Il tesoro (Deledda)/Capitolo II

Capitolo II

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II.


L’indomani Salvatore si levò all’alba, e subito sellò il cavallo, ma si sentiva le palpebre pesanti e andava in campagna di mala voglia. Era un’alba grigiastra e calma d’aprile; i rami ancor spogli del fico stillavano una triste rugiada senza riflessi, e nel cortile regnava un gran silenzio quasi notturno.

— Dammi la bisaccia — disse Salvatore alla servetta, che usciva dalla dommo ’e mola dopo aver aggiogato l’asinello alla macina.

— Padrona — gridò Cicchedda dirigendosi verso la cucina — il padrone vuol la bisaccia.

— Che il diavolo ti bastoni, non puoi portarmela tu? — esclamò Salvatore slanciandosi verso la cucina.

Agada accendeva il fuoco e non si mosse, ma [p. 21 modifica] domandò: — Non prendi nulla, Salvatore? Perchè hai tanta furia? A che ora ritorni?

— Quando sarò ritornato sarò qui! — diss’egli in mala maniera; saltò a cavallo e Cicchedda gli aprì il portone, ma quando fu nella via s’avvide d’aver dimenticato la leppa, grosso coltello che i pastori nuoresi portano infilato alla cintura entro una rozza guaina di cuoio, e gridò:

— Cicchè, ohè, Cicchè, portami la leppa ch’è nell’angolo della tavola di cucina.

Chicchedda rientrò; ma non si rivedeva più; il cavallo scalpitava e Salvatore si stizziva allorchè comparve una donna in fondo alla via e cominciò a fargli dei cenni agitando le braccia.

— Andate in campagna? — domandò.

— Così pare! — diss’egli col suo fare borioso, senza quasi degnarsi di guardarla, con altera indifferenza.

— Non andate! — esclamò la donna, ch’era una sua poverissima comare. — È alzata vostra moglie? vengo in casa vostra, perchè la moglie d’Alessio è molto aggravata e forse non passerà il giorno d’oggi.

— Oh diavolo! — disse Salvatore stupito e commosso, volgendosi tutto verso la donna. — Perchè non siete venuta prima?

— Più presto di così? Tanto cosa potete farci?

— Agada ieri sera non mi disse nulla; credevo.... aspettate.... Agada, Agada? — chiamò egli rientrando nel cortile. — Oh, non senti cosa dice [p. 22 modifica] comare Franzisca? Maria sta molto male, è per morire!

— Gesù! — gridò Agada spaventandosi.

— Ecco la leppa! — disse Cicchedda, senza preoccuparsi della triste novella. Ma Salvatore la guardò torvo e smontò da cavallo, mentre la comare dava ad Agada una infinità di particolari sull’improvviso peggioramento di Maria, moglie di Alessio Piscu, prediletto nipote dei Brindis, che l’avevano allevato in casa insieme alla cugina Costanza, amandolo come un figliuolo.

Alessio, giovine, bello e benestante, era ammogliato da poco tempo e aveva un figliolino.

Il giorno prima Agada era stata a visitar la malata: il suo stato non era grave e non prediceva nulla di allarmante.

— Sta malissimo ora, invece — disse Franzisca — ha passato una notte d’inferno. Io dormii in casa loro e volevo vegliar io, ma Alessio non volle: è restato tutta la notte in piedi, poverino. A mezzanotte Maria ha avuto un attacco che la credevamo morta; dopo non ha fatto che peggiorare; ora non riconosce nessuno ed ha il viso rosso come lo scarlatto.

