Il ritorno dalla villeggiatura/Atto III
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ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
Camera in casa di Filippo.
Fulgenzio, Leonardo ed un Servitore.
Fulgenzio. Quant’è ch’è andato a pranzo il signor Filippo? (al servitore)
Servitore. E un pezzo, signore. Hanno messo in tavola i frutti e poco può tardar a finire. Se vuol ch’io l’avvisi...
Fulgenzio. No, no, lasciatelo terminar di mangiare. So che la tavola è la sua passione, e gli dispiace assaissimo d’incomodarsi. Non gli dite niente per ora; ma quando è alzato, avvisatelo allora ch’io sono qui.
Servitore. Sarà servita. (parte)
Leonardo. Voglia il cielo che il signor Filippo non sappia i miei disordini, le mie disgrazie.
Fulgenzio. Sono poche ore ch’egli è arrivato in città. Non è uscito di casa, probabilmente non saprà nulla.
Leonardo. Sono sì pieno di rossore e di confusione, che non ardisco presentarmi a nessuno. Quel sordido di mio zio ha terminato di avvilirmi, di mortificarmi.
Fulgenzio. Venga il canchero all’avaraccio.
Leonardo. Ma non ve l’ho detto, signor Fulgenzio? Non v’ho io prevenuto di quel che si poteva sperare da quel cuore disumanato?
Fulgenzio. Non ho mai creduto una simil cosa. Pazienza il dire: non ne ho, non ne posso dare, non ne vo’ saper niente. Mi è dispiaciuto la manieraccia impropria con cui ci ha trattati; quella derisione continua, quella corbellatura sfacciata.
Leonardo. Ho incontrato questo dispiacere per voi, e l’ho sofferto per amor vostro.
Fulgenzio. Non so che dire. Me ne dispiace infinitamente; ma per l’altra parte questo tentativo doveva farsi, ed ho piacere che si sia fatto. Se è andato male, pazienza. Io non vi abbandonerò. Mi sono sempre più interessato nelle cose vostre. Sono in impegno d’assistervi, e vi assisterò. Ponetevi in quiete, rasserenatevi, che vi assisterò.
Leonardo. Ah! sì, il cielo non abbandona nessuno. È una provvidenza per me il vostro tenero cuore, la vostra generosa bontà.
Fulgenzio. Facciamo ora questo secondo tentativo col signor Filippo. Io mi lusingo riuscirne. Ma in caso contrario non vi perdete d’animo, non vi lascierò perire sicuramente.
Leonardo. Il progetto vostro non può essere meglio concepito, e il facile temperamento del signor Filippo ci può lusingare d’un esito fortunato. Preveggo bensì difficile il persuadere Giacinta a lasciar Livorno, e venir meco lontana dal suo paese.
Fulgenzio. Quando non vi siano maggiori obbietti per concludere le vostre nozze, ella, o per amore o per forza, sarà obbligata a venir con voi.
Leonardo. È vero, ma vorrei ci venisse amorosamente; e dubito molto della sua resistenza.
Fulgenzio. Veramente la signora Giacinta è un po’ capricciosa ed ostinatella. Me ne sono avveduto allora quando ha voluto seco per forza quel ganimede. Ditemi, come è poi passata in campagna?
Leonardo. Non so che dire. Ho avuto delle inquietudini e dei dispiaceri non pochi. Finalmente poi il signor Guglielmo ha dato parola di sposar mia sorella.
Fulgenzio. Sì, sì, lo so, un altro frutto della villeggiatura. Se va bene, è un miracolo. (Oh libertà, libertà! Oh come in oggi si maritano le fanciulle!)
Leonardo. Ecco il signor Filippo.
Fulgenzio. Ritiratevi, se volete. Lasciate che io introduca il discorso.
Leonardo. Ne attendo l’esito con un’estrema impazienza, (parte)
SCENA IL
Fulgenzio, poi Filippo.
Fulgenzio. Poh! io sono inimicissimo degl’impicci; e ora mi ci trovo dentro senza volerlo. Ci sono entrato per bene, e vo’ vedere se mi riesce di far del bene.
Filippo. Oh! oh! ecco qui il mio caro signor Fulgenzio.
Fulgenzio. Ben tornato, signor Filippo.
Filippo. Ben trovato il mio caro amico.
Fulgenzio. Vi siete divertito bene in campagna?
Filippo. Benissimo; siamo stati in ottima compagnia. Si è mangiato bene: vitello prezioso, capponi stupendi, tordi, beccafichi, quaglie, starne, pernici. Ho dato mangiate, v’assicuro io, solennissime.
Fulgenzio. Ho piacere che ve la siate goduta. Ora poi che siete qui ritornato....
Filippo. Quel pazzo di Ferdinando ci ha fatto crepar di ridere.
Fulgenzio. Sì, in campagna ci vuol sempre qualcheduno che promova il divertimento.
Filippo. Si è messo in capo di far disperare quella povera sciocca di mia sorella. Sentite se è maladetto....
Fulgenzio. Mi racconterete con comodo; permettete che ora vi dica....
Filippo. No, no, sentite, se volete ridere....
Fulgenzio. Ora non ho gran voglia di ridere. Ho necessità di parlarvi.
Filippo. Eccomi, parlate pure come vi aggrada.
Fulgenzio. Ora, signor Filippo, che siete ritornato in città....
Filippo. Conoscete voi il medico di Montenero?
Fulgenzio. Lo conosco.
Filippo. E il suo figliuolo lo conoscete?
Fulgenzio. No, non l’ho mai veduto.
Filippo. Oh che capo d’opera! Oh che testa balorda! Oh che carattere delizioso! Cose, cose da smascellarsi.
Fulgenzio. Non mancherà tempo. Sentirò anch’io volentieri....
Filippo. Ed è toccato a me a giocare a bazzica con questo sciocco.
Fulgenzio. Amico, se non mi volete ascoltare, ditemelo liberamente. Me n’anderò.
