucci affatto. Ehi, el mio signor Francisco! Non v’adirate, ch’io mi so’ burlata. Non sapete che voi séte el mio amor dolcino?
Capitano. Señora, no me hagais mas de estas burlas, que poco ha faltado que no soi muerto de dolor a qui en vuestra presencia y aun me hallo todo sturbado.
Agnoletta. Perdonatemi, ch’io non credevo tant’oltre.
Capitano. Que es lo que me dezeis? Ha de perdonar el siervo sciavo a sua señora? y a su Dios tambien? No me dezis perdon, que no lo puedo soffrir.
Agnoletta. Oh, il mio signor Francisco! quanto ben vi voglio!
Capitano. Dezime, señora: de quien son estas tetinas y de las otras cosas que teneis mas de bascio?
Agnoletta. Ogni cosa è vostra, signor Francisco.
Capitano. Muchas mercedes, que ni yo quiero ser de otra persona que de vos; y os doy mi fé que, despues que soy venido de Spaila, non he quesido bien a otra que a vos; y os certifico que tenia en Spana una dozena siempre de gentiles damas a mi plazer y voluntad.
Agnoletta. Uh! son fastidiosi!
Capitano. Porque no imos un poquitto a vuestra cantina? que no por otra cosa sali de casa, sta mariana, tan temprano y solo.
Agnoletta. Oimè, signor Francisco! Per due o tre giorni non sará possibile che ci ritroviamo; perché mio padrone vuole andar sabbato a Roma e, a ogn’ora, sta piena la casa di persone che lo vengono a visitare; e ho tanto che fare in casa che non sto mai ferma. Ma vi dico bene che, come sará andato via, noi ci potrem dare uno buon tempo.
Capitano. Ay Dios! Y comò me han de parezer longos estos tres dies! Mas agora donde is?
Agnoletta. Vo a un profumiere, per certa polvere per la mia padrona.
Capitano. Quero ir con vos.
Agnoletta. Oh! Non mi sarebbe onore.
Capitano. Io verné hasta la bottiga por gozar de vos este poco tiempo; y despues os dexaré.
Agnoletta. Orsú! Andiamo.
Capitano. Vamos, Anioletta de paraiso.
SCENA XIII
Guglielmo, Maestro Guicciardo.
Guglielmo. Per voi medesimo conoscerete, maestro Guicciardo, quanto di questa cosa ch’io vo’ scoprirvi sia d’importanzia il parlarne.
Maestro Guicciardo. Non dubitate ch’io n’abbi mai a far parola piú oltre che voi vogliate.
Guglielmo. Vi potete pensare che, dove sta a pericolo la vita, che importa troppo.
Maestro Guicciardo. Voi mi fate ingiuria, Guglielmo, a diffidarvi della mia fede, essendovi io tanto amico quanto io vi sono. Dite pur via sicuramente.
Guglielmo. Giá forse piú de dodici anni son passati, maestro Guicciardo, che, succedendo la morte di papa Adriano, io con certi altri gentiluomini desiderosi di novitá, e pigliando occasione dalla morte di quel principe, ci facemmo capi in Castiglia d’una congiura. La quale discoprendosi, per mala sorte, innanzi che fusse tanto oltre maturata che noi potessimo valorosamente finir di discoprirla, fummo fatti ribelli della patria nostra con sonaglio gravissimo. E Castiglia è veramente la patria mia.
Maestro Guicciardo. Gran cosa mi dite! Dunque non è Villafranca la patria vostra?
Guglielmo. Il tutto intenderete. Or io, presi quei denari e gioie ch’io mi trovavo, e lassato in custodia d’un messei Consalvo mio fratello tutte quelle facultá che rimanean di mio, e raccomandatoli una figliuola, la quale doveva essere allora di etá d’otto anni, e un mio figliuolo Ioandoro ancora, il quale, d’uno anno innanzi, aveva mandato in corte a Roma, della medesima etá, che ad un corpo eran nati, isconosciutamente mi partii. E, venuto in Italia, mi risolvei di vivermi in Pisa, dove, mutatomi il nome e la patria, ci son stato giá dodici anni, per Guglielmo da Villafranca tenuto e accarezzato; e mi ci ho acquistata, come vedete, la lingua vostra. E Dio ’l sa quanto, in tutto questo tempo, abbia desiderato di saper nuove di casa mia! Né me ne posson venire perché, non mi essendo io fermo in Genova, com’io dissi a mio fratello, per essermi parso luogo di troppa conversazione, non può saper dove io mi sia. Né mai ho avuto ardire di dirne parola con persona del mondo, se non ora con esso voi.