Salvatore rimise il cavallo nella stalla e Agada cominciò a piangere, benchè in realtà non sentisse dolore; ma occorreva far così, perchè Franzisca avrebbe raccontato tutto. Intanto continuava a dar particolari interessanti sulla malattia di Maria, forbendosi ogni tanto la bocca con aria [p. 23 modifica] d’importanza, e Agada parea provar tanto dolore da restarne impalata sulla porta; un dolore che non le permetteva neppure d’invitar la comare ad entrare ed a sedersi. Franzisca però scorgeva benissimo la caffettiera sul fuoco, e allungava la sua missione col desiderio di buscarsi una tazza di caffè. Cicchedda, dentro, spazzava e tendeva le orecchie; a un tratto fece un salto, perchè la caffettiera bolliva e l’acqua si versava sul fuoco e cominciò a gridare: — La padrona! la padrona, venite qui!

Agada, scandolezzata, non si volse neppure, ma comare Franzisca capì ch’era inutile restare e s’avviò per andarsene. Salvatore era giù uscito per recarsi da Maria.

— Ora sveglio Costanza e vengo subito — disse Agada, accompagnando la donna per il cortile.

— Ah, una cosa dimenticavo! Bisogna portar qui il bambino.

— Lo porteremo. Andate con Dio.

— Costanza? — chiamò poi Agada battendo le dita sulla porta della camera terrena. — Levati subito.

Rientrando in cucina vide Cicchedda rider silenziosamente, mostrando tutti i suoi denti bianchissimi e dicendo: — L’ho fatta andar via io! Non la finiva più; aveva voglia di caffè, ma ha fatto fiasco. Se poi glielo aveste dato, vi avrebbe criticato dicendo: — Guarda, guarda, non è preoccupata della disgrazia! [p. 24 modifica]

Agada, benchè colpita da queste giuste osservazioni, non disse nulla, e ripiegandosi su sè stessa gettò il caffè macinato nell’acqua bollente, rimescolandola rapidamente sul fuoco.

— Io non posso veder questa zia Franzisca — continuò Cicchedda — si ficca da per tutto, entra in ogni buco e si crede necessaria in ogni casa. Scrocca sempre; la prenderei a pedate. Vi metterete il lutto se muore Maria Piscu? — domandò infine, facendo alterar la padrona.

— E finiscila, e finiscila! E misura le parole prima di dirle.

— Cosa ho detto?

— Va e spingi l’asino, chè non sei buona ad altro. Levamiti dai piedi.

Cicchedda non si offese e uscì saltellando; appena riapri la porticina della dommo ’e mola le galline cominciarono a scender svolazzando da un asse pasto sotto una sporgenza del letto, e il gallo cantò.

— Chicchiricchì! — ripetè Cicchedda, e non seppe e veramente non cercò di spiegarsi perchè la triste notizia della malattia di Maria Piscu le metteva una strana allegria in corpo.

— Faresti meglio a spinger tuo fratello, che è fermo. Se ci vengo! — gridò Costanza, uscendo scalza e a testa nuda dal porticato.

L’asinello infatti, chi sa da quando, stava fermo, forse dormiva in piedi sotto la sua maschera [p. 25 modifica] di cuoio, perchè, quando Cicchedda gli gridò di camminare, partì al trotto, spaventato.

— Oh, stavi fermo! — gli chiese ella con ironia — non hai dormito abbastanza? Cammina, cammina, perchè dobbiamo fare il pane prima che.... — aggiunse a voce bassa, sicura del fatto suo — prima che muoia la moglie d’Alessio Piscu!...

Preso il caffè, Agada e Costanza si vestirono per recarsi da Maria. Costanza indossava il costume semplice delle paesane nuoresi, con una certa modestia, e portava il fazzoletto di lana oscura tirato sulla fronte.

Agada indossava il costume di donna maritata, col grembiale di panno ricamato e la cintura d’argento. Prima di uscire diede a Cicchedda l’ordine di spazzar il cortile e la stalla, di dar da mangiare al cavallo e di far camminare l’asinello.

— Non lasciar la casa sola, intendi bene!

— E le galline? — domandò Cicchedda, rincorrendola fino alla strada.

— Ah, aspetta! — fece Agada tornando indietro. — Metti l’acqua a bollire e cuoci la crusca per le galline.