Filippo. Oh! cosa dite mai? Se vi voglio ascoltare? Capperi! Il mio caro amico Fulgenzio, v’ascolterei se veniste di mezza notte.
Fulgenzio. Alle corte. Ora che siete tornato a Livorno, pensate voi di voler concludere il maritaggio di vostra figliuola?
Filippo. Ci ho pensato, e ci penserò.
Fulgenzio. Avete ancora veduto il signor Leonardo?
Filippo. No, non l’ho ancora veduto. So che è stato qui; ma non l’ho ancora veduto. Già io ho da esser l’ultimo in tutto, e sarò l’ultimo ancora in questo.
Fulgenzio. (Da quel ch’io sento, pare non sappia niente dei disordini di Leonardo).
Filippo. A Montenero io era sempre l’ultimo in ogni cosa. Sino al caffè i garzoni servivano tutti, ed io l’ultimo.
Fulgenzio. Ora, nell’affare di cui si tratta, voi avete da essere il primo.
Filippo. Eh! lo so perchè ho da essere il primo. Perchè ho da metter fuori gli ottomila scudi di dote.
Fulgenzio. Ditemi in confidenza, fra voi e me: questi ottomila scudi li avete voi preparati?
Filippo. Per dirvi sincerissimamente la verità, presentemente non le potrei dare nemmeno ottomila soldi.
Fulgenzio. E come intendereste dunque di fare?
Filippo. Non saprei. Ho dei fondi, ho dei capitali; credete voi che non si potessero ritrovare?
Fulgenzio. Sì, a interesse si potrebbero ritrovare.
Filippo. Bisognerà dunque ch’io li ritrovi a interesse.
Fulgenzio. E che paghiate almeno il quattro per cento.
Filippo. Bisognerà ch’io paghi il quattro per cento.
Fulgenzio. Sapete voi che il quattro per cento, per un capitale di ottomila scudi, porta in capo all’anno trecento e venti scudi d’aggravio?
Filippo. Corpo di bacco! Trecento e venti scudi di meno?
Fulgenzio. Eppure questo matrimonio si ha da concludere. La scritta è fatta. La dote voi l’avete promessa.
Filippo. Ma io son uno che fa e promette, perchè mi fanno fare e promettere. Quando siete venuto voi a parlarmi, perchè non mi avete fatti allora que’ conti che mi fate presentemente? Scusatemi, io credo di aver occasione di lamentarmi di voi. Se mi foste quel buon amico che dite...
Fulgenzio. Sì, vi son buon amico. E un mio consiglio vi metterà in calma di tutto, e vi farà comparir con onore. Voglio che maritiate la figlia senza incomodarvi di un paolo, senza dipendere da nessuno. E colla sicurezza ch’ella stia bene, e che non le possa essere intaccata la dote.
Filippo. Se mi fate veder questa, vi stimo per il primo uomo, per la prima testa di questo mondo.
Fulgenzio. Ditemi un poco: a Genova non avete voi degli effetti?
Filippo. Sì, ci ho qualche cosa che mi ha lasciato un mio zio. Ma non so dire precisamente che cosa. Maneggia uno ch’era il di lui ministro. In sei anni non mi ha mandato altro che due ceste di maccheroni.
Fulgenzio. Io sono stato a Genova in vita di vostro zio e dopo la di lui morte, e so quel che c’è e che non c’è. Il ministro vi mangia tutto, e giacchè per l’incuria vostra non ne ricavate profitto alcuno, fate così: assegnate in dote a vostra figliuola i beni che avete in Genova, lo farò che il signor Leonardo li accetti e se ne contenti. Andrà egli ad abitare in Genova colla consorte, maneggierà uxorio nomine quegli effetti, non li potrà consumare o disperdere, perchè saranno ipotecati alla dote; e per dirvela schiettamente, a voi non rendono nulla, e a lui sul fatto, con un poco di direzione, possono rendere il doppio di quello che gli renderebbero gli ottomila scudi in Livorno. Ah! cosa dite?
Filippo. Bene, benissimo, glieli do volentieri. Vadano a Genova; se li godano in pace, rendano quel che san rendere, non ci penso. Fate voi, mi rimetto in voi.
Fulgenzio. Non occorr’altro. Lasciate operare a me.
Filippo. Ehi! dite: non si potrebbe vedere di obbligare Leonardo a mandarmi qualche cesta di maccheroni?
Fulgenzio. Sì, vi manderà delle paste quante volete, dei canditi di Genova, delle melarancie di Portogallo.
Filippo. Oh! che le melarancie mi piacciono tanto. Oh! che mi piacciono tanto i canditi. La cosa è fatta.
Fulgenzio. È fatta dunque.
Filippo. È fattissima.
Fulgenzio. E vostra figlia sarà poi contenta?
Filippo. Questo è il diavolo.
Fulgenzio. Ma voi non avete animo di farla fare a modo vostro?
Filippo. Non ci sono avvezzo.
Fulgenzio. Questa volta dovete farlo.
Filippo. Lo farò.
Fulgenzio. Si tratta di tutto.
Filippo. Lo farò, vi dico, lo farò.
Fulgenzio. Quando le parlerete?
Filippo. Ora, in questo momento. Vado immediatamente: aspettatemi colla risposta. (in atto di partire) Non sarebbe meglio ch’io la facessi venir qui, e che le diceste qualche cosa voi?
Fulgenzio. Perchè non le volete parlar voi?
Filippo. Le parlerò poi ancor io.
Fulgenzio. Via, andate, e fatela venir, se volete.
Filippo. Subito, immediatamente. (Felice me, se succede! Se resto solo, se non isminuisco l’entrata, me la voglio godere da paladino), (parte)
SCENA III.
Fulgenzio, poi Leonardo.
Fulgenzio. La cosa finora va bene. Basta che non ci faccia disperare quel capolino di sua figlia.