Maestro Guicciardo. E come è il vostro nome?
Guglielmo. Pedrantonio.
Maestro Guicciardo. Pedrantonio, m’accendono i casi vostri di tanta compassione della vostra sconsolata vecchiezza che non sarebbe cosa ch’io non facesse per giovarvi; e pensatevi, non manco ora che prima, poter pigliare sicurtá di quanto ch’io vaglio. Non piangete, ch’io ho speranza che tosto finiranno i vostri mali.
Guglielmo. Or quel ch’io voglio da voi, maestro Guicciardo, è questo: che, come voi sète in Roma, cerchiate di saper nuove del mio dolce figliuolo Ioandoro; e, trovandovelo per sorte, diciate com’io son vivo e dov’io sono e che mi scriva interamente dell’esser suo e quanto ha che da casa non ebbe nuove di Ginevra mia figlia, di mio fratello e d’ogn’altra cosa nostra. E di questo mi vi raccomando: che lo facciate con diligenzia, che io non spero mai di riveder quell’ora ch’io ne sappi nuove.
Maestro Guicciardo. Tenetevi certo che, se v’andasse voi stesso, non fareste l’officio con maggior amore e diligenzia che farò io.
Guglielmo. Comandate poi a me, maestro Guicciardo. Vederete s’io ve ne renderò il cambio.
Maestro Guicciardo. Non se ne faccia piú parola. Pensate s’io ho da far altro e comandatemi.
Guglielmo. Non ve ne dirò altro. Ne starò sopra le spalle vostre.
Maestro Guicciardo. Cosí fate.
Guglielmo. Or, per mostrarvi che medesimamente le cose vostre mi sono a cuore, ho pensato di parlarvi d’una cosa che potrebbe tornare in utile e contento vostro.
Maestro Guicciardo. Dite; mi sará molto caro.
Guglielmo. Voi avete, se bene io ho inteso, una sola figlia, alla quale s’appressa oramai el tempo di richiedersi el maritarla.
Maestro Guicciardo. Gli è vero. E, quand’io m’abbattesse a cosa che mi piacesse, non aspettarci piú; ancor ch’ella è tanto divota e inchinata a le cose spirituali che mi mette pensiero el persuaderla a tór marito.
Guglielmo. Quando voi ve ne contentasse, io vi metterei per le mani uno mio amico il quale, invero, non è molto giovene; ma questo importa poco: dell’altre parti io credo che sia de’ miglior partiti che sieno oggi in Pisa.
Maestro Guicciardo. Come si dimanda?
Guglielmo. Messer Ligdonio Caraffi.
Maestro Guicciardo. Io non ho molto sua pratica; ma ho bene inteso che gli è persona molto vana, fastidiosa e mal voluto e, oltre a questo, non è natio pisano.
Guglielmo. Guardate che chi v’ha detto questo non l’abbia fatto per invidia. E, quanto al non esser pisano natio, è nobile in Napoli e ha i privilegi di qua.
Maestro Guicciardo. Io ci pensarò: ancorché, a dirvi el vero, io avesse fatto disegno d’un messer Giannino che, giá tre anni, venne da Roma a studiar qua; benché, per anco, ei non vuol sentir niente e alcuni m’hanno detto che gli è prete.
Guglielmo. Di questo vi so far certo io che non la vorrá mai; ché, tutto ’l giorno, mi rompe la testa, che vorrebbe quella giovane ch’io ho in casa- E io non ne farei parola, che cosí promessi a lei quando mi fu donata; ed ei dice che, non avendo lei, non vuol mai altra moglie. Voglio che voi pensiate a questo messer Ligdonio.