— Va bene! — gridò la ragazza in italiano, e ferma sul portone seguì le due donne con lo sguardo, e fece una smorfia vedendole prender un contegno rigido e decoroso da far gelare i sassi.

Rientrarono dopo due ore, accompagnate da [p. 26 modifica] Salvatore che teneva in braccio un bambino grasso e rosso vestito da fraticello per voto a san Francesco d’Assisi.

— Oh Domenico, oh Domenico! — gridò Cicchedda andando incontro al padrone che depose il bimbo fra le sue braccia esili e irrequiete. E subito Domenico le accarezzò il viso con le sue manine fredde, rosse e piene di fossette.

— Ciccedda... Ciccedda.... — balbettò.

— Come sta tua madre, cuoricino mio, come?

Salvatore disse al bimbo vezzeggiando:

— Mamma è andata alla festa. Porterà i dolci a Domenico e un cavallino porterà, non è vero? E Domenico resta qui finchè mamma non torna.

— E quando torna? — domandò il bimbo, con gli occhioni un po’ inquieti.

— Domani torna, domani — disse Cicchedda deponendolo in terra.

Salvatore si curvò e lo prese con tenerezza per la manina; era una bizzarra macchietta quell’uomo grosso dagli occhi torvi chinato sul fraticello che sembrava un giocattolo, biondo, con certi occhioni verdi, grigi, azzurri, profondi e indifferenti come quelli di un grazioso ed egoista gattino. Il vestitino oscuro in forma di tonaca, dal cordone bianco e dal piccolo cappuccio, lo rendeva più grazioso e bello. Salvatore lo amava intensamente.

— E come sta? — domandò Cicchedda ad Agada che era di ritorno. [p. 27 modifica]

— Male, molto. Figurati che non ci ha riconosciuti; l’ho toccata in fronte, dicendole: — Maria, come ti senti? — e non mi ha risposto.

— Poverina! Ci vado io a visitarla?

— Sì, è proprio necessario! — disse l’altra con ironia triste.

Domenico correva per il cortile a cavallo di una canna, gettando dei piccoli stridi allegri: Salvatore lo guardava con melanconia, con tristi presentimenti. Infatti da quel giorno le notizie di Maria si fecero sempre più gravi. Ogni sera i Brindis si dicevano:

— Non passerà la notte.

E invece passavano i giorni, ma sempre senza speranza. Erano febbri putride giunte all’ultimo stadio, e l’agonia della malata si prolungava.

— È questione di poche ore — disse Agada il quarto giorno. — Non inghiotte più, non vede, non sente. Si contorce tutta e ci vogliono tre uomini a trattenerla, altrimenti si rompe la testa.

Invece passarono altri tre giorni: i Brindis andavano e venivano, senza aver più la testa a posto, e Cicchedda faceva da padrona di casa.

— E mamma non torna, e babbo non porta caballino a Domenico? — domandava il bimbo.

— Domani, cuoricino mio, domani....

Ma questo domani non arrivava mai; i medici prolungavano la vita di Maria con delle iniezioni, ma Salvatore le trovava crudeltà, [p. 28 modifica] perchè Alessio invecchiava di un anno ad ogni ora di agonia della moglie.

— Dio mio! — disse una sera Cicchedda, dopo esser stata dalla moribonda. — Alessio Piscu sembra un vecchio di cent’anni. Come doveva voler bene a sua moglie!

La considerava già morta, e infatti Agada aveva già chiuso le finestre e il portone in segno di lutto: ma i giorni passavano e Maria non moriva, e Domenico aspettava sempre e domandava:

— Oggi non è domani? E mamma e babbo non tornano dalla festa?

— Domani, domani.

Una sera, pochi momenti dopo che Agada era rientrata, giunse correndo comare Franzisca; nello spingere il portone vide il fraticello che cercava d’uscire e per poco urtandolo non gli fece del male.