Leonardo. Signor Fulgenzio, mi par che siamo a buon porto.
Fulgenzio. Avete sentito?
Leonardo. Ho sentito ogni cosa. Prego il cielo che Giacinta si accomodi a questa nuova risoluzione.
Fulgenzio. Or or sentiremo. Finalmente, se il padre non è un babbuino, la figliuola dee rassegnarsi.
Leonardo. Pensava a un’altra cosa, signor Fulgenzio. Come ho da fare per i debiti di Livorno? Ho d’andarmene di nascosto? Ho da fare una figura trista?
Fulgenzio. Ho pensato anche a questo. Stabilito che sia il nuovo accordo col signor Filippo, voi farete a me una procura. Metterete i beni vostri nelle mie mani, ed io mi farò mallevadore per voi: pagherò i creditori, e col tempo vi renderò i vostri effetti liberi, netti, e ben custoditi.
Leonardo. Oh cieli! Io non ho termini sufficienti per ringraziarvi.
Fulgenzio. Ringraziate vostro zio Bernardino.
Leonardo. E perchè ho da ringraziare quel sordido?
Fulgenzio. Perchè io ho sempre desiderato di farvi del bene; ma per cagion sua mi ci sono impegnato a tal segno, che sagrificherei del mio se occorresse.
Leonardo. Sì, ma non lo fareste se non aveste un cuor buono.
SCENA IV.
Filippo e detti.
Filippo. La sapete la nuova?... Oh! schiavo, signor Leonardo.
Leonardo. Riverisco il signor Filippo.
Fulgenzio. E che c’è di nuovo? (a Filippo)
Filippo. Mia figlia è sortita di casa, e mi hanno detto che è andata a far visita alla signora Costanza.
Leonardo. Ah! me ne dispiace infinitamente.
Filippo. Vi ha detto nulla il signor Fulgenzio? (a Leonardo)
Leonardo. Sì, signore. Qualche cosa mi ha detto.
Filippo. Ebbene, siete voi contento? (a Leonardo)
Leonardo. Son contentissimo.
Filippo. Sia ringraziato il cielo, saremo tutti contenti.
Leonardo. Ma la signora Giacinta?
Filippo. Andiamola a ritrovare dalla signora Costanza.
Fulgenzio. Si può aspettar ch’ella torni.
Leonardo. Mia sorella deve andarci ancor ella. Può esser ci siano insieme.
Filippo. Non sarebbe mal fatto che ci andassimo ancora noi.
Leonardo. È vero. Noi dobbiamo una visita alla signora Costanza.
Filippo. E con questa occasione parleremo a Giacinta.
Fulgenzio. Ma in casa d’altri non si può parlare liberamente.
Filippo. Se non si potrà parlare, la farò venir via.
Leonardo. Che dite, signor Fulgenzio?
Fulgenzio. Io dico che un’ora prima, un’ora dopo...
Filippo. Ed io vi dico che si ha da andare immediatamente. (con sdegno)
Leonardo. Andiamo, non lo facciamo irritare. (parte)
Fulgenzio. Siete ben ostinato, signor Filippo! (parte)
Filippo. Eh! son uomo. So quel che faccio, so quel che dico. Per politica, per direzione, non la cedo a nessuno di questo mondo. (parte)
SCENA V.
Camera in casa di Costanza.
Costanza e Rosina.
Costanza. Rosina, mettetevi all’ordine, che andiamo a far queste visite.
Rosina. E dove abbiamo da andare sì presto? Siamo appena arrivate.
Costanza. Voglio che andiamo dalla signora Giacinta e dalla signora Vittoria.
Rosina. Scusatemi, signora zia, essendo noi venute a Livorno dopo di loro, tocca a loro a far visita prima a noi.
Costanza. E questo è quello ch’io non vorrei. Se vengono qui, come volete ch’io le riceva? Non vedete che casa è questa? Non c’è una camera propria, tutto vecchio, tutto antico, tutto in disordine.
Rosina. Per dir la verità, c’è una gran differenza da questa casaccia al bel casin di campagna.
Costanza. La differenza si è, che quello me l’ho fornito io di mio gusto, e questa casa è fornita secondo il genio zotico di mio marito.
Rosina. Oh! il signor zio non ci pensa. Egli non tratta che bottegai, e non gli preme niente la pulizia.
Costanza. Questa cosa io non la posso soffrire; da qui innanzi voglio stare in campagna dieci mesi dell’anno. Almeno lì sono rispettata.
Rosina. Il signor dottore non vi servirà più.
Costanza. Per verità mi dispiace aver perduta l’amicizia del signor dottore. Ho fatto questo sagrifizio per amor vostro. Vi voglio bene, desiderava di maritarvi, voi non avete dote ed io non poteva darvene; e se non capitava questo ragazzo, ho timore che sareste stata lì per un pezzo.
Rosina. Son maritata, è vero; ma questo mio matrimonio mi dà finora pochissima consolazione. Non ho un anelletto, non ho un abitino da sposa, non ho niente da comparire; che cosa volete che dicano le persone?
Costanza. Col tempo avrete il vostro bisogno. Per ora non è necessario di dire che vi ha sposata. Si sono fatte le cose segretamente, e non l’ha da sapere nessuno. Quando poi il signor dottore sarà obbligato a passar gli alimenti al figliuolo, allora si pubblicherà il matrimonio.
Rosina. Tutto sta che Tognino non lo vada egli dicendo a chi non lo vorrebbe sapere.
Costanza. Basta avvisarlo. Dov’è Tognino che non si vede?
Rosina. È di là che si veste.
Costanza. Si veste? E come si veste?
Rosina. Mi ha detto che essendo in città, si vuol vestire con pulizia.
Costanza. E cosa si vuol mettere, se non ha altro al mondo che quell’anticaglia che portava per Montenero?
Rosina. Mi ha detto che ha portato via un abito di suo padre.
Costanza. Suo padre è un palmo più alto di lui.
