Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. II, Laterza, 1912.djvu/25


spagnuolo e prologo 13


Messer Giannino. Tutto questo torni sopra di me. Vede, com’io dissi poco fa, di trovar Marchetto e saper quel ch’egli ha fatto. Io entrarò in San Martino a udir messa, che queste molliche sogliono voler messa a buon’ora: sí che, o qui o in buttiga di Guido orafo, mi troverai. E, se trovi lo Sguazza, gli dirai dove io sia: perché mi promesse d’essere, questa mattina, a grand’ora, di nuovo con Guglielmo, per disporlo a darmi Lucrezia; perché, se noi disponessimo lei e non Guglielmo, sarebbe zero.

Vergilio. Tutto farò. Andate.

Messer Giannino. Or va’. Sai? Vede, Vergilio, di non mi ingannare perché, dove tu crederesti farmi bene, saresti causa de la mia ruina.

Vergilio. Statene di buon animo. A me basta che voi non vi potrete mai doler di me ch’io non ve l’abbia detto.

SCENA II

Vergilio solo.

Misero, sventurato mio padrone! in che strano caso, in che intrigato laberinto si ritrova! Se queste nozze gli riescono, non passano quattro mesi che si pente de tutto ’l fatto; se non gli riescono, è cosa chiarissima che poco è per durar piú oltre la vita sua. E mi maraveglio che sia vivo pur oggi, considerando la stentata vita ch’egli ha fatto, giá tre anni. Egli pochissimo mangia; la maggior parte del tempo piange e si lamenta; sempre sta fisso in un medesimo pensiero il quale, profondissimo, continuamente gli rode l’animo; non dorme un’ora di tutta la notte, e quella in mille pezzi, percioché non prima è addormentato che, farneticando, si sveglia e mi chiama: — Vergilio, vien da me; Vergilio, consolami, non mi lassar morire. — E, s’io gli mostro mai l’error suo, voi vedete quanto ei m’intende. E Dio lo sa che dolor che sia el mio, considerando che un tal giovene qual è costui, bello, gentile, litterato, stimato nella corte, da sperarne moltissimo, abbia da perdere i megliori anni drieto