— Dove vai, dove vai, bellino mio? — gli chiese prendendoselo in braccio.

— Voglio mamma, voglio mamma!... — cominciò egli a strillare, piangendo senza lagrime e dimenandosi.

Allora la donna si mise anch’essa a piangere, e diede il bimbo a Cicchedda, dicendole di calmarlo.

Vedendo Franzisca entrar in cucina le Brindis capirono subito che Maria era morta e si diedero a piangere; uscendo la donnicciuola sentì Domenico ridere allegramente, perchè Cicchedda [p. 29 modifica] l’aveva deposto sull’asinello, e continuò a piangere sul lembo del suo grembiale turchino; ma pensò:

— Ora Alessio tornerà qui; bisogna che ci venga più spesso perchè avranno più da fare....

Infatti Alessio rientrò in casa dello zio tre giorni dopo, all’annottare; in segno di lutto gravissimo portava la barba lunga, il cappotto chiuso e il cappuccio tirato sul viso; aveva gli occhi infossati, tanto che non se ne distingueva il colore, ed era pallido come un cadavere. Non cercò di riveder Domenico, che dormiva già, non ne domandò notizie; e Cicchedda, che aveva spiato il suo arrivo, lo guardò curiosamente, seguendolo in ogni suo movimento, senza osare di rivolgergli la parola.

Anche gli altri, del resto, non aprivano bocca; la morte, il lutto, la tristezza, mettevano come una grave soggezione fra loro. Fu una serata lugubre; non si poteva discorrere di nulla, nè dei propri nè degli altrui affari, e il ricordo della morta stava troppo fisso nel pensiero di Alessio perchè si osasse parlare di lei.

Fuori pioveva, pioveva; si sentiva gorgogliare il fango e si sentiva la miseria per le viuzze del povero rione, abitato da povera gente; era una di quelle tristissime notti di primavera in cui pare che l’inverno, improvvisamente, voglia riprendere il suo impero.

Alessio credeva di morire, aveva la febbre e [p. 30 modifica] gli pareva che tutta quella pioggia stridente, incessante, filtrasse fino al corpo della sua povera morta, allagandolo e gelandolo....

Tutta la notte, nel letto dove riprendeva il suo posto dopo quattro anni di grande felicità, non fece che delirare in un dormiveglia affannoso, pieno di visioni strane e di sensazioni fantastiche. Una di queste, insistente e strana, lo afferrava di tratto in tratto, dandogli un misterioso stupore. Il quadrato della luce vaga del finestrino, illuminato da un pezzetto di luna che al cessare della pioggia passava correndo fra le nuvole, gli sembrava un fazzoletto che Maria preferiva, un fazzoletto di lana nera a fiorami verdi che egli le aveva comprato in una festa. E quel quadrato di luna, cambiatosi nel fazzoletto, parlava, rideva, si muoveva; le foglie erano i capelli di Alessio e ogni trama tirava una foglia, dando acuti spasimi alla sua testa febbricitante. Piccole monete d’argento apparivano e sparivano nel fazzoletto, e avevano incisa una minuscola testa di Maria, che parlava e rideva come Maria parlava e rideva; e il tutto veniva attraversato dal cordone bianco di fraticello che cingeva Domenico.

Fra le altre incalzanti visioni il bizzarro fazzoletto scompariva e riappariva con la luce della luna; e Alessio ne provava una sensazione angosciosa che accresceva la febbre.

All’alba parve destarsi, mentre realmente non [p. 31 modifica] aveva dormito, e il dolore acuto e soffocante che da tre giorni lo martoriava, lo investì come un brivido ed uno spasimo fisico, e lo fece balzare da letto e battere pazzamente la bella testa sul guanciale. Uscì dal portico, perchè la sua stanza era al pian terreno, in faccia all’altra ove dormivano Costanza, Domenico e Cicchedda, e quest’ultima, già levata, si fece premura di portargli un lavabo di latta pieno d’acqua.