Rosina. Eh, Tognino non è tanto piccolo di statura.
Costanza. Bisognerà che subito subito ei vada a Pisa, e che si metta a studiare.
Rosina. Subito subito ha da andare a Pisa?
Costanza. Volete voi ch’egli perda il tempo?
Rosina. No, ma così subito!
Costanza. Quanto vorreste ch’egli aspettasse?
Rosina. Un mese almeno.
Costanza. Basta, poco più, poco meno.
Rosina. Eccolo, eccolo, è già vestito.
SCENA VI.
Tognino con un abito assai lungo, con parrucca lunga a tre nodi e cappello colla piuma all’antica; poi un servitore.
Tognino. Oh! eccomi. Ah! sto bene?
Costanza. Oh che figura! Non ve l’ho detto io, che sarebbe stato una caricatura? (a Rosina)
Rosina. Eh! gli è un poco lungo, ma non vi è male.
Costanza. Eh! andatevi a levar quel vestito. Parete in veste da camera.
Tognino. Volete ch’io vada per città col giubbone da viaggio?
Costanza. E non avete il vostro abito consueto?
Tognino. Signora no.
Costanza. E che cosa ne avete fatto?
Tognino. L’ho dato al servitore acciò m’aiutasse a portar via questo a mio padre.
Costanza. Certo avete fatto un bel cambio!
Tognino. È bello, è gallonato. È un po’ lunghetto, ma non importa. Ah! non mi sta bene? Ah! cosa dite, Rosina? Ah!
Rosina. Bisognerebbe che ve lo faceste accomodare alla vita.
Tognino. Me lo farete accomodare, signora mia? (a Costanza)
Costanza. Zitto, malagrazia. Non mi dite zia; per ora non si ha da sapere che sia seguito fra di voi il matrimonio. Non lo dite a nessuno, e abbiate giudizio, e non vi fate scorgere.
Tognino. Oh! io non parlo.
Rosina. E bisognerà che pensiate a mettere il cervello a partito.
Tognino. Cosa vuol dire mettere il cervello a partito?
Rosina. Far giudizio, studiare, imparar bene la professione del medico.
Tognino. Oh! per istudiare, studierò quanto voi volete. Basta che non mi lasciate mancar da mangiare, che mi conduciate a spasso, che mi lasciate giocar a bazzica.
Costanza. Eh povero scimunito!
Tognino. Che cos’è questo scimunito?
Costanza. Se non avrete cervello...
Tognino. Io non voglio essere strapazzato...
Servitore. Signora... (a Costanza)
Tognino. Son maritato, e non voglio essere strapazzato.
Costanza. Zitto.
Rosina. Zitto.
Servitore. È maritato il signor Tognino?
Costanza. Egli non sa quello che si dica. E tu non entrare in quelle cose che non ti appartengono. (al servitore)
Servitore. Perdoni. La signora Giacinta è qui poco lontana, che viene per riverirla.
Costanza. (Povera me!) La signora Giacinta! (a Rosina)
Rosina. Cosa volete fare? Convien riceverla. (a Costanza)
Costanza. Sa che sono in casa? (al servitore)
Servitore. Lo saprà certamente. Ha mandato il servitore, e il servitore lo sa.
Costanza. (Ci vuol pazienza, convien riceverla). Dille che è padrona... Senti: dille che compatisca, che sono venuta ora di villa, che ho la casa sossopra. Senti: va alla bottega ad ordinare il caffè. Ehi! senti: se viene a casa1 mio marito, digli che non mi comparisca dinanzi come sta in bottega, o che si vesta bene, o che si contenti di stare nella sua camera.
Servitore. (Oh! quanta maladetta superbia!) (parte)
Costanza. E voi andate via di qui. Non vi lasciate vedere in quella caricatura. (a Tognino)
Tognino. Certo, mi mandate via perchè non beva il caffè, e io ci voglio stare.
Costanza. Andate, vi dico, che se mi fate muover la bile, vi caccio via di casa come un birbante.
Tognino. Son maritato.
Costanza. Rosina, or ora non posso più.
Rosina. Via, via, caro, andate di là, che il caffè lo porterò io.
Tognino. Son maritato, e son maritato. (parte)
SCENA VII.
Costanza, Rosina, poi Giacinta.
Costanza. Sentite, se continua così, io non lo soffro assolutamente. (a Rosina)
Rosina. Compatitelo, è ancor ragazzo.
Costanza. Eh! sì2, scusatelo.
Rosina. Ma, signora, se è mio marito, convien ben ch’io lo scusi. Finalmente me l’avete dato voi, ed io l’ho preso per consiglio vostro.
Costanza. Ecco la signora Giacinta. (Mi sta bene, merito peggio).
Rosina. Se non sa più di così, è inutile di rimproverarlo.
Giacinta. Serva, signora Costanza.
Costanza. Serva umilissima.
Rosina. Serva divota.
Giacinta. Riverisco la signora Rosina.
Costanza. Si è voluta incomodare la signora Giacinta.
Giacinta. Anzi son venuta a fare il mio debito.
Costanza. Mi spiace infinitamente ch’ella mi trova qui colla casa sì malandata, che propriamente mi fa arrossire.
Giacinta. Oh! sta benissimo. Non ha da far con me queste ceremonie.
Costanza. È poco tempo ch’io sono venuta star qui, e poi sono andata in campagna, e tutte le cose sono ancora alla peggio. Favorisca d’accomodarsi. Compatisca se la seggiola non è propria.
Giacinta. Anzi è proprissima. (Tanto sfarzo in campagna, e sta qui in un porcile). (da sè)
Rosina. (Che dite eh? Si è messa in magnificenza). (a Costanza)
Costanza. (Eh! in quanto a questo, se è venuta per farmi visita, non doveva venire in succinto).
Giacinta. Che nuove mi portano di mia zia?