Maestro Guicciardo. Ce ne riparlaremo a la mia tornata di Roma.
Guglielmo. E quando pensate d’esser di ritorno?
Maestro Guicciardo. Non lo so cosí a ponto. La prima cosa, io mi voglio fermar qualche giorno in Siena perché penso che giá vi sia l’imperadore che vi s’aspettava a’ sette di maggio.
Guglielmo. V’è certissimo Sua Maestá. Lo so io di certo, che mi fu detto iersera di veduta.
Maestro Guicciardo. Io non vo’ mancar per niente di questa occasione di vederlo; e tanto piú che, andando io per terra, poco dilungo la mia via.
Guglielmo. Con gran pompa e festa lo debbe aver recevuto quella cittá; perché sempre ho inteso dire ch’ella è stata affezionatissima e sviscerata di Sua Maestá.
Maestro Guicciardo. Svisceratissima e fedele quanto dir si può. Ma la festa e l’onore che gli faranno sará piú nei cuori e negli animi che in altre apparenzie; che infino alle mura debbono gittar lagrime d’allegrezza. E questo io tengo certo perché, da molti anni in qua, quei signori senesi, per rispetto d’infinite disgrazie ch’egli hanno avute, sono molto esausti di denari. Ma si come l’oro e l’argento è mancato in loro in questo tempo, cosí l’amore e la fede inverso Sua Maestá è cresciuta continuamente.
Guglielmo. È ben assai, perché non si trova al mondo il maggior tesoro che la pura, vera e libera fedeltá: la quale se principe alcuno stimò mai, questo imperadore è uno di quelli. E ne possono render testimonio molte nostre cittá di Spagna.
Maestro Guicciardo. Partita che sará poi Sua Maestá di Siena, io subito me n’andarò in Roma: dove, quanto alle facende mie e vostre, presto mi spedirò; ma ben mi ci vo’ fermar qualche giorno piú, per vedere se la corte ecclesiastica è cosí corrotta quanto si dice.
Guglielmo. Dubito che la trovarete molto peggio che voi non pensate. Ed io mi son pentito mille volte d’averci mandato mio figlio a impretirsi.
Maestro Guicciardo. Oh quante volte, Guglielmo, pensando a questo, mi son maravigliato che Dio non faccia vendetta! E certo me la par veder tuttavia dinanzi agli occhi.
Guglielmo. Io ci ho pensato spesso ancor io. E mi risolvo che questa reformazione della Chiesa con tutte l’altre grandi imprese necessarie al mantenimento della cristianitá si riserbino e sien destinate a questo imperadore. Il quale, se noi ben tutte le cose passate e le parti sue consideriamo, aviam da giudicare esser nato per acquistar la gloria e la resurrezione del nome cristiano per tutto il mondo.
Maestro Guicciardo. Cosí giudico ancor io. E credo che sará presto, se le demostrazioni de’ cieli e dei pianeti non hanno da mentire; perché ho studiato piú volte sopra di questo e trovo che sará certissimo.
Guglielmo. Dio lo voglia; e gli piaccia di mantenermi in vita fino a quel tempo.
Maestro Guicciardo. Ora io ho da fare parecchie faccende, innanzi che io sia spedito per cavalcare. Però vi lassarò.
Guglielmo. Penso che, innanzi che vi partiate, ci rivedremo. Non rivedendoci, ricordatevi della mia cosa.
Maestro Guicciardo. Dormitene di buon sonno sopra di me.
Guglielmo. Cosí farò.
Maestro Guicciardo. Orsú! Mi vi raccomando.
Guglielmo. E io a voi. Da un canto, mi par esser tutto scarico d’aver confidato le cose mie a maestro Guicciardo; dall’altro, sto col triemo che non mi manchi. Pur non posso pensare che tanta ingratitudine regnasse in lui, che mi è parso sempre buono amico. Fatt’è. Voglio entrare in casa per scrivere una lettera a Ioandoro, caso che, a sorte, maestro Guicciardo lo trovi in Roma.