Dal fico piovevano grosse goccie d’acqua, grigie e lente; nel cielo limpidissimo, ma scolorito, le ultime nubi si dissolvevano come masse di fumo, e il cortile era pieno di fango, di laghetti scuri che riflettevano la tristezza del mattino.

Mentre Alessio si lavava, Cicchedda stette a guardarlo imbambolata, ed egli sentì che questa creatura, la più misera fra le creature, lo compassionava pur essa; e ciò accrebbe la sua tristezza e il suo disgusto.

Cicchedda infatti lo trovava più che mai invecchiato, ma oltre che per pietà lo guardava infantilmente curiosa di veder come era fatto un grande dispiacere.

Il volto di Alessio aveva una tinta livida, i suoi folti ed irti capelli, la sua barba, i suoi baffi e le sue congiunte sopracciglia sembravano più nere ed abbondanti; la sua alta persona, d’una muscolosa e perfetta fattura, a cui il pittoresco costume nuorese dava una speciale eleganza di forme e di movimenti, s’era incurvata; [p. 32 modifica] il suo profilo latino, dalla fronte, le labbra e il mento sporgenti, d’una purezza scultoria di razza vergine e antica, s’era viepiù accentuato nella magrezza delle gote infossate, e gli occhi, che ora alla luce si scorgevano neri, avevano una fissità da allucinato. Aveva trent’anni, era intelligente, sapeva leggere e scrivere, e gli piaceva viver quasi signorilmente; e poteva farlo perchè stava meglio dello zio e meglio sapeva condurre i suoi affari. Anzi, il suo triste ritorno in casa Brindis, parve riassettare gli affari imbrogliati di Salvatore; gli fece un prestito ed acquietò qualche creditore impaziente. Ma le faccende domestiche si triplicarono. Alessio aveva tre servitori che divoravano sei grandi pani d’orzo ogni giorno e Cicchedda doveva aizzare disperatamente l’asinello, e le padrone non facevano altro che pulir farina e accendere il forno.

A poco a poco Alessio si calmò e riprese le sue abitudini; usciva a cavallo e si assentava intere giornate; al ritorno Cicchedda gli andava incontro fino alla strada con Domenico fra le braccia.

E lo sollevava in alto, in alto, fino all’arcione, dicendogli sciocchezze e facendogli il solletico; il bimbo rideva, emettendo i suoi stridii di grillo e d’uccellino, e mostrava i dentini facendo balenare i suoi occhioni iridati, con quella loro strana allegrezza inconsapevole, egoista, innocente e piena, ch’era un incanto a vederlo.

Alessio lo pigliava in arcioni, e per contentarlo [p. 33 modifica] faceva camminare il cavallo; Domenico rideva, guardando di sotto in su il babbo, e Cicchedda batteva le mani in mezzo alla via.

Il riso di Domenico guarì più che altro la ferita d’Alessio; quando il dolore voleva investirlo egli sapeva dove ricorrere per salvarsi; pensava ad un visetto rosso e fresco, un po’ scabroso come le pesche mature, pieno di fossette e di malìe; agli occhi, ai dentini, alle manine del bambino, e questo lo calmava.

Alessio possedeva molto bestiame, molte terre; aveva una infinità di affari e perciò era sempre affaccendato e in relazione con persone alte e basse; e tutto questo andirivieni, in campagna e in città, assorbiva il suo tempo, lo distraeva dal suo dolore. Non tardò a riprendere il suo solito umore, un po’ serio e taciturno, ma sempre eguale e d una gentilezza quasi signorile; e vedendolo ringiovanire, con gli occhi nuovamente fieri ed espressivi, la persona raddrizzata, i capelli e la barba pettinati, il viso d’un pallore bronzino, sano e naturale; vedendolo riprendere i suoi affari, stabilirsi in casa altrui, camminare, mangiare e parlare come se nulla fosse stato, Cicchedda si convinse ch’egli non aveva cuore!