Rosina. Oh! la povera signora Sabina è travagliatissima. Sono stata a farle una visita prima di partire, e mi ha dato una lettera per il signor Ferdinando.
Giacinta. Oh! quanto volentieri sentirei quello che gli scrive.
Rosina. Io credo che il signor Ferdinando non avrà difficoltà di mostrarla.
Giacinta. (Cerco ogni strada per divertirmi, ma ho una spina nel cuore che mi tormenta).
Costanza. Come sta il signor Leonardo, signora Giacinta?
Giacinta. Sta bene.
Rosina. E la signora Vittoria?
Giacinta. Benissimo.
Costanza. E il signor Guglielmo?....
Giacinta. È egli vero che il signor Tognino è venuto a Livorno con loro?
Costanza. Sì, signora, ci è venuto per qualche giorno.
Rosina. Perchè deve passare a Pisa.
Costanza. Per istudiare.
Rosina. Per addottorarsi.
Giacinta. Sì, sì, è venuto per andare a Pisa, e le male lingue dicevano che aveva sposato la signora Rosina.
Rosina. Le male lingue dicevano?
Giacinta. Io ho sempre detto, ch’ella non avrebbe mai fatta questa bestialità.
Rosina. Sarebbe una bestialità veramente?
Costanza. Favorisca, le di lei nozze si faranno presto?
Giacinta. Non lo so ancora. Io dipenderò da mio padre.
Rosina. E quelle della signora Vittoria col signor Guglielmo?
Giacinta. Che vuol dire che sono anch’esse ritornate quest’anno prima del solito?
Costanza. Non c’era più nessuno in campagna. Il signor Leonardo e la signora Vittoria hanno sconcertato il divertimento.
Rosina. Ma quando si marita la signora Vittoria? (a Giacinta)
Giacinta. Io non lo so, signora; lo domandi a lei.
Rosina. Per quel ch’io vedo, anche il matrimonio della signora Vittoria a lei deve parere un’altra bestialità. (a Giacinta)
Giacinta. Con permissione. Le voglio levare l’incomodo. (s’alza)
Costanza. Favorisca, aspetti, che prenderemo il caffè.
Giacinta. No, le sono obbligata.
Costanza. Eccolo, eccolo. Mi faccia questa finezza.
Giacinta. Per non ricusar le sue grazie. (siedono) (portano il caffè)3 (Pare che lo facciano apposta per tormentarmi).
Costanza. Si serva. (dà il caffè a Giacinta)
Rosina. Con permissione. (vuol portare il caffè a Tognino; lo dà al servitore, e ritorna subito) Visite, signora zia; abbiamo dell’altre visite.
Costanza. E chi viene?
Rosina. La signora Vittoria, il signor Ferdinando e il signor Guglielmo.
Giacinta. (Oh povera me!)
Rosina. Guardi, guardi, che ha versato il caffè sull’andriene4.
Giacinta. (Maladetto sia chi mi ha obbligato a restare), (si pulisce)
Rosina. Vuole dell’acqua fresca?
Giacinta. Eh! non s’incomodi, non importa. (con dispetto)
Rosina. Eccoli, eccoli.
SCENA VIII.
Vittoria, Guglielmo e detti.
Vittoria. Serva sua, ben trovate.
Costanza. Serva.
Rosina. Serva.
Guglielmo. Servitor loro.
Vittoria. Voi pure siete qui, signora Giacinta?
Giacinta. Sono venuta anch’io a fare il mio debito.
Rosina. A farmi grazia.
Giacinta. (Così mi fossi rotto uno stinco pria di venirci).
Costanza. Favoriscano. Ho fatte già le mie scuse colla signora Giacinta; non ho ancora potuto ammobigliar la casa; favoriscano di seder come possono.
Guglielmo. Scusi, signora Costanza, se sono venuto io pure ad incomodarla. Mi ha ritrovato a caso per istrada la signora Vittoria, e mi ha obbligato ad accompagnarla.
Giacinta. (Lo capisco, il perfido! lo capisco).
Rosina. Anzi mi ha fatto grazia; e sono obbligata di ciò alla signora Vittoria.
Giacinta. Dite, signora Vittoria, non era con voi il signor Ferdinando?
Vittoria. Sì, il signor Ferdinando è stato a pranzo da noi. Il signor Guglielmo si compiace poco di favorirmi, ed io, per non venir sola, ho profittato della compagnia del signor Ferdinando.
Giacinta. E che vuol dire ch’ei vi ha lasciata sola col signor Guglielmo?
Guglielmo. Egli è venuto fino alla porta di questa camera.
Vittoria. Ella parla con me, e volete risponder voi? (a Guglielmo) E che importa alla signora Giacinta che sia venuto o non sia venuto il signor Ferdinando?
Giacinta. M’importa, perchè queste signore hanno da presentargli una lettera della signora Sabina.
Rosina. Sì, certo. Eccola qui; e gliela devo dare in mano propria.
Costanza. Anch’io, stando qui, l’ho veduto in sala: non so dove si sia trattenuto.
Rosina. Sarà in casa; sarà in qualche camera. Io non lo vado a cercare sicuramente.
Costanza. (Non vorrei che si divertisse a far parlare quello stolido di Tognino).
Guglielmo. La signora Sabina scrive adunque una lettera al signor Ferdinando?
Rosina. Sì, signore, e l’ha consegnata a me.
Guglielmo. Sarà giusto che il signor Ferdinando risponda.
Rosina. Risponderà, se avrà volontà di rispondere.
Guglielmo. Vuole la convenienza, che quando si riceve una lettera, si risponda. (guardando Giacinta)
Giacinta. Bisogna vedere se la lettera merita una risposta.
Guglielmo. Qualunque lettera costringe le persone civili a rispondere; molto più se è una lettera onesta, scritta con sincerità e con amore.
Giacinta. L’amore non è lecito in tutti, e l’onestà si confonde talvolta coll’interesse.
Vittoria. Per quel ch’io sento, il signor Guglielmo e la signora Giacinta sono bene informati del contenuto di quella lettera.
Guglielmo. A tutti è nota la passione della signora Sabina.
Giacinta. E tutti sanno essere una passione che non merita di essere secondata.
Vittoria. Questa lettera la sentirei anch’io volentieri. Eccolo, eccolo, il signor Ferdinando.
SCENA IX.
Ferdinando, Tognino e detti.
Ferdinando. Venite qui, gioia mia, dolcezza mia, amabilissimo il mio Tognino.
Vittoria. (Oh bello!)
Costanza. (L’ho detto!)
Rosina. (Grand’impertinente è quel signor Ferdinando!)
Tognino. Padroni. Servitor suo.
Costanza. Andate via di qua. (a Tognino)
Ferdinando. Lasciatelo stare, signora, e portategli rispetto, che è maritato.
Costanza. Chi ve l’ha detto che è maritato?
Ferdinando. Mi è stato detto da lui.
Costanza. Non è vero niente. (a Ferdinando)
Ferdinando. Non è vero niente? (a Tognino)
Tognino. Non è vero niente. (a Ferdinando, mortificato)
Ferdinando. Oh! bene dunque, se non è vero, ci ho gusto. Se non siete sposato colla signora Rosina, sappiate che io ci pretendo, e che voi non l’avrete, e la sposerò io.
Tognino. Cu, cu! (fa il verso del cucco, burlandosi di lui)
Ferdinando. Cu, cu? Che cosa vuol dire questo cù, cù?
Tognino. Corpo di bacco! Vuol dire che la Rosina...
Rosina. Tacete voi. Dite al signor Ferdinando che vada a sposare la signora Sabina. Ecco una sua lettera che viene a lui.
Ferdinando. Una lettera della mia cara Sabina?
Rosina. Sì, signore, me l’ha consegnata questa mattina.
Ferdinando. Oh! cara la mia gioietta! La leggerò col maggior piacere del mondo.
Vittoria. La vogliamo sentire anche noi.
Costanza. Sì, certo, anche noi.
Guglielmo. Ricordatevi che alle lettere si risponde. (a Ferdinando)
Giacinta. Quando meritino d’aver risposta. (a Ferdinando)
Ferdinando. Benissimo, ci s’intende.
Vittoria. Leggete forte, che tutti sentano.
Ferdinando, Vi prometto di non lasciar fuori una virgola, (apre la lettera.)
Servitore. Signora, il signor Filippo, il signor Leonardo e il signor Fulgenzio, che bramano riverirla. (a Costanza)
Costanza. Dite loro che son padroni, che restino serviti. Portate qui delle seggiole. (al servitore)
Servitore. (Se ce ne fossero; ma non ce ne sono tante che bastino). (parte)
Vittoria. Mi dispiace ora quest’interrompimento. Vorrei sentir quella lettera. Date qui, non l’avete da leggere senza di noi. (leva la lettera di mano a Ferdinando)
SCENA X.
Filippo, Leonardo, Fulgenzio e detti.
Filippo. Servo di lor signori. (tutti si alzano)
Tognino. Oh! padrone, signor Filippo.
Filippo. Oh la bella figura!
Tognino. Vuol giocare a bazzica?
Filippo. Eh! non mi seccate. Giacinta, con licenza della padrona di casa, avrei bisogno di dirvi una parolina.
Costanza. Servitevi come vi piace.
Leonardo. Scusatemi, signore. Noi siamo qui per fare il nostro dovere colla signora Costanza. Non vi mancherà tempo di parlare alla signora Giacinta. (a Filippo)
Filippo. Ma io, quando ho qualche cosa nel capo, sono impaziente. La signora Costanza è buona, e me lo permetterà.
Costanza. Vi torno a dire, signore, accomodatevi come vi piace.
Giacinta. (Che mai vuol dirmi mio padre? Sono in un’estrema curiosità).
Filippo. Se ci favorisce una camera, le dico due parole, e poi torniamo qui a godere della sua amabile compagnia, (a Costanza)
Giacinta. Se la ci facesse questo piacere... (a Costanza)
Costanza. Perdonino, le camere sono ancora ingombrate. Se comandano, si possono servire in sala.
Filippo. Sì, sì, tutto comoda; andiamo, andiamo. Con permissione. (Oh io, quando si tratta di far presto e bene!) (parte)
Giacinta. Con licenza. Ora torno. (Mi trema il core). (parte)
Fulgenzio. (Oh! cosa sperate?) (a Leonardo)
Leonardo. (Pochissimo). (a Fulgenzio) (Ah! Guglielmo vuol essere la mia rovina). (parte)
Fulgenzio. (Se fosse mia figlia, o dovrebbe fare a mio modo, o crepare). (parte)
Tognino. (Voglio andare in cucina a sentir quel che dicono). (parte)
SCENA XI.
Vittoria, Guglielmo, Costanza, Rosina e Ferdinando.
Guglielmo. (Mi par di essere al punto di dover sentire la mia sentenza. Chi sa ancora ch’ella non sia favorevole?)
Ferdinando. Chi sa quanto staranno in questo loro colloquio; ed io muoio di volontà di leggere quella lettera.
Vittoria. Via, se la volete legger, leggetela. La sentiremo noi; e non mancherà tempo di farla sentire alla signora Giacinta.
Costanza. Confesso il vero, che la sento anch’io volentieri.
Rosina. Povera donna! quando me l’ha data, piangeva.
Ferdinando. Cospetto! pare scritta in arabico.
Vittoria. Signor Guglielmo, dormite?
Guglielmo. Signora no, non dormo.
Vittoria.(Io non so come abbia da essere con quest’uomo. Egli è tutto flemma, io son tutta foco).
Ferdinando. Ora ho principiato a trovare il filo.
Vittoria. Leggete tutto, e non ci fate la baronata di lasciar fuori qualche bel sentimento.
Ferdinando. Colla maggiore onoratezza del mondo. Sentite: Crudele: (tutti ridono moderatamente) Voi mi avete ferito il cuore; voi siete il primo che abbia avuto la gloria di vedermi piangere per amore. Se sapeste, se vi potessi dir tutto, vi farei forse piangere per compassione. Ah! la modestia non mi permette dir d’avvantaggio. Dacchè siete di qua partito, non ho mangiato, non ho bevuto, non ho potuto dormire. Povera me! mi son guardata allo specchio, e quasi più non mi riconosco. S’impassiscono le mie guancie, e il lungo pianto m’indebolisce la vista a segno che appena veggio la carta su cui scrivo. Ah! Ferdinando, cuor mio, mia speranza, bellezza mia. (tutti ridono) Ridete forse perchè mi dice bellezza sua?
Vittoria. Ci vede poco la poverina.
Rosina. Ha lippi gli occhi.
Costanza. Ha la lacrimetta perenne.
Ferdinando. Bene, bene. Ella conosce il merito, e tanto basta.
Vittoria. Sentiamo la conclusion della lettera.
Ferdinando. Meritereste che non leggessi più oltre.
Vittoria. Eh! via, vogliamo sentire.
Ferdinando. Dove sono? Dove ho lasciato?
Vittoria. Dormite, signor Guglielmo?
Guglielmo. Signora no.
Ferdinando. Ecco, l’ho ritrovato. Mia speranza, bellezza mia, venite per pietà a consolarmi. Ah! sì, venite; se voi mi amate, non sarò ingrata; e se non vi basta il cuore che vi ho donato, venite, o caro, che vi esibisco e prometto... Che diavolo! Scrive qui, che non si capisce; quando ha scritte queste due righe, convien dire che le tremasse molto la mano. Ora, ora, principio a intendere. Venite, o caro, che vi esibisco e prometto una donazione, la donazione, un’ampia donazione, vi prometto la donazione (un’altra volta) la donazione vi prometto di tutto il mio.
Vostra fedelissima amante e futura |
Vittoria. Bravo!
Costanza. Me ne consolo.
Rosina. E che vivano le bellezze del signor Ferdinando.
Vittoria. Sicchè dunque cosa risolvete di fare?
Ferdinando. Un’eroica risoluzione. Prendo immediatamente la posta, e me ne vo’a consolare, a soccorrere la mia adorata.
Sabina. Servitor umilissimo di ior signori. (parte)
Vittoria. Si va a consolar colla donazione.
Costanza. Povera vecchia pazza!
Vittoria. Signor Guglielmo, dormite?
Guglielmo. Non signora.
Vittoria. Non ridete di queste cose?
Guglielmo. Non ho voglia di ridere.
Vittoria. (Oh che satiro!)
Rosina. Oh! eccoli: il congresso è finito.
Guglielmo. (Sono in ansietà di sapere). (s’alza)
Vittoria. Pare che ora vi risvegliate. (a Guglielmo)
Guglielmo. Credetemi, che non ho mai dormito. (tutti si alzano)
SCENA XII.
Giacinta, Filippo, Fulgenzio, Leonardo e detti.
Filippo. Siamo qui, scusateci, signora Costanza.
Costanza. Padrone, signor Filippo.
Vittoria. Che nuove abbiamo, signor fratello? (con caricatura)
Leonardo. Buonissime, signora sorella; domani di buon mattino partirò per Genova.
Vittoria. Per Genova?
Leonardo. Sì, signora.
Vittoria. Solo, o in compagnia?
Leonardo. In compagnia.
Vittoria. Con chi, se è lecito?...
Leonardo. Colla signora Giacinta.
Vittoria. M’immagino che prima vi sposerete.
Leonardo. Senz’alcun dubbio.
Vittoria. E noi, signor Guglielmo?
Guglielmo. Va a Genova la signora Giacinta?
Giacinta. Sì, signore, vo a Genova: per grazia del cielo, di mio padre, e dell’amorosissimo signor Fulgenzio. Vi stupirete tutti ch’io vada a Genova, tutti vi farete le maraviglie che in un momento mi sia lasciata condurre ad una sì violenta risoluzione. Confesso che il distaccarmi dalla mia Patria, che abbandonare quella persona ch’io amo più di me stessa... parlo di voi, caro padre, padre mio tenerissimo; ah! nell’abbandonare un sì caro oggetto mi si stacca il cuore dal seno, ed è un miracolo ch’io non soccomba. Ma lo stato mio lo richiede, la mia virtù mi sollecita, l’onore a ciò mi consiglia. Chi mi ascolta, m’intende. Voi, sposo mio, m’intendete; voi, che nelle contingenze in cui siamo, miglior destino non potevate desiderare. Partirò da una Patria per me funesta, mi scorderò i miei deliri, gli affanni miei, le mie debolezze.... Sì, scorderommi, voglio dir, l’ambizione, la vanità, il fanatismo delle mie superbe villeggiature. Se seguitata avessi la strada incautamente calcata, chi sa in qual precipizio sarei caduta? Cangiando cielo, si ha da cangiar sistema. Ecco il mio sposo, ecco colui che mi destinano i numi, e che mi ha accordato mio padre. Io farò il mio dovere, facciano gli altri il loro. Signor Leonardo, domani si ha da partire: voi avrete gli affari vostri da porre in ordine. A me pure non mancheranno le occupazioni, gl’impicci. Senza perdere molto tempo in cosa che si può far sul momento, alla presenza del padre mio, della padrona di questa casa, di tutti questi signori, vi esibisco la mano, e vi ridomando la vostra.
Filippo. Ah! che ne dite? Mi fa piangere per tenerezza, (a Fulgenzio)
Leonardo. Sì, adorata Giacinta, se il vostro genitor lo acconsente...
Filippo. Contentissimo, contentissimo.
Leonardo. Eccovi la mano accompagnata dal cuore.
Giacinta. Sì, anch’io... (Oimè! mi si oscura la vista; non posso reggermi in piedi).
Leonardo. Oh cieli! impallidite? tremate? Ah! quest’è segno di poco amore. Deh! se forzatamente vi uniste meco...
Giacinta. No, forzatamente non mi conduco a sposarvi. Niuno potrebbe usarmi violenza, quand’io non fossi da me medesima persuasa. Scusate la debolezza del sesso, se non vi pare che meriti qualche lode la verecondia. Passar dallo stato di libera a quello di maritata non si può far senza orgasmo, senza una intema commozione di spiriti e di pensieri. Staccarsi tutto ad un tratto un affetto dal seno per introdurne un novello, lasciar il padre per seguire lo sposo, non può a meno di non agitar un cuor tenero, un cuor sensibile e indebolito. La ragione mi scuote. La mia virtù mi soccorre, ecco la mano: son vostra sposa. (dà la mano a Leonardo)
Leonardo. Sì, cara, io son vostro, voi siete mia. (dà la mano a Giacinta)
SCENA ULTIMA.
Tognino e detti.
Tognino. Nozze, nozze, evviva: si son fatte le nozze, (saltando)
Costanza. Sciocco!
Rosina. Ma via! Sempre lo mortificate. (a Costanza)
Leonardo. Signor Guglielmo, prima ch’io parta, mi lusingo che si stabilirà un po’ meglio l’impegno vostro con mia sorella.
Vittoria. Questa sera io spero che si sottoscriverà questa carta.
Giacinta. A che servon le carte? A che servon le scritture? A null’altro che a intorbidar gli animi e ad inquietare. Volesse il cielo ch’io avessi sposato il signor Leonardo quel giorno medesimo che io mi sono in carta obbligata. Vari disordini sono nati, che non sarebbero succeduti. La signora Vittoria ha in deposito la sua dote; che il signor Guglielmo si ricordi de’ suoi doveri, le dia la mano, e la sposi.
Vittoria. Dormite, signor Guglielmo?
Guglielmo. Non dormo, signora mia, non dormo. Sono bastantemente svegliato per intendere gli altrui detti, e per conoscere i miei doveri. Sono un uomo d’onore; se tal non fossi, non avrei impegnata la mia parola. Merita lode la signora Giacinta, meritano lode i di lei consigli; ho sempre ammirato la di lei virtù, e per ultimo contrassegno della mia stima, eccomi, signora Vittoria, eccomi pronto ad offerirvi la mano.
Vittoria. Per la stima che avete di lei, non per l’amore che voi provate per me?
Giacinta. Ha ragione la signora Vittoria, e mi maraviglio che siate sì poco compiacente...
Guglielmo. Non v’inquietate, di grazia; son ragionevole più di quel che credete. Signora Vittoria, assicuratevi di avere in me un conoscitore del vostro merito, uno sposo fedele, un rispettoso consorte.
Vittoria. Tutto, fuori che amante.
Leonardo. Finiamola con queste vostre caricature. O porgete ad esso la mano, o vi metterò in un ritiro.
Vittoria. Mi fa ridere il signor fratello. Signor Guglielmo, non forzata, come voi parete di esserlo, ma del miglior cuore del mondo vi do la mano.
Guglielmo. E per mia sposa vi accetto.
Vittoria. Abbiate almeno compassione di me. (a Guglielmo, teneramente)
Guglielmo. (Io merito più compassione di lei).
Tognino. Nozze, nozze, dell’altre nozze. (saltando)
Filippo. Sì, nozze, nozze. E quando si faranno le vostre nozze? (a Tognino)
Tognino. Sono fatte, le abbiamo fatte. Sì, sì, lo voglio dire, son maritato.
Costanza. Sciocco, imprudente, senza giudizio. (a Tognino)
Rosina. Sì, sì, non si può nascondere, si ha da sapere, ed ho piacere ch’ei l’abbia detto.
Giacinta. Compatisco la signora Costanza, s’ella desiderava di celare un maritaggio che può essere criticato; e voglia il cielo che non si lagnino un giorno questi due sposi, del comodo che ha loro offerto la troppo libera villeggiatura. Di più non dico; so io qual piacere ho provato, e quanto caro mi costa il divertimento. Lode al cielo son maritata; parto per Genova, e parto con animo risoluto di non rammentarmi che il mio dovere. Desidero a mia cognata quella pace e quella tranquillità ch’io bramo per me medesima. Supplico il caro mio genitore amarmi sempre, benchè lontano; e se non fosse temerità in me soverchia, lo pregherei di regolare un po’ meglio gli affari suoi, e villeggiar con giudizio, e spendere con parsimonia. Ringrazio il signor Fulgenzio del bene che dall’opera sua riconosco; e vi assicuro, signore, che non me ne scorderò fin ch’io viva. Fo il mio dovere colla padrona di questa casa; auguro ogni bene ai di lei nipoti. Riverisco il signor Guglielmo. (patetica) Parto per Genova col mio caro sposo. (risoluta) Prima di andarmene, mi si permetta rivolgermi rispettosa a chi mi ascolta e mi onora. Vedeste le Smanie per villeggiare5. Godeste le Avventure de’ villeggianti, compatite il Ritorno della campagna; e se aveste occasione di ridere dell’altrui cattiva condotta, consolatevi con voi stessi della vostra prudenza, della vostra moderazione, e se non siete di noi malcontenti, dateci un cortese segno d’aggradimento.
Fine della Commedia.
- ↑ Ed. Zatta: a casa.
- ↑ Così l’ed. Zatta. Nell’ed. Pasquali: Ehi! sì ecc.
- ↑ Così nel testo. Forse questa seconda didascalìa ti dovrebbe trasportare nella riga superiore, dopo le parole di Costanza.
- ↑ Così nel testo, per andrienne; nel dialetto veneziano andriè.
- ↑ Così nel testo. Certo sarebbe da preferire la semplice virgola.